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 2016  maggio 25 Mercoledì calendario

PERCHÉ SVENTOLA LA BANDIERA


Alla Nuova Zelanda è servito un referendum per decidere se cambiare o meno la vecchia bandiera. Il popolo ha optato per la tradizione e così si sono tenuti simboli e colori del 1869. Ma si tratta di un’eccezione: più frequenti sono i casi in cui si decide di cambiare, anche se siamo abituati a pensare alla bandiera come a un presidio di tradizioni impermeabili ai mutamenti. Perché questo pezzo di stoffa è uno scrigno che racchiude storia, simboli e valori di una nazione. Qualcosa, insomma, da “maneggiare” con cura e un pizzico di soggezione.

BIANCA PER LA RESA. Fra gli Stati che non ci hanno pensato due volte a rovesciare la tradizione c’è la Georgia, che nel 2004 rialzò sui suoi palazzi lo stendardo storico usato nel Medioevo. Ma il più creativo è stato, nel 2006, l’allora presidente venezuelano Hugo Chávez: oltre a inserire nel “firmamento” a sette stelle della bandiera nazionale un ottavo astro per riaffermare la rivendicazione di un territorio conteso con la Guyana, invertì – tra mille contestazioni – la direzione di marcia del cavallo che campeggia nello stemma: il bianco destriero ora corre da destra verso sinistra, in omaggio alle idee politiche dell’ormai defunto presidente. E poi Malawi, Myanmar... l’elenco dei Paesi che “sventolano” novità potrebbe continuare. La vessillologia, cioè lo studio di questa particolarissima forma di comunicazione istituzionale, è in effetti una disciplina in continuo aggiornamento. Con tante norme particolari per ogni nazione, persino sulle guarnizioni dell’asta (cordoni, fiocchi, frange, cravatte...) o sul modo di ripiegare una bandiera dopo averla ammainata.
Fatta eccezione per la convenzione universale sulla bandiera bianca quale sinonimo di resa, ben poche di queste regole sono condivise. La forma, per esempio: in genere è rettangolare, ma Svizzera e Città del Vaticano fanno eccezione con le loro insegne quadrate. Fuori dal coro anche la bandiera a coda di rondine dell’Ohio (Usa), o quella davvero unica del Nepal, formata da due triangoli sovrapposti. Il tutto senza contare le mille fogge degli stendardi comunali, militari, sportivi, aziendali o di altro genere, ognuna definita da un preciso termine tecnico: fiamma, cornetta, piedigallo, guidone, gagliardetto e via enumerando. Anche sui colori non ci sono vincoli. A complicare ulteriormente la questione c’è il fatto che pur esistendo sodalizi di cultori della disciplina, come la Federazione internazionale studi vessillologici (Fiav, con una filiazione anche in Italia, il Cisv), manca in effetti un’autorità di controllo sovranazionale che possa dirimere controversie in materia: men che mai concedere copyright su questo o quell’emblema. Ogni Stato di conseguenza si regola come vuole, e questo può generare equivoci imbarazzanti. Indonesia e Principato di Monaco, per esempio, hanno bandiere bicolori assolutamente identiche: rosso sopra e bianco sotto (al contrario, invece, si ottiene la Polonia). L’Italia ha avuto a lungo un problema simile col Messico: tecnicamente il nostro tricolore è quasi identico alla sua controparte latinoamericana. A differenziare quest’ultima c’è un’aquila reale appollaiata su un cactus e con un crotalo nel becco, ma il simbolo non era presente nella versione navale della bandiera. Ciò rendeva indistinguibili a un primo sguardo le imbarcazioni dei due Paesi. Sollecitati dalle autorità marittime internazionali, nel secondo dopoguerra Italia e Messico rimediarono creando nuove versioni navali: nel nostro caso inserendo nella bandiera l’emblema araldico della Marina Militare con gli stemmi delle antiche Repubbliche marinare.
Ulteriori sovrapposizioni possono poi crearsi con l’alfabeto internazionale delle bandiere, usato per i messaggi navali: un marinaio che sventola il tricolore francese e la bandiera biancoazzurra della Finlandia non è in preda a una crisi d’identità, ma sta segnalando rispettivamente le lettere T e X!
Le ragioni di tanta complessità? Vanno ricercate nella storia e nella simbologia delle bandiere, chiamate a vestire lo spirito e gli interessi dei popoli. Nate in ambito militare per segnalare spostamenti di navi oppure di truppe, si sono evolute lentamente lungo un percorso che parte dal vexillum delle legioni romane, passa per gli elaborati stendardi delle Case regnanti e si definisce nel XVIII secolo, col sorgere dei moderni Stati nazionali e l’adozione di iconografie più stilizzate.

AQUILA O TACCHINO? Decisamente in anticipo sui tempi il Dannebrog, la bandiera danese, le cui origini leggendarie risalgono al 1219: il suo elemento distintivo, la cosiddetta croce scandinava, ha fatto scuola in tutta l’area del Nord Europa. Il simbolo cristiano è del resto uno dei più comuni tra le bandiere del mondo occidentale, così come lo è la mezzaluna in quelle islamiche. Anche immagini meno ovvie hanno comunque avuto una certa fortuna: dalla costellazione della Croce del Sud, usata da vari Paesi dell’emisfero australe, fino al bizzarro triskelion formato da tre gambe umane interconnesse. Questa raffigurazione, paradossalmente, identifica due terre diversissime e lontane: la Sicilia e l’Isola di Man, dipendenza britannica nel Mare d’Irlanda. Quanto agli accostamenti cromatici e alla loro disposizione, il tricolore francese ha fatto scuola sia per gli italiani sia per molti altri, ma ovviamente i modelli di riferimento sono diversissimi, come anche i significati che ogni Paese attribuisce a ciascun colore. Per il più gettonato di tutti, il rosso, il riferimento è in genere al sangue versato per la libertà della patria.
Non illudiamoci comunque che una bandiera basti. Il vessillo standard è infatti affiancato da versioni “speciali”. E il caso per esempio delle bandiere di guerra, utilizzate dalle Forze armate di alcune nazioni. Talora le differenze che le caratterizzano sono vistose: la bandiera delle Filippine, ad esempio, nella sua versione bellica ha i colori invertiti. E così quella nell’autoproclamato Stato islamico, l’Isis, il cui inquietante drappo scuro è a tutti gli effetti una bandiera di guerra: la versione “pacifica”, con le scritte coraniche nere su fondo bianco, non è mai stata utilizzata. Bandiere esclusive sono poi gli stendardi reali, presidenziali o di alte cariche di governo. In quello del presidente degli Stati Uniti troneggia la celebre aquila calva americana, che l’inventore e patriota Benjamin Franklin invece detestava a tal punto da proporre di sostituirla con il ben più prosaico tacchino. E sempre a proposito di simboli, abbondano le icone cupamente minacciose: lance tribali per lo Swaziland, un machete per l’Angola, una scimitarra per l’Arabia Saudita e addirittura un fucile mitragliatore AK-47 per il Mozambico.
E il passato delle bandiere, cioè l’araldica? Come tutti gli anziani capifamiglia ha ancora un ruolo importante, con blasoni e simboli regali tuttora sparsi qua e là nei vessilli di molti Paesi (e non solo di quelli retti da monarchie). A volte con qualche concessione di troppo. Lo stemma nazionale russo che fa bella mostra di sé nello stendardo presidenziale di Vladimir Putin, per esempio, è ancora sormontato dalla corona imperiale degli zar. Una svista? Non sono pochi i detrattori che giurerebbero di no.
Adriano Monti Buzzetti Colella