Marco Consoli, Focus 6/2016, 25 maggio 2016
LA FORMULA DELL’INFINITO
Ken Ono, matematico nippoamericano premiato con il più alto riconoscimento scientifico degli Usa da Bill Clinton e oggi docente alla Emory University di Atlanta, non ha problemi ad ammettere i propri pregiudizi: «Se ricevessi una lettera da un ragazzo di uno sperduto paesino indiano che mi chiedesse di dare un’occhiata alle formule matematiche che ha scoperto, penserei a un impostore». Strano, per una persona che ha dedicato parte della vita e delle proprie ricerche a esplorare le sequenze di numeri di Srinivasa Ramanujan. Che a 26 anni, nel 1913, mandò una missiva simile a G. H. Hardy, professore al Trinity College di Cambridge dove era considerato un’autorità della teoria dei numeri, quella parte della matematica che è fatta di calcoli complicatissimi ma non ha applicazioni immediate. «Il motivo è che pur conoscendo la vicenda di Ramanujan», spiega Ono, «il suo esempio è unico: una persona che dalla condizione più sfavorevole si è rivelata come una delle menti più geniali del Novecento».
Per questo Ono, dopo aver appreso da adolescente la storia del matematico indiano, si è appassionato al punto da seguirne la strada e approfondirne gli studi, come racconta nel libro My Search for Ramanujan. E da partecipare come produttore a L’uomo che vide l’infinito, la videobiografia in uscita il 9 giugno interpretata da Dev Patel e Jeremy Irons.
CALCOLI A MEMORIA. Anche Hardy alla vista della lettera fu molto scettico su questo impiegato che da Madras sosteneva di avere trovato qualcosa di unico: «Molte formule contenute nei suoi fogli erano già conosciute», racconta Ono, «ed alcune addirittura sbagliate, perché Ramanujan era un autodidatta con un livello di istruzione pari a quello di un liceale, acquisito grazie ad alcuni libri inglesi di matematica che gli avevano prestato. Ma un paio tra esse erano tanto originali che Hardy pensò che un imbroglione non avrebbe potuto immaginarle». Il professore di Cambridge, insieme al suo collega Littlewood, le studiò e intuì che doveva invitare Ramanujan in Inghilterra per capire da dove provenissero quei numeri: «Ramanujan non aveva solo straordinarie capacità di eseguire calcoli a memoria, ma era in grado di immaginare formule del tutto inattese per le conoscenze matematiche dell’epoca», spiega Ono. Così, dopo essere stato escluso da due college in India perché perdeva tutto il proprio tempo dietro la sua amata matematica, il giovane indiano ricevette l’invito del college più prestigioso d’Inghilterra, anche se prima di accettare impiegò un po’, perché la sua condizione di bramino praticante gli impediva di solcare i mari. Ma alla fine sognò la dea Namagiri, che gli ordinò di partire.
ISPIRAZIONE... DIVINA. Quello che tormentava Hardy era che le formule di quel giovane brillante non erano dimostrate: e lui per convincersi della loro validità desiderava una dimostrazione, anche se intuiva che questa mancava perché Ramanujan aveva ricevuto un’istruzione precaria. «La maggior parte dei matematici come me e come Hardy», continua Ono, «svolge il proprio percorso di studi, si laurea e si specializza; e poi, nel tentativo di rispondere ad alcuni quesiti, ipotizza una formula e ogni tanto riesce anche a dimostrarla. La scienza di solito fa piccoli passi in avanti facendo leva sul lavoro di migliaia di specialisti e di risultati acquisiti nel corso degli anni, e molto raramente ci sono alcune eccezionali scoperte frutto di veri geni, come Ramanujan». Ma come poteva un autodidatta come lui vergare queste pietre miliari della matematica se le fondamenta del suo ragionamento erano così fragili? «Aveva quella che lui chiamava un’ispirazione divina, perché riteneva che a suggerirgli le combinazioni di numeri incomprensibili ai più fosse la dea Namagiri». Da una parte c’era dunque il metodo scientifico di Hardy, che voleva le prove di ciascuna scoperta, e dall’altra quello non ortodosso di Ramanujan, sicuro di ogni propria intuizione per grazia divina «ma anche», precisa Ono, «perché nessuno gli aveva insegnato a trovare le dimostrazioni». Nonostante l’approccio differente, tra i due si stabilì un rapporto di collaborazione che superò la classica relazione tra mentore e allievo, tanto che Hardy, dopo aver aiutato l’indiano a diventare membro della prestigiosa Royal Society londinese, avrebbe poi ammesso che la collaborazione con il giovane genio sarebbe stato il risultato più alto della propria carriera.
CULTURE DIVERSE. Sbarcato in Inghilterra nell’aprile del 1914, Ramanujan rimase a Cambridge quasi 5 anni. Ma la sua vita non fu facile. Accolto con grande scetticismo dai colleghi di Hardy ed emarginato da più di qualche studente, faticò ad adattarsi alla vita occidentale: non soltanto al modo di vestire, tanto che ottenne, unico al Trinity College, una dispensa per poter girare senza scarpe com’era abituato a fare in India, ma anche alla dieta così diversa, messo in difficoltà dalla scarsità di verdure causata dalla Prima guerra mondiale, una vera e propria sciagura per un vegetariano come lui. Ciononostante la sua passione per la matematica era tale che lavorando con Hardy fu in grado di dare un apporto unico alle scienze matematiche. «Per esempio», racconta Ono, «i due riuscirono a scardinare il concetto di partizione, trovando una formula per stabilire quanti modi diversi ci sono di scrivere un numero come somma di altri numeri». Con numeri molto grandi, il problema diventa ingestibile e solo grazie alla formula di Hardy e Ramanujan iniziò a trovare soluzione. «Quando nel 1960 furono creati i primi computer», continua Ono, «bisognava capire se eseguivano correttamente i calcoli e fu usata proprio la loro funzione per testarli». Ramanujan era un vulcano di idee: spesso rispondeva ai dubbi e alle richieste di spiegazioni di Hardy con nuove formule originali. Persino sul letto di morte nel 1920 in India, dove era tornato l’anno prima già malato di quella che si credeva tubercolosi ma probabilmente era un’infezione epatica, scrisse al proprio mentore e amico una lettera in cui diceva di avere scoperto nuove funzioni, chiamate “mock theta”: «Ne descrisse alcune proprietà e ne incluse 17», spiega Ono, «ma non spiegò quale fosse la loro definizione. Perciò, fino al 1990, rimasero un mistero per i matematici di tutto il mondo. Solo negli ultimi anni si è iniziato a capire che rappresentano esempi di altre funzioni, chiamate forme di Maass, che sarebbero state teorizzate solo 20 anni dopo la sua morte. E che sono state usate nello studio dei buchi neri e per la teoria delle stringhe».
È difficile spiegare a un non matematico la straordinarietà delle scoperte di Ramanujan, dice Ono, ma quelli che sembravano solo calcoli di numeri spesso oscuri, «si sono rivelati fondamentali per applicazioni in vari campi come l’ottimizzazione delle connessioni tra vari punti senza causare sovraccarichi, utilizzata oggi per le reti di computer o le rotte delle linee aeree». E per continuare Ono aggiunge che Ramanujan è stato il primo a introdurre idee sulla cui base oggi si effettua il calcolo dei decimali molto lontani dalla virgola della costante pi greco, utilissimi per applicazioni nella finanza e nell’industria.
INTUIZIONI E STUDIO. «Non c’è dubbio che il più grande enigma che riguardi la sua vita sia da dove Ramanujan traesse ispirazione per le sue formule apparentemente magiche», dice Ono. Anche se a volte la leggenda sulla sua intuizione ha superato la realtà: un giorno Hardy lo andò a trovare in ospedale in Inghilterra, dove giaceva malato, e gli raccontò di aver preso un taxi targato 1729, pensando che fosse un numero insignificante. E rimase sorpreso quando Ramanujan gli fece subito notare che era il più piccolo numero possibile che poteva essere espresso come somma di due cubi in due modi differenti (ovvero 1729= 1³+12³=9³+10³). «Ma nei suoi quaderni conservati a Cambridge abbiamo scoperto che quella descritta come una fulminante intuizione», spiega Ono, «era in realtà il risultato di ricerche che Ramanujan aveva già compiuto. Ciò non toglie che fosse una mente straordinaria, perché aveva immaginato la teoria delle superfici K3 40 anni prima che fossero definite». Capire la grandezza delle sue scoperte è stato difficile anche perché nei suoi quaderni, alcuni dei quali non pubblicati e trovati negli Anni ’70, spesso non c’erano spiegazioni a parole ma solo numeri; e non tutti i segni matematici corrispondevano a quelli occidentali, perché aveva creato un suo linguaggio di notazioni personali che dovette essere interpretato. Di fronte a un genio di tali proporzioni e con una storia tanto singolare viene da chiedersi come mai il suo nome non sia celebre come quello di altri matematici e scienziati: «Perché di solito diventa famoso chi ottiene un risultato straordinario immediatamente riconoscibile da tutti», conclude Ono, «mentre la grandezza delle formule di Ramanujan è stata apprezzata solo molto dopo la sua morte, quando si è capito che esse anticipavano, spesso di decenni, alcune delle scoperte di altri matematici».
Marco Consoli