Nicola Nosengo, Focus 6/2016, 25 maggio 2016
FACCIAMO UN PIENO DI GAS SERRA
È il nemico numero uno del clima. Il suo nome è diventato sinonimo delle emissioni nocive che dalle automobili, dalle ciminiere, dalle caldaie finiscono nell’atmosfera. È l’anidride carbonica, CO₂: uno dei gas responsabili dell’effetto serra, che trattiene il calore solare sulla superficie del nostro pianeta, causando il riscaldamento globale. Come ridurne l’impatto? Diversi scienziati hanno progettato impianti per catturarla e stoccarla per millenni nel sottosuolo. Ma l’ideale sarebbe riuscire a trasformarla in una risorsa, come fanno – gratis – le piante: grazie alla fotosintesi, infatti, i vegetali trasformano la CO₂ in ossigeno e glucosio. E se potessimo farlo anche noi, convertendo questo gas dannoso in preziosi combustibili?
NASTRO. Basterebbe “riavvolgere il nastro” della reazione di combustione: in questa, si bruciano gas naturale o petrolio e si ottengono calore, anidride carbonica e acqua. Ma questa stessa reazione chimica, se svolta in senso contrario, potrebbe usare la CO₂, per produrre metano, o altri idrocarburi: gli scienziati ci stanno lavorando, anche in Italia, con risultati promettenti. Ma, per rendere questo processo applicabile su scala industriale, occorre superare alcuni ostacoli tecnologici, e, soprattutto, politici.
Ma com’è possibile un risultato del genere? Il primo problema da risolvere è separare la CO₂ dalle altre molecole a cui è mescolata nei gas di scarico, dei grandi impianti, come le centrali dove si produce energia bruciando carbone, metano o gasolio, o stabilimenti come le acciaierie che consumano molta energia. «Alcune industrie, come i birrifici, producono CO₂, quasi pura», aggiunge Vincenzo Barbarossa dell’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile). «Purtroppo, invece, recuperarla dai gas di scarico delle automobili è ad oggi impensabile». E montare su ogni auto un dispositivo per isolarla avrebbe un costo proibitivo.
FUMI. Esiste invece una tecnologia consolidata – ma poco efficiente – per risucchiare l’anidride carbonica dai gas di scarico industriali. I fumi vengono raccolti e fatti reagire con una soluzione di acqua e ammine (composti simili all’ammoniaca) che possono assorbire la CO₂, lasciando da parte le altre molecole a cui è mescolata nei gas di scarico. Riscaldando poi il liquido a circa 140 °C si può “distillare” la CO₂,. Il problema è che quest’ultimo passaggio richiede parecchia energia. In più, le ammine sono sostanze tossiche. Una soluzione più recente prevede l’uso di materiali nanoporosi: cristalli di particelle metalliche legate da un “collante” di molecole organiche a base di carbonio. Questi materiali somigliano a spugne, con minuscoli pori che si ripetono a dimensioni e distanze regolari uno dall’altro. Se questi fori sono delle dimensioni giuste, possono inglobare le molecole di CO₂ , ma non le altre. Al Politecnico Federale di Losanna (Svizzera), Berend Smit guida un istituto dedicato alla ricerca su questi materiali: li progetta al computer, calcolando quanta energia servirebbe per rivestire con essi le pareti di una centrale, catturare la CO₂, e poi liberarla – passaggio che richiede di riscaldare il materiale spugnoso. Risultato: in teoria, il processo sarebbe fino al 30-40% più efficiente di quelli attuali.
FENICE. Ammettiamo quindi di aver ottenuto la nostra scorta di CO₂, pura, che possiamo trasportare sotto pressione. Cosa possiamo farne? All’Enea di Casaccia (Roma) hanno avuto un’idea notevole: usarla per ottenere metano. L’impianto sperimentale, chiamato Fenice in onore del mitologico uccello che rinasceva dalle proprie ceneri, usa una reazione chimica nota da oltre un secolo, la reazione di Sabadier. In pratica, grazie a una serie di processi chimici, dall’acqua e dall’anidride carbonica, tramite un processo in più fasi, si può ricavare il gas che brucia nei nostri fornelli di casa.
Il problema è che prima bisogna ottenere idrogeno puro, cosa che si può fare con l’elettrolisi: si fa passare corrente elettrica attraverso l’acqua, “spezzandola” in idrogeno e ossigeno. E questo passaggio richiede molta energia. «O questa energia si ottiene da fonti rinnovabili, oppure il gioco non vale la candela», spiega Barbarossa, che è responsabile tecnico dell’esperimento. Se l’energia per l’elettrolisi venisse da fonti tradizionali, infatti, non faremmo che emettere CO₂ da una parte e recuperarne un po’ da un’altra. Quindi, per alimentarsi, Fenice usa pannelli solari, e produce circa 250 litri all’ora di metano. Un quantitativo dimostrativo, ma la tecnologia si potrebbe applicare anche a una centrale più grande. Come spiega Barbarossa, la soluzione ideale sarebbe usare l’energia in surplus prodotta dalle fonti rinnovabili nei momenti di minor richiesta energetica.
«Oggi non tutta l’energia rinnovabile prodotta dagli impianti solari o eolici esistenti va in rete», aggiunge Barbarossa. «Durante i momenti di picco, per esempio quando la luce del Sole è al massimo, ci sarebbe un eccesso di energia: perciò in quel momento si lasciano ferme le pale eoliche». Ma se tutti gli impianti che producono energie rinnovabili fossero sempre attivi, si potrebbe immetterne una parte in rete, e usare quella in eccesso per produrre metano dalla CO₂,. E non solo metano: cambiando il catalizzatore (ovvero usando il rame al posto del nickel), l’impianto può sintetizzare anche metanolo che si può usare direttamente nei motori, oppure lavorare ulteriormente per produrre dimetiletere, un gas facile da trasformare in liquido combustibile e da usare, per esempio, al posto del Gpl. I test sono tuttora in corso. Il progetto dell’Enea è uno dei tanti che tentano di trasformare in “oro” l’anidride carbonica. Alla George Washington University (Usa), Stuart Licht ha costruito un sistema molto efficiente per produrre metanolo. Inizia con una cella fotovoltaica molto potente che concentra la luce del Sole su uno strato di materiale semiconduttore, che trasforma il 38% dell’energia dei raggi solari in elettricità. Quell’elettricità finisce poi su due celle chimiche: una divide l’acqua in idrogeno e ossigeno, l’altra separa la CO₂, in ossigeno e ossido di carbonio. Il vantaggio è che parte dell’energia del Sole è recuperata per preriscaldare queste due celle, riducendo così l’energia elettrica necessaria per innescare le reazioni. Da ossido di carbonio e idrogeno si può poi ricavare metanolo.
DALL’ARIA. Di recente, due ricercatori dell’Università della California, G.K. Surya Prakash e George Olah, sono riusciti a fare un ulteriore passo avanti: prendere la CO₂, direttamente dall’atmosfera. Si prende l’aria che respiriamo, la si pompa in una soluzione di ammine in cui è presente un catalizzatore a base di rutenio, e si mette il tutto sotto pressione. Riscaldando il composto a 125 °C si ottiene una soluzione di acqua e metanolo, e negli esperimenti di Prakash circa il 79% della CO₂, presente nell’aria diventa metanolo (che poi va “distillato” per separarlo dall’acqua).
ISLANDA. E se l’energia solare è il candidato più naturale a fornire energia per alimentare questo tipo di impianti, in alcune zone del pianeta ci sono alternative anche migliori. In Islanda, per esempio, la Carbon Recycling International è la prima azienda mondiale a produrre e vendere carburanti ottenuti dalla CO₂. Il suo impianto è sorto a fianco di una centrale geotermica, che produce corrente elettrica sfruttando il calore prodotto dal sottosuolo vulcanico dell’isola. Parte di quell’energia elettrica è usata per ottenere idrogeno dall’acqua, e poi produrre metanolo con una reazione simile a quella utilizzata da Fenice. I vapori geotermici forniscono in questo caso anche la “riserva” di CO₂ ad alta concentrazione. Insomma, le tecnologie per trasformare la CO₂, in una risorsa ci sono. E allora perché non si fa normalmente? «Perché a oggi buttare la CO₂, nell’atmosfera è molto più conveniente», risponde Barbarossa. Il sistema di compravendita delle emissioni, creato dal protocollo di Kyoto, doveva servire a rendere costoso, per Paesi e singole aziende, emettere CO₂,.
«Ma al momento il costo delle emissioni è molto basso, pochi euro a tonnellata. Se poi il prezzo del petrolio scende, come sta avvenendo negli ultimi tempi, è chiaro che inquinare, purtroppo, conviene», chiarisce Barbarossa.
Ma se le emissioni fossero tassate molto più di oggi e si arrivasse a 40-50 dollari a tonnellata, allora usarla per fare metano o altri combustibili diventerebbe interessante per molte aziende.
Nicola Nosengo