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 2016  maggio 20 Venerdì calendario

CREPUSCOLO E NOSTALGIA DEI REALITY SHOW


Prima che le serie tv diventassero la nuova letteratura e il nuovo cinema c’è stata un’epoca in cui i reality erano la nuova televisione. Nuova da spazzare via tutto quello che c’era stato prima, anche se nessuno parlava di «golden age» e non dicevamo «binge watching». All’alba dei reality, i toni erano quelli del tramonto della civiltà e – va da sé – lo erano soprattutto da noi. Nell’estate del Duemila, a ridosso della prima italiana del Grande Fratello, Eugenio Scalfari ebbe una visione: la fine del mondo e della cultura così come li avevamo conosciuti sin qui. In uno straziante editoriale di Repubblica spiegò che sì, il Paese era pieno di problemi, c’era il tracollo dello Stato sociale, la legge elettorale da approvare, il conflitto di interessi, ma lui avrebbe parlato di qualcosa di ben più grave. Avrebbe parlato «della trasmissione in corso di allestimento su Canale 5 dal titolo Il Grande Fratello». Perché questa sarà «la fine del giornalismo, del teatro, della letteratura, del cinema». Perché sarà «seppellita la poesia e con essa i poeti e le persone aiutate dalla poesia a vivere attimi di commozione e partecipazione al creato». Perché anche «tornassero Flaubert o Stendhal, Dostoevskij Tolstoj, Faulkner o Virginia Woolf», non se li filerebbe più nessuno (non si capisce mai se in questi elenchi Woolf vada sempre ultima perché ha la “W” o perché femmina). Ma insomma, noi che cosa potevamo fare? Scalfari intravedeva due soluzioni possibili. La prima era sperare nella tenuta degli ascolti di Un medico in famiglia, «una fiction ottimamente riuscita»; però, «conoscendo l’indole dei nostri concittadini che sono tutti voyeur», diceva Scalfari, era un’ipotesi da scartare. Ecco allora l’idea di una radicale resistenza attraverso la poesia: «Sembra che parecchi giovani siano sensibili alla poesia. Forse bisognerebbe organizzare nelle case e magari nei teatri letture di poeti mentre la tivù trasmette Il Grande Fratello; sarebbe un modo di fare resistenza. Brigate partigiane che leggono poesie; è un’idea, parliamone: da cosa nasce cosa». Brigate-partigiane-che-leggono-poesie era, bisogna ammetterlo, una bella idea. Ricorda un po’ quegli anziani che nei paesi si facevano il segno della croce quando passava il treno, emblema diabolico della modernità. Alla fine, però, non se ne fece nulla. Peccato, perché nel frattempo col crepuscolo dei reality e la tv che è diventata «quality tv», l’idea di Scalfari non si può riprendere. Le mai costituite brigate partigiane stanno in casa a ingozzarsi di serie americane, volendo c’è pure Virginia Woolf in Life in Squares, la miniserie BBC sui triangoli amorosi del Bloomsbury Group, e puoi anche guardarla dicendo «non ho la tv», che vuoi mettere. Ecco. A noi ogni tanto manca quella televisione che indignava gli intellettuali, allarmava gli psichiatri, incatenava i giornali a oscuri dibattiti sulla sorveglianza di Foucault, la privacy di Rodotà, il voyeurismo, confini della finzione, Truman Show, 1984 e l’immancabile quarto d’ora warholiano che in tv si porta sempre e qui si portava di più.
Ora che anche le serie hanno raggiunto il loro picco e ancora nessuno sa che cosa succederà dopo, noi proviamo a ricordarci com’eravamo all’alba dei reality, cioè della più grande rivoluzione televisiva degli ultimi trent’anni. «Non avrei mai creduto di poter stare davanti alla tv a guardare persone che dormono». Nelle ricerche sulle audience delle prime edizioni di Big Brother ritorna spesso questa osservazione. Perché sto guardando qualcuno che dorme? In effetti, non s’era mai visto nulla del genere prima. La reality television degli anni Novanta aveva portato le telecamere un po’ ovunque, dalle stazioni di polizia alle sale operatorie, tra incidenti, rapine e omicidi che mescolavano factual e fiction, come nelle serie “emergency”, tipo 999 che andava in onda su BBC One. Poi c’era stato The Truman Show, il film. Ma il format creato da John De Mol per Endemol aveva aperto un territorio inedito. Il Grande Fratello degli inizi non era raccontato come un incubatore di aspiranti celebrities, ma come esperimento di psicologia sociale. Uno show a metà tra una soap-opera, gli esperimenti sull’obbedienza di Milgran e le teorie di Goffman sulla «vita quotidiana come rappresentazione». Uno show in cui nessuno poteva prevedere quel che sarebbe successo. Più che l’Andy Warhol del famigerato quarto d’ora, qui si portavano alle estreme conseguenze i suoi film: Sleep, trecentoventi minuti di camera fissa su un uomo che dorme, o Empire, la stessa cosa ma con l’Empire State Building al posto dell’uomo, ma ora infilandoci in più la diretta, la competizione e il coinvolgimento essenziale del pubblico. Altra intuizione fondamentale fu quella di spostare l’effetto di realtà dallo spazio urbano alla “casa”, cioè in uno spazio televisivo. Un passaggio decisivo dal punto di vista produttivo, perché è qui che la reality television entra nella sua fase globale. Lo spazio asettico dello studio era riproducibile in tutti i Paesi. La casa di Big Brother e l’isola di Survivor diventano due archetipi narrativi pronti per essere replicati e venduti in un mercato internazionale. Il nostro primo Grande Fratello fu quello di Daria Bignardi, di Pietro Taricone, di Fabrizio Rondolino e del sessanta per cento di share. Bignardi ebbe l’astuzia di infilarsi in un programma atteso come un esperimento comportamentale e di sfilarsi subito dopo, quando iniziò a essere considerato trash e basta. Rondolino, invece, espiava lo scandalo hard del suo secondo romanzo Einaudi contenente frasi come «sono sdraiato sopra Beatrice con l’attrezzo a metà conficcato nel suo culo pastoso e inondo quasi subito il buco allentato», che andava anche bene se non fosse stato portavoce di Massimo D’Alema. Mediaset lo prese come responsabile della comunicazione del GF: «È una sfida intellettuale di grande fascino», diceva Rondolino, «l’arte e la letteratura sono fondate sul voyeurismo, prenda Madame Bovary, e poi c’è anche il neorealismo, Visconti, i pescatori veri che recitano un copione finto che diventa realtà».
In un gioco di specchi con la parabola di Rondolino, Rocco Casalino sarebbe passato dalla prima edizione del Grande fratello all’ufficio stampa dei Cinque Stelle. Ma l’unico di cui ci oggi ci ricordiamo è Taricone: il primo divo nell’epoca dell’autofiction, emblema dei post-italiani con bicipite di Edmondo Berselli, metà arcaici, metà postmoderni (ma qui ancora pre-tatuati). Amante dei “puttantour”, divulgatore di Nietzsche e Hermann Hesse, neoliberista precoce, invitava le donne a stirare e negli Intoccabili faceva il tifo per Al Capone. Noi facevamo il tifo per lui. Fece vendere molte riviste e ispirò teorie sull’italianità a sociologi, opinionisti e intellettuali. Nel frattempo, c’erano le prime vittime da dipendenza. Gli psichiatri lanciavano l’allarme. Si credeva fosse pericoloso per gli adolescenti. Macché. Scoprivamo che in Italia, le persone più a rischio erano pensionati, casalinghe e cassaintegrati tra i cinquanta e i sessant’anni. «Vivono da soli, hanno problemi di identità, questo l’identikit delle prime vittime da Grande Fratello», così i giornali. Congressi, giornate di studio, dibattiti. Si presentavano casi clinici: «I primi casi sono stati scoperti a Palermo e Roma e presentati ieri al Congresso di Psichiatria di Torino. Guardando Il Grande Fratello quasi tutto il giorno, queste persone hanno cominciato a sentirsi parte del gruppo fino a vivere una falsa vita di famiglia con i personaggi del reality». «Una persona che stiamo monitorando», dicevano gli psichiatri di Torino, «li chiama addirittura amici». Erano solo pronti per Facebook. I cassaintegrati di Roma e le casalinghe di Palermo precorrevano i tempi, vivendo più o meno come la maggior parte degli abitanti del pianeta nell’epoca dei social media. Inchiodati allo scrolling sulle timeline dei loro telefoni, empatizzando con le avvincenti esistenze di altrettanti sconosciuti. Il Grande Fratello, intanto, diventava un evento mediatico globale. Gli intellettuali erano confusi. Nel 2004, gli imam del Bahrein facevano chiudere il GF arabo dopo sole due settimane, senza nessun vincitore, inorriditi da quello spettacolo osceno e immorale. L’Islam metteva in pratica i desideri di Scalfari e altri. Però, un conto era evocare le brigate partigiane della poesia, altro chiudere i programmi. Da che parte stare? Su Repubblica, a firma Gabriele Romagnoli, si optava per la paralisi, anticipando tipiche impasse culturali di fronte al mondo islamico: «Non è chiaro se l’indignazione degli imam sia di carattere estetico o etico. Il Grande Fratello è stato cacciato dal palinsesto. Da ieri il mondo è un luogo più sicuro». Come no. Nel frattempo, in una compulsione creativa senza freni, tutto veniva “realitizzato”, tutto veniva messo in palio, dalle torture di Guantanamo ai posti di lavoro. Quando si annunciò un reality show olandese per vincere un trapianto di rene, poi rivelatosi una bufala, ci credemmo tutti. L’indignazione della Rai per la prima edizione del Grande Fratello, definita «un’operazione inquietante», si trasformò ben presto in aperta competizione. «Crederci sempre, arrendersi mai», come diceva Simona Ventura nel suo motto coniato per L’Isola dei Famosi. La prima edizione resterà memorabile anche per un esposto del Codacons con cui si chiedeva l’invio di un ispettore sull’Isola per verificare la veridicità dello show e Simona Ventura che replicava spiegando «L’Isola dei Famosi è vera e strepitosa perché è come la vita». La second golden age dei reality, cioè la loro evoluzione in “talent”, affievolì i toni apocalittici. Non andava più in scena la società della sorveglianza, niente esperimenti comportamentali. L’enfasi si spostava sullo spettacolo e la scalata verso il successo. «Nel generale ristagno generazionale e di lamento sulla morte dei maestri, i talentshow rischiano di passare per una Scuola vera e propria», lamentava Michele Serra, preoccupato per la perdita del «vecchio concetto della bottega dell’arte, dell’oscuro, umile apprendistato che serve a sbozzolare il talento del garzone». Il problema, però, è che a fronte di show innovativi, il talento del garzone continuava a essere premiato dagli ascolti del vecchio Sanremo. La parabola di X Factor, passato dalle riserve sul mito del “successo facile” di uno show all’americana all’elogio di Vendola («Dinanzi a quelle voci, a quelle scenografie e a quella evoluzione televisiva, il Festival di Sanremo appare come un evento del Paleolitico») illustra bene uno dei paradossi della tv di qualità. Legittimazione culturale, giro d’affari e ascolti non viaggiano insieme. La tv piace alla gente che piace, ma solo quando si avvia alla nicchia. Da tempo i reality sono al crepuscolo, anzi al capolinea secondo molti. Non moriranno mai secondo altri. Hanno ragione entrambi. Già nel lontanissimo 2006, parlando dei “suoi” naufraghi dell’Isola e di un primo calo degli ascolti, il fondatore di Magnolia, Giorgio Gori, ammetteva: «Be’, ormai gli abbiamo fatto fare di tutto». Eppure. All’alba degli anni Duemila, i reality hanno intercettato e accelerato un passaggio epocale dell’industria culturale, che si spostava dalla comunicazione frontale a una costante interazione con l’audience su più piattaforme. Le persone comuni in televisione c’erano sempre andate, ma ora decidevano il destino del programma, l’andamento della narrazione, vincitori e sconfitti. “Autofiction”, “unscripted content”, spettatori trasformati in “prosumers” furono gli elementi innovativi che hanno cambiato per sempre la televisione. Tre elementi che di lì a poco si sarebbero spostati integralmente sui social media. I divi dell’autofiction di oggi vengono fuori da Snapchat e Instagram. Facebook, Twitter e tutte le piattaforme di video possono funzionare come un enorme talent permanente. Anche per questo in televisione siamo passati dal grado zero di scrittura alle intricatissime trame delle serie tv. Anche per questo Amazon e Netflix producono serie o film, ma hanno più volte dichiarato di non aver alcun interesse per i reality. Non è l’età d’oro della televisione, è l’età d’oro della narrazione multipla. La televisione, semmai, abbiamo smesso di scriverla perché mancano le idee. Quasi non esiste format che non sia d’importazione, al punto che il remake del Rischiatutto con Fabio Fazio mette tutti d’accordo. I reality, invece, sono entrati in una cupa fase metalinguistica e introspettiva. Da Gogglebox, il format in cui si guarda gente che guarda la televisione, alla Slow Tv norvegese, dove può capitare di vedere per ore e ore un caminetto col fuoco acceso che neanche un film filippino Leone d’Oro a Venezia. D’altronde, perché scrivere nuovi reality? Il reality è entrato a far parte della nostra vita, anche di chi non ha mai visto una puntata del Grande Fratello. Rispetto alle serie tv, avevano questo grande vantaggio di poterne parlare e scrivere anche se non li avevi mai visti, proprio perché erano un vero evento culturale di massa. I reality hanno cambiato il modo in cui guardiamo le cose. «Non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so un cazzo di niente», disse una volta Federico Fellini all’ennesimo giornalista che lo tartassava con le domande sulle influenze di Otto e ?: «Non c’è bisogno che tu abbia letto Joyce o che tu vada a vedere i quadri di Picasso, ormai la nostra vita è condizionata da quelle opere, quindi basta che tu vivi».
Oggi i produttori sono tutti concordi: i reality hanno aperto la strada e cambiato per sempre l’industria, ma il racconto seriale è il format del momento, anche se non sappiamo ancora per quanto. Solo che, come dice Jane Roscoe, capo dei contenuti internazionali di SBS Australia: «Quali sono gli show che ti fanno ancora dire “wow, che bello”?». Se continua così, faremo le brigate partigiane per guardarci la prima edizione del Grande Fratello nei teatri, mentre in televisione va in scena la «qualità» dei quiz a premi degli anni Settanta.