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 2016  maggio 24 Martedì calendario

NEI LORO PANNI

Come impara a volare un’aquila? Che gusto ha il cibo di un tasso? Come si carpisce la fiducia a un cucciolo di panda? Per arrivare a una risposta la strada più affascinante e radicale è una sola: mettendosi nei loro panni. Qualche estroso naturalista lo ha fatto. Animati dalle ragioni più diverse, ecco le storie, i protagonisti e i risultati di chi vissuto per qualche tempo con gli animali selvatici. Trasformandosi in uno di loro.

TASSI E CAPRE. L’esperimento più recente è quello di Charles Foster, ex avvocato e autore del libro Being Beast (Essere un animale), appena uscito in Inghilterra. Con il figlio Tom, di soli 8 anni, Foster ha vissuto per settimane come un tasso, nelle campagne del Galles britannico, cercando da mangiare lungo le siepi e i canali, dormendo di giorno e uscendo “a caccia” di notte. «Potete vederla come una forma di campeggio estremo», racconta, «e mio figlio si è adattato molto più rapidamente di me, partecipando con entusiasmo. Posso dire che davvero è diventato un fantastico tasso». Foster racconta di aver mangiato, tra le altre cose, larve di insetto e lombrichi, i quali hanno un sapore che varia secondo il luogo dove sono stati raccolti, anche se spesso ha integrato la magra dieta con il cibo portato da un amico volenteroso. «Vivere da tasso non è molto facile per noi uomini», continua Foster, «per loro è l’olfatto il senso più sviluppato e la vista non è molto importante, mentre per noi è esattamente l’opposto». Successivamente Foster si è dedicato ad altre specie, le lontre e soprattutto le volpi urbane, passando dai parchi di città ai bidoni della spazzatura, imitando lo stile di vita opportunista di questi mammiferi che in Inghilterra si spingono regolarmente tra le abitazioni. «Le volpi sono piene di risorse e sono meglio adattate di noi a vivere alla giornata. Molte sono piene di acciacchi, ma se la cavano comunque bene». Non contento, ha anche provato a fare il cervo e il rondone, ma con minore successo, per sua diretta ammissione. Vagare per le campagne inglesi fingendo di essere ogni mese un animale diverso può apparire un progetto un po’ folle, anche per il più radicale degli studiosi del comportamento animale, ma nel caso di Foster il motore è stato soprattutto filosofico: «Viviamo in un modo che non è più naturale. Vedere il mondo con i sensi degli animali mi ha sempre affascinato e mi ha aiutato a ritrovare me stesso, dopo un momento di crisi. Per tornare a essere davvero umano, ho pensato di dover trascorrere un periodo da animale».
Il caso di Foster non è isolato, visto che il ricercatore inglese Thomas Thwaites, 35 anni, anche lui autore di un libro sul tema (GoatMan, How I Took a Holiday from Being Human), ha provato nello stesso periodo a vivere da capra. Il suo disegno originale prevedeva di unirsi a un branco di elefanti indiani, ma l’impresa risultava rischiosa e complessa. Le più banali capre hanno comunque riservato non poche sfide, come mangiare erba o camminare con apposite protesi sulle braccia per muoversi in modo più credibile.

BALLO COI LUPI. Ma queste esperienze sembrano quasi domestiche rispetto a chi ha investito molto più tempo ed energie insieme ad animali decisamente più pericolosi. Un po’ di anni fa (2005) fece scalpore il naturalista inglese Shaun Ellis che visse per un anno e mezzo con un branco di lupi. In Inghilterra non ci sono lupi liberi, perché sono stati sterminati secoli fa, così Ellis condusse il suo “esperimento” in un grande parco recintato (Wolf Pack Management nel North Devon). Armato di ottime conoscenze sui lupi ottenute grazie a un lungo soggiorno nei parchi del Nord America e di grande determinazione, dormì con i predatori, condivise il cibo con loro, lottò per avere un proprio spazio nel branco, riuscendo anche a portare alla maturità tre giovani individui abbandonati dalla madre. La cosa più difficile? Mangiare con i lupi, direttamente dalle carcasse, prendendo con la giusta dose di aggressività la propria parte, che spesso era una porzione di carne leggermente cotta e controllata riservata a lui, inserita all’interno dell’animale morto portato dal personale del parco. Secondo Ellis vivere come un lupo è stato un passaggio indispensabile per comprendere a fondo questi animali. «La cosa più importante è capire le gerarchie e rispettarle sempre, interagendo con gli animali come un membro del gruppo, senza usare segnali propri della nostra specie». Per questo il naturalista britannico ha imparato a imitare le espressioni facciali, i suoni, il linguaggio corporeo e anche ad avere l’odore dei lupi, utilizzando sempre gli stessi indumenti. L’esperienza di Ellis, che ovviamente è conosciuto come wolfman (l’uomo lupo), è sicuramente la più radicale compiuta fino a oggi e gli ha fornito una solida esperienza sul comportamento di questi animali. Oggi, felicemente sposato con una compagna con le stesse passioni, lavora sempre con i lupi (anche se non vive più con loro) e insegna alle persone a gestire cani problematici.

CON I LEONI. Non manca chi ha puntato ancora più in alto, dedicandosi ai predatori più pericolosi delle savane africane: i leoni. Il sudafricano Kevin Richardson, soprannominato “the lion whisperer” (letteralmente “colui che sussurra ai leoni”) si è formato in un “lion park” (che non è un vero parco naturale, ma un parco a tema nel quale osservare i grandi carnivori in aree naturali recintate) vicino a Johannesburg. Qui ha imparato a interagire con i felini. Diversamente da Ellis, non ha dovuto sgomitare con i leoni per accedere a una porzione di antilope e zebra e non ha neppure vissuto full time con loro, ma ha creato un rapporto unico con un gruppo di individui. Il suo percorso è cominciato con Tau e Napoleon, due giovani leoni che ha allevato personalmente e portato all’età adulta. Adesso il “lion whisperer” al suo Kevin Richardson Wildlife Sanctuary di leoni ne gestisce una trentina, che sa riconoscere con uno sguardo e che abbraccia (per quanto possibile con un felino di 200 chilogrammi) e coccola come ingombranti micioni. Anche se i video e le foto emozionanti che lo ritraggono in azione sembrano suggerire il contrario, il sudafricano sa benissimo quello che sta facendo: tutti gli animali con cui interagisce in questo modo sono stati allevati da lui fin dalla nascita, compresi i maschi più grandi (un leone è adulto in un anno e mezzo e può vivere anche 15 anni). Con loro, nel corso degli ultimi 12 anni ha costruito un rapporto speciale, basato sulla fiducia reciproca guadagnata con lunghe passeggiate fatte con i predatori nella savana. La sua ricetta? Non avere regole rigide, riconoscere che ogni leone è diverso dall’altro ma soprattutto non reagire impulsivamente. I leoni non si possono dominare fisicamente, ed è importante sapere dove fermarsi quando si ha a che fare con loro. Quindi niente scontri fisici seri, niente fughe e un sesto senso per levarsi dai piedi al momento giusto. Anche se i grandi felini rimangono il suo soggetto preferito, Richardson ha lavorato molto anche con le iene macchiate, che con lui hanno una totale confidenza. Pare apprezzino moltissimo i grattini sul collo.

METODI DISCUTIBILI. L’approccio anticonvenzionale di “naturalisti autodidatti” quali Ellis e Richardson viene visto con sospetto da alcuni scienziati, soprattutto perché le loro esperienze riguardano animali in cattività (anche se in enormi proprietà nel caso di Richardson) e non hanno prodotto veri studi scientifici. In pratica i loro detrattori vedono molto spettacolo e poca scienza. L’“uomo lupo” e “colui che sussurra ai leoni” sono, in effetti, ottime idee per far parlare di sé e i due sono stati protagonisti di una nutrita serie di articoli, documentari e servizi televisivi. Indubbiamente c’è una forte componente di spettacolo in quello che Ellis e Richardson hanno fatto (decisamente meno per le capre di Thwaites e i tassi di Foster, anche se l’originalità va premiata), ma loro si difendono mettendo sul piatto i risultati e l’impegno per la conservazione. «Nessuno si è spinto dove siamo arrivati noi, raccogliendo così tante informazioni sulle possibili interazioni tra uomo e grandi predatori e la nostra storia ha un grande potenziale educativo», racconta Ellis. «Il rispetto sembra essere la parola chiave per entrambi: non dobbiamo diventare amici di questi animali, ma lasciare loro lo spazio di cui hanno bisogno». Richardson, in particolare, ammette di non fare ricerca ma sa che le sue esperienze possono contribuire a proteggere un animale che può essere terribilmente pericoloso (si contano circa 4-500 vittime di leoni ogni anno in Africa) ma che è sempre più minacciato. Delle centinaia di migliaia di questi felini presenti nelle savane africane di un secolo fa, oggi ne rimangano circa 25-30.000, suddivisi in tante popolazioni diverse. Gran parte del suo lavoro è oggi incentrato sulla conservazione di questi animali e del loro ambiente naturale, «perché un’Africa senza leoni liberi non sarebbe più la stessa».

VOLIAMO INSIEME. Per Angelo D’Arrigo, grande atleta e campione di deltaplano scomparso dieci anni fa, la convivenza con gli uccelli è stato un percorso necessario per realizzare il suo obiettivo: riuscire a volare come loro. D’Arrigo ha coltivato fin da piccolo il sogno di volare, oltremodo affascinato dalle intuizioni di Leonardo. Da formidabile atleta quale era (sue la prima traversata del Sahara e del Mediterraneo in deltaplano e il primo sorvolo dell’Everest), D’Arrigo si interessò sempre al volo degli uccelli, all’inizio per mettere a punto tecniche di volo sempre più evolute, poi impegnandosi anche in azioni di studio e conservazione di diverse specie, tra cui le famose aquile reali con le quali è stato spesso ritratto. Per poter “lavorare” con loro, le allevava fin da piccole. La sua esperienza con Nike, per esempio, iniziò quando il rapace era solo un pulcino. D’Arrigo e l’aquilotto vissero come padre e figlio: gli insegnò a cacciare, a volare e a prendere familiarità col deltaplano con il quale poi avrebbero volato insieme sul Sahara. Nel 2002 guidò addirittura un piccolo gruppo di gru siberiane nate in cattività dal Circolo polare artico al Mar Caspio, con un volo complessivo di ben 5.300 chilometri, supportato dai suoi sponsor e da un’equipe di ornitologi.
Il suo ultimo progetto riguardava due condor delle Ande, Maya e Inca, che stava allevando personalmente prima di morire. La sua idea era reintrodurli nella loro terra d’origine, le vette delle Ande peruviane, dopo aver condotto alcuni voli di guida e acclimatamento con loro. La sua prematura scomparsa (aveva 45 anni) gli impedì di concludere il suo sogno, ma i due rapaci vennero comunque liberati in Perù grazie all’impegno della sua famiglia.
Folli e meravigliose anche le imprese del meteorologo e naturalista francese Christian Moullec che ha allevato oche facciabianca di persona per un motivo preciso: indicare loro aree sicure (lontane cioè dai cacciatori) dove migrare, facendosi “seguire” grazie a un velivolo ultraleggero. Per riuscire in questa impresa ha sfruttato l’“imprinting”, una caratteristica degli uccelli appena usciti dall’uovo di memorizzare e seguire colui che li accudisce alla nascita, anche se si tratta di qualcosa di molto diverso da loro, come un gentile signore francese. «In pratica sono il padre adottivo di questi uccelli, ma se voglio davvero che si abituino a me devo stare sempre con loro. Quindi li tengo in casa e dormiamo anche insieme. È abbastanza scomodo, ma il risultato è che mi accettano nei loro grandi viaggi», spiegava qualche anno fa l’ornitologo. Il progetto ha funzionato così bene che il documentarista Jacques Perrin ha utilizzato le oche di Moullec per alcune delle sequenze più suggestive del suo film Il popolo migratore (2001).
Francesco Tomasinelli