Stefano Rodi, Sette 27/5/2016, 27 maggio 2016
L’ANIMA DELLO SPORT UN LIBRO ANALIZZA LA PERSONALITÀ DI 14 CAMPIONI LEGGENDARI, DA GIMONDI A SAGAN
L’ANIMA DELLO SPORT UN LIBRO ANALIZZA LA PERSONALITÀ DI 14 CAMPIONI LEGGENDARI, DA GIMONDI A SAGAN –
Il 20 aprile 1980 in Belgio di prima mattina c’è vento, la temperatura scende a zero gradi, e la pioggia diventa neve. Nella hall dell’albergo Ramada di Dolebreux, dove si trovano molti dei ciclisti che devono correre la 66esima edizione della Liegi-Baston-Liegi, una delle “classiche del nord” lunga 244 km, si incrociano sguardi perplessi. Sono corridori, non martiri. C’è uno, invece, che tira dritto e dice: «È vero, fa freddo. E allora? Io parto comunque». Si chiama Bernard Hinault, «bretone, non francese», figlio di un operaio addetto alla manutenzione dei binari delle ferrovie. Gli organizzatori puliscono la strada, per quel che si può. Alla fine partono tutti, sono 178. Ne arrivano 21. Più che una corsa è una gara ad eliminazione. Vince il bretone, con 9 minuti e 24 secondi di vantaggio sul secondo, l’olandese Hennie Kuiper. Non è un vantaggio ma un abisso. Hinault ha corso 150 km in mezzo a una bufera di neve, 70 sotto la pioggia, che a un certo punto è diventata anche grandine. Ha staccato i pochi avversari sopravvissuti alla sua ruota sulla salita di Haute Levee, quando mancavano ancora 84 km all’arrivo. Li ha fatti in solitaria: una cronometro individuale lunga più di due ore, una gara contro il tempo, in tutti sensi. Un altro «uomo solo al comando», entrato nella memoria collettiva. Un altro fenomeno di questo sport che, alla fine, chiude la sua carriera con cinque Tour de France, tre Giri d’Italia, due Vuelta di Spagna, due Liegi-Baston-Liegi, una Parigi-Roubaix e un Giro di Lombardia. Dopo Merckx è il ciclista ad aver vinto di più nella storia. Per raggiungere questi traguardi «ghe voerun i garun», come diceva Alfredo Binda. «Ci vogliono le gambe», ma non bastano: ci vuole soprattutto testa. E cosa c’è in quella di campioni capaci di compiere imprese come la “campagna di Russia” del bretone nella Liegi-Baston-Liegi? Oppure vincere tra muri di neve in cima a Stelvio e Gavia, o corse al massacro sul pavè della Parigi-Roubex.
A questa domanda prova a rispondere, un libro scritto da Giacomo Pellizzari che, anche senza essere mai stato campione, sa di cosa parla visto che di salite ne ha pedalate parecchie, solo per passione o per finire il più in gloria possibile qualche gara amatoriale. «Molti ciclisti hanno carattere, ma soltanto pochi, grazie a quel carattere», dice l’autore, «sono entrati nella leggenda. Negli ultimi 40 anni ne ho contati 14, quelli di cui si compone questo libro». Ognuno ha il suo aggettivo: quello di Hinault è “coriaceo”.
Una commedia umana. Gianni Bugno è l’“indecifrabile”: «Quando mi aspettavano non c’ero, ci sono stato quando non mi aspettava nessuno. Il primo a non capirmi sono io». Il bello dei campioni è che non sempre hanno un carattere da campioni. Una volta Bartali, che conosceva da vicino il cuore dei ciclisti, gli chiese: «Ma Bugno, perché hai paura di Bugno?». La sua è stata una carriera all’insegna di genio e insicurezza, talento e paura. Tutto un buttarsi avanti e tirarsi indietro. Vincere, stravincere, ma sempre con una sottile paura di farlo. Pellizzari, nel suo libro intitolato Il carattere del ciclista non si improvvisa psicologo; racconta episodi, aneddoti poco noti, vicende di cronaca, a volte non solo sportiva: il carattere dei 14 protagonisti vien fuori da lì. In tutte queste storie c’è un denominatore comune: il personale confronto con la fatica. «E, da questo punto di vista» osserva l’autore «la bicicletta è come l’alcool, uno straordinario meccanismo disinibitorio».
Resistenza in salita, coraggio in discesa, tenacia in pianura.
Sulla strada il carattere conta e fa la differenza. Messner una volta disse che «il ciclismo è lo sport che più si avvicina all’alpinismo, perché hanno in comune la conquista della cima e la fatica». E anche nell’alpinismo la testa conta parecchio. Uno che non sembrava averla tanto sulle spalle, e forse proprio per questo è entrato ed è rimasto nel cuore dei tifosi, è stato Claudio Chiappucci, lo “scriteriato”. Ha dominato tanto, ha vinto poco. Nessun Giro, Tour o Vuelta, nessuna classica del nord. Giocava per lo spettacolo, sulle strade, come Villeneuve in pista. «Ho corso per il pubblico»; anche quella volta che, al Tour de France del 1992, quando mancavano 192 km al traguardo, e c’era ancora da salire e scendere Iseran, Monginevro e arrivare a Sestriere, è partito. Ha staccato tutti ed è andato. Via, da solo. «In ciclismo, come in amore, vince chi fugge», ha scritto Montalelli in una delle sue cronache dal Giro. L’acuto del ciclismo sta lì, in quel gesto folle e irrazionale: uno che si mette contro tutti. Immortala chi lo compie, se non muore lui. «Ogni tanto mi chiedevo: “Ma chi me l’ha fatto fare?». Per oltre sei ore un altro uomo solo al comando, che arriva vittorioso fino al traguardo. Un cerchio di Giotto, disegnato con la bicicletta su è giù per le montagne. Compiuto d’istinto, come solo uno scriteriato può fare.
Anche nelle storie dei campioni il destino gioca sempre la sua parte. Nel caso di Gimondi per esempio, battezzato da Pellizzari lo “iellato”, gli ha messo tra le ruote il più forte corridore di sempre, Eddie Merckx, “l’ingordo”. Moser, il “generoso”, ricorda che dovevano darsi il cambio per riuscire a stare dietro a Merckx, quando questo si metteva a tirare. Un destino più amaro quello di Pantani, con gatti che gli tagliano la strada e auto che arrivano contromano. Prima si rompono le ossa, poi qualcosa si rompe anche dentro.
I 14 campioni, con il carattere che ha fatto storia, sono un campionario talmente variegato, intrigante e ricco di umanità che li fa uscire dalla pagine strettamente sportive. È il caso di Laurent Fignon, per esempio: “l’introverso”.
Professionista dal 1982 al 1992, era un bellissimo ragazzo, biondo, con l’aria da esistenzialista parigino, con occhialini da intellettuale che indossava anche in gara, in un’epoca in cui il casco era ancora roba da astronauti. In Francia era diventato una star, lo adoravano, ma il calore dei tifosi sembrava metterlo a disagio. L’attenzione dei media, peggio. Un fuoriclasse, chiuso in sé stesso, che ha vinto due Tour e un Giro.
Molti anni dopo scoprì di avere un tumore in stadio avanzato, incurabile. Lui, che aveva sempre tenuto tutti alla larga, lo scrisse nella sua autobiografia, intitolata Eravamo giovani e spensierati, uscita nel giugno 2009. Morì il 31 agosto 2010 a Parigi, dove era nato 50 anni prima esatti. La moglie aveva voluto una cerimonia privata in chiesa. Ma poi al cimitero Père-Lachaise cominciò ad arrivare gente. Alla fine una folla, che si era data lì un appuntamento segreto e silenzioso. Dietro, un po’ defiliato, c’era un signore tarchiato, con grossi occhiali da sole calcati sul naso: Bernard Hinault. Era stato il primo capitano del giovane Fignon. Poi, per diversi anni, il suo vero rivale. Due idoli, non solo in Francia: uno coriaceo, l’altro introverso.