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 2016  maggio 20 Venerdì calendario

MACERIE D’ITALIA

Hard discount, chincagliere, compro oro, prosaiche icone del nuovo paesaggio urbano. Fabbriche desertificate a Torino, poh chimici mancati a Gioia Ih uro, divertimentifici sciolti al sole tiepido della Brianza. È un Paese al ribasso quello che Marco Revelli racconta in Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi). Perlustrazione che nasce dal trauma di andare in giro per le strade della sua città e non trovarle più familiari. Dopo l’ennesima collisione con il perturbante, categoria psicoanalitica per cui la normalità domestica si rovescia nel suo opposto, l’autore si mette in cammino. Qualche migliaio di chilometri dopo, nonostante un lungo catalogo di promesse mancate, la conclusione è meno pessimista di quella che aveva immaginato. «C’è forse più “verità“ in quelle travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell’erba incolta dei vuoti industriali, che nei tronfi piani di sviluppo drogato di ieri. Nelle copertine patinate degli arroganti studi di fattibilità, nelle superfici scintillanti in vetrocemento dei centri direzionali senza direzione e dei centri commerciali pensati come giardini floreali per un consumo lanciato su linee di crescita esponenziale, che hanno deformato a lungo il nostro volto come, appunto, una maschera. In fondo, come è stato scritto dall’architetto Daniel Libeskind, “considerarsi parte di una fine è già l’inizio di qualcosa”». Bella maniera di dirlo. Bel modo di cominciare una discussione seduti a un bar che finge di avere un blasone (Antica caffetteria) dentro allo scheletro di quella che fu la Società Nazionale Officine Savigliano, partorì leggendarie locomotive italiane e oggi si accontenta di ospitare negozietti di abbigliamento per la classe media impoverita.
Il viaggio inizia da Torino. Ieri e oggi, cosa l’ha colpita?
«È un ritratto differenziale che possiamo tratteggiare con i numeri. Partendo da Mirafiori, la sterminata fabbrica orizzontale che occupava il tre per cento della città. Ancora nel 2008 produceva 6-7 mila vetture al giorno. Un fiume che si è ristretto oggi a un rivolo di un centinaio. Oppure le Vallette, quartiere operaio per antonomasia dove le tute blu sono ormai minoranza, soppiantate dai pensionati che vedi svernare sulle panchine. Per trovare segni di speranza sono dovuto andare a Spina Tre, ex quartiere industriale reinventato, dove hanno aperto il Toolbox Coworking, un bellissimo spazio dove i freelance possono affittare una scrivania, confrontarsi, crescere insieme».
Da lì in Brianza, sulle tracce di una strampalata Las Vegas abortita...
«Negli anni 60 il conte Mario Bagno, imprenditore nel settore degli aeroporti, decise di trasformare Consonno, un paesino morente in provincia di Lecco, in un villaggio dei balocchi. Costruì una specie di moschea con minareto a cui avrebbero dovuto seguire pagode, zoo, campi da tennis e da calcio. Finché nell’autunno del ’76 una serie di frane bloccarono la strada che collegava il villaggio a Milano e con essa i sogni di gloria del conte. Sono partito da lì per raccontare macerie più contemporanee. Tipo quelle documentate dalla Camera di commercio di Monza e Brianza che, tra 2008 e 2012, ha censito la chiusura di circa 9000 imprese storiche. Epidemia che, nei primi mesi del 2013, ha fatto registrare venti chiusure al giorno. Però, anche in quel buco nero, sono riuscito a scorgere pagliuzze d’oro. Penso agli ingegneri che, per la prima volta, si sono ribellati quando hanno capito che le multinazionali per cui lavoravano stavano per spostare la produzione all’estero. Al grido di “No alla macelleria dei cervelli” un serpentone di più di mille addetti dell’high tech ha marciato da Vimercate bloccando per ore le carreggiate. Un effetto collaterale della crisi che vale la pena ricordare».
Tappa successiva il Veneto, seconda regione più cementificata d’Italia. È vero che si vuole costruire ancora?
«Sì. La cifra architettonica è il capannone. Quelli dei distretti: il calzaturiero veronese, l’orafo vicentino, della concia ad Arzignano, dell’occhiale di Belluno, del mobile d’arte a Bassano. Lì un imprenditore mi ha spiegato il suo antidepressivo: “Quando mi sento un po’ giù di corda sa cosa faccio? Chiudo gli occhi e mi concentro sul culo degli europei: trecento milioni di culi. Che hanno bisogno, mediamente, di posarsi ogni giorno su otto sedie. Fanno due miliardi e mezzo di sedie con una vita media di dieci anni. Un mercato enorme dove c’è un sacco di spazio”. Una regione che ha a lungo schifato la cultura per gli schei per poi scoprirsi non attrezzata psicologicamente a fronteggiare la crisi. Dal 2009 i suicidi economici hanno fatto statistica nazionale. Uno studio sul triennio 2012-2014 parla di quasi cinquecento casi, tra imprenditori e dipendenti. Anche lì, dopo questo risveglio tragico, stanno capendo che l’industria 4.0 si basa più sulla conoscenza che sulla resistenza alla fatica. Ne usciranno rafforzati».
Verso sud si ferma a Prato, microcosmo di globalizzazione. Che ha capito di quel presunto conflitto di civiltà?
«È una sorta di testimonial naturale del mio titolo. I pratesi non si riconoscono più nella loro città perché imputano ai cinesi locali di fare ciò che loro stessi facevano una generazione fa. Lavorare senza orari e far dormire i bambini in fabbrica erano la misura della loro abnegazione. Ai bei tempi il cavalier Ivo, filatore, telefonava al miglior ristorante della città e ordinava spaghetti alle vongole per tutti. Poi, nel 2001, la Cina è stata accettata nel Wto e ha cominciato a esportare filati senza più limiti. È questo l’inizio della fine, non la competizione dei cinesi locali come a qualche politico in mala fede è piaciuto dire. Pensate che il 94 per cento delle imprese cinesi lavora nelle confezioni, un settore estraneo alla tradizione pratese, mentre solo 23 (il 6 per cento) ha a che fare col tessile, il vero cardine del distretto. Nessuna usurpazione, quindi, ma l’ennesima occasione sprecata di un’alleanza che poteva giovare a entrambi».
A Taranto mi ha fatto impressione la risposta di ima coppia di ex dipendenti dell’acciaieria all’affermazione: «Le industrie vi hanno dato la possibilità di vivere». «Esatto», dice lui, «e di morire», aggiunge lei.
«Mi sono riletto le cronache dell’epoca: “Nella nuova cittadella che sarà grande più di Taranto stessa“ migliaia di operai troveranno “lavoro, tranquillità e fiducia”. Che strano effetto fanno oggi, no? Quelli dell’Ilva sono i numeri di una catastrofe. 174 morti per cause vascolari e respiratorie tra il 2004 e il 2010.Tumori alla prostata (+50 per cento), alla vescica (+69), alla pleura (+71) per non dire di cancro allo stomaco (+107). Eppure, nonostante questo, quando fu fatto il referendum per chiuderla si presentarono ai seggi solo trenta tremila, un quinto degli aventi diritto, perdendo la battaglia».
Le scoperte più sorprendenti, per me, riguardano Gioia Tauro, a partire dalla vicenda della Liquichimica Biosintesi di Saline Joniche, che merita un posto d’onore nel Guinness degli sprechi nostrani.
«È la storia del centro chimico ucciso in culla. Costruito nel 1970 con 1.300 miliardi di lire del “pacchetto Colombo“, aveva generato tanta speranza che all’inaugurazione una folla col pugno chiuso salutava anche Andreotti. Durò due giorni prima di essere chiusa dall’Istituto superiore di Sanità che dichiarò cancerogeni i mangimi animali che vi si producevano. Tutti gli operai finirono in cassa integrazione a zero ore. E vi restarono per ventitré anni! Non credo sia mai successo in nessuna altra parte del mondo. Passano vent’anni e viene un’altra idea. Ad Angelo Ravano, imprenditore della logistica che intuisce che la posizione geografica rende Gioia Tauro la base ideale per le grandi portacontainer che arrivano dall’estremo oriente. Un’idea così buona che la ’ndrangheta la capisce subito e riesce a imporre una tangente di 1,5 dollari per ogni container movimentato in cambio del mantenimento dell’ordine. È così che il porto divenne, dal nulla, il più grande terminale nel bacino del Mediterraneo. Oltre che il principale hub continentale della droga. Eppure, nonostante questa catena criminale, è lì che ho incontrato Michele Albanese, un giornalista sotto scorta per aver raccontato queste cose o Nino De Masi, costruttore che vive assediato da quando suo padre decise di non pagare il pizzo oltre che un carabiniere colto che cita Salvemini e Gobetti. Sono la prova ontologica che si può sempre ripartire».
Alla fine la speranza, ben più che nei luoghi, la trova nelle persone. A Lampedusa più che altrove, o sbaglio?
«È la finis terrae di tutto, dalle speranze di chi prova a entrare alle illusioni di chi ci vive. Mi vengono in mente le immagini terribili degli annegati tirati a riva sulla spiaggia dei Conigli, dove i turisti facevano il bagno sino a un minuto prima. Ma anche quel senso di serenità che gli abitanti dell’isola, plasmati da secoli dalla pratica dell’accoglienza, continuano ad emanare. Il sindaco Giusi Nicolini, il simbolo delle virtù dei suoi concittadini, senza mai dire una parola fuori posto neppure nei momenti più neri invitò l’allora premier Letta a “venire a contare i morti con me“ all’indomani dell’affondamento di una nave da Misurata con 520 passeggeri di cui solo 154 si salvarono. Questa è gente che è capace di guardare dritto l’orrore senza rimanere pietrificati. I Le Pen, Farage, Salvini dovrebbero venire qui. Avrebbero molto da imparare».
Riccardo Staglianò