Susanna Turco, l’Espresso 20/5/2016, 20 maggio 2016
E DI MAIO SI FA PICCOLO
Chi decide nel Movimento 5 Stelle? Quando due mesi fa, in un incontro riservato nella residenza del rappresentante olandese a Roma, 28 ambasciatori dei paesi europei hanno rivolto la famosa domanda da un milione di dollari a Luigi Di Maio, frontman del Movimento, la risposta pareva già nelle cose. Avendo convocato, invece dei soliti guru, proprio lui, il ventinovenne vicepresidente della Camera, per farsi raccontare cosa è e cosa vuole il M5S, i rappresentanti Ue avevano di fatto accreditato il nuovo corso. Il leader che verrà. «Se lei fosse primo ministro, cosa farebbe?», domande così.
«Non ha saputo gestire la chat dei sindaci, figurarsi il governo del Paese», dicono invece oggi i suoi detrattori nel Movimento, nel mezzo della bufera sul caso Pizzarotti, il sindaco di Parma a un passo dall’espulsione per "scarsa chiarezza" circa il proprio avviso di garanzia. Raccontano infatti che tempo fa, come responsabile degli Enti locali, Di Maio avesse sì attivato un gruppo WhatsApp per gestire i problemi sul territorio: salvo poi sfilarsi dal crocchio, dopo una serie di richieste di incontro e di polemiche da parte del sindaco di Parma.
Del resto, alla domanda su "chi decide", sono anche stavolta le circostanze, prima delle parole, a fornire una risposta. Di fronte al preavviso di cacciata di Pizzarotti - che secondo molti è il primo atto politico di Casaleggio junior, a chiarire la continuità col ruolo del padre - Di Maio infatti si schermisce, spiega di non avere «nessun potere di decidere sospensioni ed espulsioni: spetta al garante che è Beppe Grillo». Una posizione che con alcune varianti di stile («decidono i garanti, c’è anche Davide Casaleggio», precisa il senatore Morra) riporta Di Maio allo stesso punto di qualche mese fa, quando in ballo c’era l’espulsione della sindaca di Quarto Rosa Capuozzo: «Il Movimento ha un garante, che è Grillo. A decidere è sempre chi certifica le liste. Solo che quando si dà il simbolo, nessuno si chiede chi lo abbia deciso. Quando lo si toglie, nessuno lo ricorda», diceva allora il deputato di Pomigliano d’Arco.
Le parole sono quasi le stesse, il sapore è tutt’altro. Non solo perché oggi in ballo, invece dell’ombra della camorra, c’è un avviso di garanzia - abuso d’ufficio, per due nomine al Teatro Regio di Parma - che i più scommettono finirà nel nulla. Non solo perché la scomparsa di Gianroberto Casaleggio, pochi mesi dopo il "passo di lato" di Grillo, pareva ad alcuni aver avviato quella evoluzione "senza parricidi" di cui si parla da tempo nel M5S. Ma soprattutto perché adesso i Cinque stelle navigano nel mezzo delle prove generali per le prossime elezioni politiche. Le amministrative sono alle porte, in città anche di grosso calibro, a partire da Roma. Il movimento si accredita per farsi governo. E ciò che oggi è Virginia Raggi per il Campidoglio, domani potrebbe essere Di Maio per Palazzo Chigi. «Probabilmente nel 2017 ci saranno le elezioni, i nostri iscritti sceglieranno il candidato premier e se dovessi essere io mi prenderò questa responsabilità», diceva Di Maio ad aprile. Già: ma il successo di queste amministrative è la chiave di accesso alle prossime politiche.
È per questo che il ciclone Pizzarotti, con le polemiche che porta circa la capacità dei Cinque stelle a reggere senza espulsioni alla prova dei fatti, finisce per abbattersi proprio su Di Maio. Più che su tutti gli altri. Perché «quando c’è un volto c’è anche un bersaglio», come si schermiva lui in gennaio quando apparve su "Financial Times" e "Forbes". Ma soprattutto perché, come nota l’ex candidato grillino, ora critico, Fabio Alemagna: «Ve lo immaginate un minipost sul blog di Grillo in cui con 4 righe si espelle il presidente del consiglio dal Movimento 5 Stelle perché non ha risposto come si deve alla mail dello "staff"? No? Beati voi».
Eccola, la domanda: se si può buttare fuori in un batter d’occhio il sindaco della più importante città conquistata dai grillini, cosa vieta di fare altrettanto con eventuali inquilini di Campidoglio e di Palazzo Chigi? Tanto più perché, finita con la nascita del direttorio l’era degli psicodrammi per i parlamentari dissidenti, ora che il problema si ripropone per gli eletti sul territorio le decisioni si fanno sempre più fulminee. E anche indire il voto on line degli iscritti appare qualcosa di sorpassato.
Per questa via Di Maio, che un anno fa diceva, al Festival del cinema di Giffoni, di sentirsi «un po’ come Superman che sta capendo i poteri che ha», col caso Pizzarotti pare aver trovato la sua kriptonite. La particella che rende evidente la differenza che c’è - per dirla nei termini della tradizione - tra candidato premier e segretario di partito. Il vicepresidente della Camera è chiamato a incarnare il primo incarico. L’altro è il garante, i garanti, Grillo con il direttorio, Davide Casaleggio. Dipende.
E lui, per arrivare vispo all’appuntamento col proprio futuro, deve barcamenarsi: parola che si sposa così poco col suo fare schivo, cortese e azzimato. Navigare tra il dàgli al rispetto delle regole e la declinazione delle regole nella realtà. Quando inevitabilmente l’applicazione non è identica: il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, pur indagato, ha avuto un altro trattamento; e così il sindaco di Pomezia Fabio Fucci, che pure non comunicò a suo tempo l’avviso di garanzia. E invece tra un pranzo all’Ispi e un invito a Harvard, a Di Maio tocca proclamare il movimento di lotta, ma gestire, per come può, anche quello di governo. Senza una struttura di partito in mezzo che faccia da ponte tra l’una e l’altra cosa. È questa la kriptonite che il caso Pizzarotti ha estratto dall’ombra, e che Di Maio farà di tutto per allontanare da sé.