Mario Luzzatto Fegiz, Sette 20/5/2015, 20 maggio 2015
L’AMORE CHE PERVADE OGNI CANZONE, LE PREGHIERE CON I FIGLI E IL CONFRONTO CON I GIOVANI RAPPER: ECCO LA SUA RICETTA PER LA FELICITÀ [Intervista a Francesco Renga] – In 29 anni di carriera ha cantato e descritto l’amore in tutti i suoi aspetti
L’AMORE CHE PERVADE OGNI CANZONE, LE PREGHIERE CON I FIGLI E IL CONFRONTO CON I GIOVANI RAPPER: ECCO LA SUA RICETTA PER LA FELICITÀ [Intervista a Francesco Renga] – In 29 anni di carriera ha cantato e descritto l’amore in tutti i suoi aspetti. E non accenna a fermarsi. Anzi. Rincara la dose con l’album Scriverò il tuo nome (Sony Music), che spopola non soltanto per la qualità della musica, del canto, dei testi e dei messaggi, ma anche per un giochetto informatico pubblicitario che potete trovare nelle più importanti stazioni ferroviarie italiane: si chiama Digital Engagement e consiste nell’azione combinata di touch screen e sms con la quale il fan riceve una copertina autografata dall’artista col suo nome di battesimo. Fino all’8 maggio hanno usufruito di questa diavoleria digitale oltre 1 milione di utenti. In omaggio al titolo, la copertina contiene in caratteri minuscoli ben 2.800 nomi propri annegati in campo azzurro. La passione per il canto si manifesta in Renga ancora minorenne quando partecipa con la sua band a una competizione fra complessi delle varie scuole cittadine organizzata a Brescia da un giovanissimo Franco Zanetti (poi diventato discografico e dopo ancora direttore del celebre sito rockol.it). Una sorta di Brescia-Factor. In realtà Francesco stava seguendo lo orme di Stefano Renga, di sette anni più vecchio. «A 13 anni mio fratello mi portava in sala prove. Lui faceva parte di una cover band dei Genesis. Per me quel locale interrato con le pareti ricoperte di imballaggi per le uova, quelle bobine di nastro che giravano veloci e il groviglio di fili ovunque, aveva qualcosa di magico. Fissavo i microfoni e avevo già capito perfettamente cosa avrei fatto da grande. Mi ero innamorato del mestiere di cantante. Omar Pedrini cercava una voce per la sua band. E fu Stefano a presentarmi per un provino. Che andò bene. La Polygram era pronta a mettere i Timoria sotto contratto, ma c’era un piccolo problema: ero minorenne e mio padre, maresciallo capo delle Fiamme Gialle, non era troppo convinto. Io invece ero gasatissimo, mi interessava il canto, non il ruolo di front man. Allora tutta la nuova musica italiana ruotava intorno a una etichetta fiorentina chiamata IRA. Noi sfidammo le critiche dei fans e firmammo con una multinazionale. Noi Timoria eravamo un band con una marcia in più. Scrivevamo le nostre canzoni, avevamo un nostro stile, un nostro percorso, non temevamo altre band affermate come Litfiba o Diaframma». Lei è stato una sorta di ragazzo prodigio. «Beh sì, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che la cosa comporta. Il 12 giugno compio 48 anni e sono su piazza da quasi 30. Ai miei esordi ho vissuto un momento chiave della musica italiana, in cui c’era un certo declino dei cantautori e una scena rock in forte ascesa». L’impatto con il grande pubblico al Festival di Sanremo non fu facile. «Infatti. Il brano L’uomo che ride vinse il premio della critica, ma non conquistò il mercato. Perché era un lavoro forse troppo proiettato verso il futuro. E poi c’erano i fan che ci aspettavano al varco. Per i puristi del rock italiano saremmo finiti omologati dalla multinazionale. In realtà non andò così». Alla fine però i Timoria avevano due anime: quella rock rappresentata da Omar Pedrini e quella pop rappresentata da lei. «Vero. E a un certo punto i Timoria implodono. Per motivi umani e artistici. È il 1998. Io abbandono la band e affronto la carriera solistica. Una separazione dolorosa. Provano a sostituirmi, ma alla fine decidono di far cantare Omar Pedrini. Intanto io mi accorgo che devo ricominciare tutto daccapo. Senza band mi sento nudo. Ho una bella voce e tante ambizioni. Una maturità scientifica e un inutile anno di economia e commercio». Continui. «Passano tre anni e siamo nel 2001. E mi cimento da solista in Raccontami. Che bello, mi sento me stesso, non ho bisogno di essere in scena con una band. E vinco il premio della critica, come Renga e non più come Timoria. L’anno dopo, in Tracce di te, per la prima volta ho l’impressione di essermi espresso con chiarezza e sincerità. Ho sublimato in una canzone i miei fantasmi senza nascondermi dietro metafore. Parlando della morte di mia madre Jolanda ho offerto al pubblico la mia sofferenza». E qui arriviamo al punto: in tutte le tue canzoni lei parla di sé. «Sì e non riesco a fare altrimenti. Scherzi dell’arte. L’artista, per come lo vedo io, è un disadattato che cerca un equilibrio, consapevole di quanto i mezzi espressivi siano inadeguati al raccontare e al raccontarsi, al guardarsi dentro restando connesso col mondo che lo circonda. Alla fine parla di sé, racconta il suo film. Ho sempre scritto canzoni d’amore. Non si può fare altro. I flussi sono tanti, complessi e differenziati. L’amore comprende tutto, anche il sociale, il sesso, la religione la gioia e il dolore». Ma alla fine questo filone d’amore non si esaurisce? «No, è inesauribile. È tutto e il contrario di tutto.. È un flusso continuo. Pensi a Vivendo adesso che mi ha regalato Elisa . Ah le donne... Hanno una prospettiva sull’amore più complessa e sofisticata di noi uomini. Noi siamo più basici. Non solo nell’amore, ma anche nella vita. I due universi sono impenetrabili. Ogni tanto collidono sprigionando enormi energie». Ora nuova sfida con album e tour: il 15 ottobre ad Assago e il 22 ottobre al Palalottomatica di Roma. «Sì. Con i classici sempreverdi e le nuove canzoni. Fra queste sono molto orgoglioso di Sulla pelle, un brano sull’amore per se stessi e sulla qualità della propria vita. Noi siamo spesso impegnati in una sconclusionata ricerca della felicità e non ci rendiamo conto che ce l’abbiamo vicina, a portata di mano. Le cose importanti ci scivolano via, le diamo per scontate. E invece l’obbiettivo è qui. Poi l’amore non è solo fuoco, idillio: è famiglia, è responsabilità, è far crescere con la presenza e l’esempio. Che io cerco di dare ai miei due figli Leonardo (10 anni) e a Jolanda (12). Fra gli amori che canto in questo album c’è quello per la terra. La mia generazione non è stata abbastanza attenta a questo tema e io cerco di rimediare: come artista propongo un brano come Guardami amore, nei panni di padre trasformo la raccolta differenziata in un gioco che ci porti al contatto e al rispetto dell’ambiente». Altri brani? «Cancellarti per sempre è un ossimoro che chiude un disco d’amore: si canta l’amore che fa male e che vorresti obnubilare, eliminare. Ma nel momento in cui ci provi succede il contrario di quello che vorresti: perché con questa negazione rendi l’amore eterno e incancellabile. Nel brano Il bene poi si racconta come l’amore ti porta davvero dove vuole e non esiste un “piano b”, una soluzione di riserva; mentre in L’amore sa si canta l’amore che ti sorprende, che ti fa attraversare a nuoto il mare senza sentire la stanchezza. Ma poi, a guardar bene, l’amore a volte non ha nemmeno bisogno di un volto: è solo una data o un luogo dove si sono avvertite certe sensazioni (succede nella canzone 13 maggio). Come quando una volta in campagna mancava la corrente e tu, al buio, avevi paura, ma c’era la mamma a rassicurarti». Renga, lei è credente? «Le religioni semplificano la vita. Mio padre mi ha insegnato a dire le preghiere e lo stesso faccio con i miei figli. Anche pregare insieme aiuta a crescere. Io con i miei figli prego spesso». Che spazio oggi ha un artista che si muove sul filone pop melodico sentimentale? «Io mi metto in gioco, mi confronto con autori giovani, evito di fare il dinosauro imbolsito, cerco di rimanere connesso con il mio tempo. L’orchestra e la voce oggi sono importanti ma non bastano. Il rap mi ha influenzato. In Guardami amore uso la voce raddoppiata con strofe serrate, parole a raffica con un registro basso. Ne viene fuori qualcosa di più diretto, asciutto e perentorio. C’è anche un aspetto ginnico se vogliamo. E tutto è molto naturale». Cos’è per lei la canzone popolare? «È magia». In che senso? «Quando qualcuno ti dice: sembra che questa (canzone) tu l’abbia scritta apposta per me. Capito? Io do una chiave, poi l’ascoltatore fa il resto». Il segreto della sua longevità artistica ? «La curiosità, la mancanza di paura nel battere nuove strade, capire l’importanza delle persone che vivono e lavorano con te». E Ambra? «Siamo sereni, stiamo bene, è un rapporto che nel tempo si è trasformato e vive grazie a quel tesoro in comune che sono i nostri figli». Tra i 2.800 nomi della copertina c’è anche quello di Ambra. «Ma certo. Fra i primi visto che comincia con la “A”. Ma non solo per questo».