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 2016  maggio 26 Giovedì calendario

LA LEGGE PRIVATA DEI COMUNI ITALIANI


Se il metro per giudicare il lavoro di un vigile è il numero di contravvenzioni fatte in un anno, allora quell’agente torinese è un tutore della legge modello: 1.800 verbali l’anno, 150 al mese, una macchina da rapporto grandemente apprezzata dai vertici, visti i tanti soldi portati nelle casse del Comune. I colleghi, invece, mugugnano, probabilmente seccati da tanto zelo. Così, siccome sul luogo di lavoro si fa presto a trasformare l’irritazione in delazione, qualcuno si prende la briga di denunciare il modo in cui il “civic” fa strage di divieti di sosta: una telecamera montata sulla forcella della moto d’ordinanza, e via con le multe a strascico, senza darsi il fastidio di scendere per completare il verbale. A casa, in tutta comodità, il vigile (di cui non s’è saputo il nome: sorprendente garantismo in un Paese dove qualsiasi conversazione privata, magari pruriginosa ma penalmente irrilevante, può finire sui giornali) sbobina il video e compila contestazioni su contestazioni. Peccato che una cosa simile sia illegale. Perché il divieto di sosta non fa parte delle infrazioni che possono essere accertate a distanza. Perché le apparecchiature devono essere omologate. E perché i verbali non contestati immediatamente costano al cittadino di più a causa delle spese di notifica (la cui ingiustificata esosità è un’altra vergogna tutta nostrana).
Scoperto il trucco, imbarazzo del comandante della Municipale Alberto Gregnanini, ché pare difficile fosse all’oscuro dell’andazzo. Per fortuna, il ministero dei Trasporti guidato da Graziano Delrio: ha sconfessato l’operato dei vigili sabaudi, chiarendo che si può ricorrere contro questi verbali per evidente vizio di forma (ma nessuno può sapere com’è stata elevata la sanzione: la vittoria pare dunque improbabile).
A Milano, nel frattempo, la giunta Pisapia ne combina un’altra, dopo il capolavoro degli accertamenti postdatati per rendere validi verbali che altrimenti sarebbero stati notificati oltre i termini di legge. Fino all’anno scorso, i quadricicli elettrici (le Renault Twizy, per intenderci) potevano percorrere le corsie riservate. Poi a Palazzo Marino decidono d’interpretare le regole in maniera diversa: questi mezzi, prima equiparati alle moto, con un colpo di circolare interna si tramutano in automobili. Ed ecco partire dagli uffici della Locale centinaia di contravvenzioni, perché nessuno s’è preoccupato di avvisare o di mettere uno straccio di cartello. Costernazione di chi s’era comprato l’elettrica mosso dalle migliori intenzioni e si vede arrivare a casa una pila di multe. L’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran, di fronte al montare dello scandalo ci mette una pezza, dicendo che basta appellarsi al giudice di pace e finisce lì. Subito viene contraddetto dall’avvocatura del Comune, che invece si precipita a impugnare i ricorsi. Finché l’amministrazione, in una doppia capriola carpiata, dopo aver smentito sé stessa smentisce pure i propri avvocati, annunciando una sanatoria (le imminenti elezioni suggeriscono cautela, si vede).
A Roma, nel frattempo, la città aveva voluto dare un messaggio di trasparenza lanciando l’app IoSegnalo, grazie alla quale i cittadini possono denunciare i problemi sulle strade. Andrea U. (il suo cognome si sa: l’anonimato, da noi, si ritaglia su misura dell’interessato) è esasperato dall’anarchia che regna al Pigneto, il quartiere dove abita, e non esita a denunciare il caos. Un giorno comunica che in una via c’è un muro di macchine in seconda fila. Subito viene convocato sul posto. Lui ci va, sperando in un sussulto di legalità. Effettivamente lì trova ad attenderlo sette vigili. I quali – invece di congratularsi per il senso civico – gli chiedono di smetterla di usare l’app inventata dal Campidoglio, perché hanno tanto da fare e non possono stare a inseguire queste continue seccature.
Ora, può dirsi civile un Paese in cui le istituzioni calpestano in modo così plateale i diritti dei cittadini?

Gian Luca Pellegrini