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 2016  maggio 21 Sabato calendario

LA LEGGE DEI FLUIDI


Dice l’esperta di previsioni marketing Jaclyn Suzuki che stiamo per assistere a una fuga dall’identità «senza precedenti». E quella dall’identità sessuale, la cosìddetta gender-fluidity, era solo l’inizio, «la parte più glamour e mediaticamente sfruttabile di un fenomeno allargato e che potrebbe avere conseguenze quasi più rivoluzionarie. Perché a diventare fluide saranno sempre di più anche le etnie, i ruoli familiari, le carriere e perfino le generazioni. Per questo mi annoio quando vedo che viene riportato tutto solamente alla galleria di star bisex e dalla sessualità aperta, da Jaden Smith a Miley Cyrus. Affascinanti, ma non è tutto», racconta Suzuki al telefono da Austin, dove ha appena tenuto una conferenza sul tema al prestigioso SXSW Interactive, il festival di tecnologie, musica e altro, considerato un passaggio obbligatorio per restare aggiornati, come devono aver pensato Michelle Obama e Iggy Pop che c’erano. Quest’anno si è parlato di androidi e futuro degli algoritmi (in attesa che diventino meno discriminatori e per esempio la smettano di fornire offerte di lavoro mediocri alle donne). E poi si è discusso di “Fluidità e Onestà”, cioè quelle che per Suzuki (direttore creativo di Ziba che è una di quelle società di consulenza transmondiale con sedi a Portland e Tokyo), sono le parole chiave per intuire i cambiamenti sociali fino al 2025 e suggerire come influenzeranno i consumi a startup, marchi e multinazionali da Microsoft a McDonald.
E anche se la fluidità dovrebbe arrivare a investire la vita di tutti, nasce proprio dalla generazione Z, i nati dopo il ’95 che al massimo compiono 20 anni adesso. «Non c’è solo il fatto che i 2/3 di loro sono convinti che il genere non conti né li definisca come persona e solo il 48% sia pronto a dichiararsi eterosessuale rispetto al 65% dei più anziani Millennials (dati dell’agenzia JWT). C’è il salire delle minoranze etniche al 47% della popolazione negli Stati Uniti e poi nel mondo per via delle nuove migrazioni», comincia a elencare Suzuki, che invita a guardare il video della campagna elettorale #VoteTogether di Bemie Sanders su YouTube. Paragonata all’obamiano “Yes We Can” por potenza comunicativa: «Il gesto esatto che si fa con un’infinità di facce, età, etnie completamente diverse è strappare ogni immagine a metà per farla ricomporre con un’altra». Che tu sia bianco o black, gay o etero, conta solo nella misura in cui le identità sono intercambiabili. “Il nostro compito non è dividere, ma far convivere tutte le diversità, insieme”, recita epocale lo spot. Le chiedi che ne sia dell’obiettivo di eleggere il primo presidente donna, come due mandati fa per gli americani ci fu quello di eleggere il primo presidente nero. «Non è più la loro top-prioriry, non per questa generazione», aggiunge Suzuki, che rimanda allo slogan girato sui social del femminismo della “quarta onda”: «Smettetela di dirmi che devo votare Hillary perché è femmina». Non è ingratitudine verso le baby-boomer che hanno combattuto per la parità, è che le loro eredi considerano superato il metodo delle lotte di genere, perché finisce per dimenticare altre discriminazioni (i più poveri, le minoranze etniche) nel nome di un solo gruppo e cioè le donne, mediamente ricche e bianche. La nuova parola è intersectionality: usata in principio per spiegare come le marginalità siano interconnesse e non è corretto isolare una dall’altra (femministe, neri, gender-non conforming). Se sono passate a sostenere Sanders, per quanto non sia bastato, anche ultraquarantenni come la comica Sarah Silverman o la 69enne Susan Sarandon, il successo dell’“intersezionalismo” fa riflettere sul potere di influenza degli ultimi arrivati. Viene in mente che anche il nuovo partito di Yanis Varoufakis si dice inclusivo e transnazionale (e infatti Sanders lo ha appoggiato). Suzuki fa notare come prima della politica sia arrivata la buffa e geniale campagna pubblicitaria ideata dall’agenzia newyorkese di David Droga per il sistema operativo Android, il più usato «perché si adatta a tutti i telefonini, risultando più inclusivo del rivale iOs compatibile solo con Apple: nello spot Friends Furever, guardatelo se potete, ci sono gatti che allattano pulcini, un cane che condivide uno spaghetto con un pappagallino, pecore che giocano con gli elefanti: “BeTogether. Not the same”», insieme, diversi. Il concetto è quello.
Fluidi pure i ruoli familiari. «Molti hanno visto i genitori perdere il lavoro o dover vendere la casa, le traversie post-crisi li hanno responsabilizzati e costretti ad adattarsi. Nelle mie ricerche ho conosciuto ragazzini che preparano regolarmente la cena perché i genitori lavorano nel tech quindi senza orario, altri cresciuti con il padre a casa o con genitori gay in ambienti dove i compiti non sono assegnati in base a criteri tradizionali. La facilità con cui oggi cambiano gli assetti familiari, per divorzi o altro, porta al passaggio di ruoli frequente tra i componenti e da un anno all’altro». Di qui alla fluidità applicata al sistema educativo, da cui il neologismo hackschooling: «Manomettere il sistema tradizionale dell’insegnamento scolastico per migliorarlo, reinterpretazione dello smanettare illegale degli hacker». Qui si invita a guardare uno dei “discorsi” (sul canale TED o su YouTube) dell’oggi 15enne Logan LaPlante: un ricciolone in cappellino rosa che spiega alle masse con la scioltezza di un predicatore come la vecchia concezione del diventare adulti, sintetizzata in “studia, trovati un lavoro, fai dei figli e solo dopo potrai, forse, essere felice”, sia da buttare. Suo padre l’ha ritirato da scuola garantendo di provvedere altrimenti, sostituendo il banco con una costellazione di sedi diverse per una formazione ricca e variata. «La scuola, come ogni cosa, è fatta per essere “hacked”. Siate opportunisti e flessibili. Studiare è un remix», recita LaPlante un tantino sopra le righe: spiega come uno stage alla Moment Factory, compagnia di produzione che cura show per gli Arcade Fire o Madonna, gli abbia fatto capire perché è importante esser bravi in matematica, creativi e perfino saper cucire. E come una volta a settimana passi un “outside all day”, tutto il giorno fuori casa quasi forzatamente, per imparare a cavarsela. «Non si sta dicendo che l’istruzione deve diventare anarchica, ma introdurre fluidità nei programmi è qualcosa da cui non si potrà prescindere, se non si vuole che i ragazzini lascino la scuola rivendicando che anche Mark Zuckerberg era un drop-out», commenta Suzuki.
«Questi ragazzini avranno tre carriere prima di aver raggiunto i 30 anni. Passare da una professione all’altra diventa un punto di forza e non sintomo di inaffidabilità o indecisione». La generazione Z si darà più da fare delle precedenti. «La generazione X, i 50enni oggi, si è detta: “Oops, il mondo si è rotto per colpa dei baby boomer che hanno sperperato risorse finché ce n’erano”, rifugiamoci nella alt-culture, alternativa, con attitudine ironica e perdente. I Millennial si sono detti: “Oops, il mondo si è rotto, troviamo un luogo dove stare coi nostri simili, sui social.” La generazione Z è stata così sovraesposta a eventi globali di ogni genere, catastrofi o successi, da sapere che la sfida è darsi da fare: tirati su dalla generazione X, che almeno non ha commesso l’errore di fargli credere di essere speciali, dandogli libertà di essere se stessi, onesti».
Metteteci il ruolo di Internet nel fornire una varietà di modelli infinita, che loro hanno assimilato mentre si facevano cauti con la privacy, preferendo a Facebook Whisper o Snapchat, per non lasciare tracce in rete. O inventandosi il fenomeno “Finstagram”: si creano su Instagram un account fake, sotto pseudonimo, noto a pochi, dove mostrare una versione più vera di sé. «Scaltri e pragmatici, hanno tutti i numeri per influenzare i più anziani: da qui l’uso delle aziende di affiancare un neoassunto a un vecchio dipendente, per dargli una scossa creativa». Si cambia verso al flusso dell’apprendimento. Perché il pericolo, per scuola, aziende, marchi, è perdere la loro attenzione, o i loro soldi.
«Non hanno bisogno di etichette per far sapere chi sono, non credono che a definirli siano i marchi come per le generazioni passate. Dal mito dell’esclusività (essere unici) a quello delle personalità multiple, dell’universale (vestiti o tecnologie) e dell’estremamente specialistico». Soprattutto: «Non si prevede che questi ventenni torneranno facilmente a orientamenti sessuali, opzioni professionali, abitative, familiari più rigide, invecchiando», ride Suzuki. Siamo stati tanto a tormentarci sulle crisi di identità, non ci saranno più: sembra tutto bellissimo.