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 2016  maggio 21 Sabato calendario

IL LATO B DELLA MERITOCRAZIA. LA FORTUNA AIUTA I FORTUNATI


Sono nato in febbraio. Ho imparato a sciare da piccolo e anche a pattinare sul ghiaccio, anche se non ho mai pensato di dedicarmi a questi sport. Se però fossi nato negli Stati Uniti o in Canada, da una famiglia di classe media, se avessi deciso di diventare un atleta e se avessi scelto di praticare hockey su ghiaccio, probabilmente avrei avuto successo e magari sarei passato professionista, forse sufficientemente bravo e famoso da ottenere uno di quei contratti multimilionari che in Europa si danno solo ai calciatori. Come avrete notato, i “se” in questa ipotetica storia alternativa della mia vita sono parecchi, ma tutti partono da una realtà non contestabile: la data di nascita. Assieme alla frequentazione precoce degli sport invernali, la data di nascita fa sì che il 40% dei giocatori professionisti di hockey nel mondo sia venuto al mondo in gennaio, febbraio o marzo, mentre solo il 10% è nato tra ottobre e dicembre. Perché? La ragione viene spiegata dall’economista americano Robert H. Frank nel suo nuovo libro Success And Luck, che ha per sottotitolo Good Fortune and the Myth of Meritocracy. Già, il merito, nuovo vitello d’oro dei tempi moderni, ideologia dai piedi d’argilla che per il momento regola le nostre vite e, soprattutto, giustifica una ripartizione della ricchezza a vantaggio degli ultraricchi (“miliardario” non dà il senso della posizione sociale di chi possiede 76 miliardi di dollari, come Bill Gates). Frank mette in fila una lunga serie di aneddoti sul ruolo della fortuna nel successo personale, in tutti i campi.
Per quanto riguarda l’hockey, il predominio dei giocatori nati nel primo trimestre dell’anno dipende dal fatto che le ammissioni nelle leghe giovanili vengono fatte il 1 gennaio. Questo significa che quest’anno, per esempio, sono stati inseriti nella stessa squadra i ragazzini nati fra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2000: ma a 16 anni c’è una differenza significativa nel peso, nell’altezza, nella velocità, fra chi ha 12 mesi di più (i nati il 1° gennaio) e chi ha 2 mesi di meno (i nati il 31 dicembre dello stesso anno). Chi ha 12 mesi in più non è più bravo, è semplicemente più adulto a confronto con compagni di squadra che il caso ha fatto nascere qualche mese dopo di lui.
Per un fenomeno ben noto agli economisti che si chiama positive feedback loop (ovvero fattori positivi che si rafforzano l’un l’altro), i nati il 1° gennaio appaiono agli allenatori più forti e più promettenti, quindi ricevono più attenzioni, fanno più esperienza, il che si traduce in effettivi miglioramenti: diventano più bravi non grazie al talento naturale (che ci vuole) o alla dedizione allo sport (obbligatoria) ma grazie alla data di nascita. O, meglio, grazie al circolo virtuoso che talvolta essa innesca (ci sono anche molti studi sul rapporto tra risultati scolastici e data di nascita).
Guardiamo adesso al luogo di origine. Frank, che è nato nel 1945, descrive la persona «più intraprendente e piena di talento» che ha incontrato nei suoi 71 anni di vita. Si tratta di qualcuno in grado di riparare un tetto, aggiustare un orologio, risuolare scarpe, stuccare un muro e cucinare benissimo: il suo nome è Birkhaman Rai ed è nato in Nepal, dove l’economista della Cornell University lo incontrò parecchi decenni fa. Naturalmente, Rai non è diventato miliardario, né famoso, né un modello per gli studenti di Princeton o della Bocconi.
Secondo l’economista Branko Milanovic, che l’anno scorso ha analizzato il luogo di nascita e la disuguaglianza come fattori determinanti nelle opportunità di carriera di una persona, metà delle differenze di reddito individuali dipendono da questi elementi casuali. Il tema è stato affrontato anche da Robert Putnam nel suo ultimo libro, Our Kids, dove descrive i percorsi di vita di alcuni suoi ex compagni di scuola, nati come lui a Port Clinton, in Ohio, ma assai meno fortunati nelle loro carriere.
Dicevamo di Bill Gates: i suoi circa 76 miliardi di dollari di patrimonio personale corrispondono, per esempio, al salario medio annuale di due milioni di lavoratori americani messi insieme. Oppure, se volete, al compenso di un migliaio di lavoratori per 2000 anni, dalla nascita di Cristo a oggi. Certo, la produttività ai tempi di Augusto non era quella attuale, e gli stipendi nemmeno, ma resta il fatto che tutte le ricchezze di Cleopatra o di Sardanapalo erano probabilmente molto inferiori a quelle accumulate nelle prime dieci posizioni della lista di Forbes dei più ricchi del mondo, guidata appunto da Gates.
Frank si occupa di lui perché è nato nel 1955 ed è andato alle superiori esattamente nel momento – la fine degli anni ’60 – in cui i computer abbandonavano le schede perforate e iniziavano a diventare delle macchine più “amichevoli”. Il talento e la determinazione di Gates non avrebbero dato gli stessi risultati se la famiglia non lo avesse iscritto a una scuola privata dove gli studenti avevano un accesso illimitato ai computer e potevano esercitarsi nella programmazione, cosa allora rarissima. Senza queste condizioni di partenza, forse Gates si sarebbe dedicato ad altro, o la sua passione per l’informatica non avrebbe dato come risultato la Microsoft, peraltro cresciuta fino a diventare quello che è grazie all’incredibile ingenuità della Ibm nelle trattative sul sistema operativo per la macchina del futuro, il “personal” computer (un’idea che fino al 1975 sembrava fantascienza). Bill Gates è diventato l’uomo più ricco del mondo grazie a una buona dose di fortuna che molti altri genietti dell’informatica, altrettanto intelligenti e meritevoli, non hanno avuto.
Perché è importante discutere di merito e fortuna? Perché, come scrive Frank, «la retorica della meritocrazia ha fatto enormi danni» convincendo gli ultraricchi di questo mondo che si meritano ciò che hanno, per quanto smisurate e oscene siano le loro ricchezze. Si noti che la parola stessa, meritocracy, fu inventata dal sociologo inglese Michael Young nel 1958 come satira del sistema educativo inglese, incredibilmente classista, mentre oggi viene usata esclusivamente in senso positivo.
Prendere in conto il fattore fortuna nelle politiche pubbliche significherebbe, per esempio, cercare di attenuare le inevitabili differenze dovute al luogo e alla famiglia di nascita fornendo strutture e politiche che aiutino chi è nato sulla Sila anziché ai Parioli, chi va a scuola a Scampia invece che in via della Spiga. A dire la verità, qualcuno a suo tempo ci aveva pensato: nella Costituzione del 1948, quella che il governo ora vuole cambiare, sta scritto (art. 3): «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».