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 2016  maggio 19 Giovedì calendario

Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015, 735 pagine, 32,50 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2361303Vedi Biblioteca in scheda: mancaPrimo Levi nasce a Torino l’ultimo giorno di luglio del 1919, un anno dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando in Europa, e in Italia, impazza l’influenza detta «la spagnola» che uccide milioni di persone nel mondo

Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015, 735 pagine, 32,50 euro.

Vedi Libro in gocce in scheda: 2361303
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Primo Levi nasce a Torino l’ultimo giorno di luglio del 1919, un anno dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando in Europa, e in Italia, impazza l’influenza detta «la spagnola» che uccide milioni di persone nel mondo. Sua madre, Ester Luzzati, ha sposato l’in¬gegner Cesare Levi due anni prima, nel 1917. Di lei Primo parla molto poco nei suoi libri, rare menzioni, mentre si dilunga di più sulla figura paterna. Sono ebrei entrambi i genitori, di origini se¬fardite, e la genealogia degli avi, in parte araldica e di fantasia, la si legge in Argon, il racconto che apre Il sistema periodico. Ebrei non professanti, celebrano le feste religiose come tradizione e consuetudine.

Primo Levi ha abitato tutta la vita nella casa in via Umberto 75 a Torino. Salvo l’anno a Milano, di cui racconta in Il sistema pe¬riodico, e quello ad Auschwitz, e poi i viaggi di lavoro, è vissuto lì per sessantasette anni.

Gran parte della vita di Levi si svolgerà in uno spazio circoscritto, compreso fra l’abitazione, le scuole frequentate (tutte prossime a casa) e la sede dell’Einaudi, alloggiata in una traversa del medesimo corso torinese.

La modestia di Levi lo spinge a descrivere la sua abitazione, l’appartamento occupato prima di lui dai suoi genitori, in questo modo: «La mia casa si caratterizza per la sua assenza di carat¬teristiche».

Sulla porta d’ingresso per vent’anni, insieme a un ferro di cavallo a scopo apotropaico trovato dallo zio Corrado, ha penzolato da un chiodo una grossa chiave «di cui tutti avevano dimenticato la destinazione ma che nessuno osava gettare via».

Nel 1921 nasce la sorella Anna Maria, alla quale Primo sarà sempre legato da un forte affetto (in un’intervista cita la lingua inventata da loro per poter comunicare senza essere capiti dagli altri).

In una conversazione con Tullio Regge, Primo Levi racconta che il padre lo consigliava di fare esperienze di vita, di bere, fumare, andare con le ragazze: «Ora, io non fumavo, non bevevo, non avevo ragazze. Non c’era una gran com¬prensione, con mio padre. Io ero sostanzialmente un romantico, e anche della chimica m’interessava l’aspetto romantico, speravo di arrivare molto in là, di giungere a possedere le chiavi dell’universo, di capire il perché delle cose».

Primo è di costituzione delicata; durante l’infanzia frequenta le scuole elementari in modo discontinuo. In prima i genitori lo tengono a casa per vari mesi, così finisce i corsi preparandosi in forma privata per passare alle medie.


Le prime elementari espe¬rienze scientifiche le fa mediante un microscopio regalatogli dal padre e una macchinetta Pathé Baby, che usa per proiettare agli amici vetrini su cui crescono cristalli.

Il padre, come altri ebrei italiani, si è iscritto al Partito fascista e indossa anche la camicia nera, ma lo fa, racconta Primo, di malavoglia; lui stesso diventa balilla e poi avanguardista, fino a che le leggi razziali non glielo impediscono. In casa non riceve una vera e propria formazione culturale ebraica; come dirà in seguito, si scoprirà ebreo ad Auschwitz e sarà solo al ritorno dal Lager che inizierà a formarsi una cultura ebraica, studiando anche lo yiddish, a partire dalla fine degli anni Settanta.

Nell’ottobre del 1937 Primo si iscrive alla facoltà di chimica dell’Università di Torino, dopo aver terminato il Regio ginnasio-liceo.

Nel 1938 le leggi razziali proibiscono agli ebrei di iscriversi all’università. Nonostante questo, in virtù di una scappatoia ri¬guardante coloro che, pur essendo di «razza ebraica», erano già iscritti alle facoltà, Primo riesce a terminare il ciclo di studi.

Nel 1941 si laurea a pieni voti in chimica; tuttavia, a causa delle leggi razziali, deve abbandonare la tesi sperimentale (Comportamento dielet¬trico della miscela ternaria C6 H6=CHCl3=C6H5Cl) e optare per una tesi compilativa. Gli studenti ebrei sono esclusi dai laboratori e solo il professor Nicolò Dalla Porta, astrofisico, lo ha accettato nel suo.

Nel 1941 muore il padre e nell’anno successivo, a guerra iniziata (gli ebrei sono esclusi dal servizio militare), Primo si trasferisce a Milano, dove ha trovato lavoro presso una fabbrica svizzera di medicinali, la Wa¬nder, che lo ha assunto nonostante le leggi razziali

Primo Levi amava l’alpinismo.

Fu deportato ad Auschwitz al principio del ’44 insieme col contingente d’ebrei italiani del campo di concentramento di Fossoli.

Nel 1944, anno dell’arrivo di Levi ad Auschwitz, l’andamento della guer¬ra e il conseguente sforzo industriale costringono i tedeschi a sfruttare la forza lavoro degli ebrei, dilazionando così il progetto di eliminazione imme¬diata; gli esperti delle SS hanno calcolato che la vita media di un prigio¬niero sottoposto al lavoro in condizioni di sottoalimentazione è intorno ai due o tre mesi.

Il primo scopo del Lager è quello di far perdere ai prigionieri la propria identità; un numero tatuato sul braccio è il nuovo battesimo: «Il mio nome è 174 517 [...] mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide» (pp. 21-22, vol. I). Per questa ragione in Se questo è un uomo, e nei libri e racconti successivi dedicati al Lager, Levi insiste continuamente sul nome proprio: chiama di continuo i suoi «personaggi» con il loro nome, e sovente col cognome (il nome famigliare), o almeno il soprannome.

Nel Lager i prigionieri sono privi di orologio e la scansione del tempo è quella segnata dalle attività quotidiane del campo.

Ad Auschwitz Levi è colpito immediatamente dalla confusio¬ne delle lingue: gran parte degli italiani non conosce né il tedesco né lo yiddish, che è la lingua parlata dalla maggior parte degli ebrei provenienti dai paesi dell’Est e che costituiscono la maggioranza della popolazione di Monowitz. L’idea di trovare nel Lager dei fratelli o almeno dei compa¬gni svanisce ben presto: qui prevale la lotta di tutti contro tutti.

Levi conosce qualche rudimento di tedesco, avendo studiato sul Gattermann, un testo di chi¬mica pubblicato a Berlino negli anni Trenta.

Il suicidio è assai raro nel Lager: «I disagi materiali, la fatica, la fame, il freddo, la sete, tormentando il nostro corpo, paradossalmente riuscivano a distrarci dalla infelicità grandissima del nostro spirito [...]. Le urgenze quotidiane ci distraevano dal pensie¬ro: potevamo desiderare la morte, ma non potevamo pensare di darci la morte. Io sono stato vicino al suicidio, all’idea di suicidio, prima e dopo il Lager, mai dentro il Lager» (conversazione con De Rienzo, 1975).

Con l’arrivo dell’Armata rossa Primo Levi lascia il lager.

Nel giugno del 1945 Primo Levi è a Katowice, prima tappa del suo viaggio di ritorno. Dal campo «di attesa» scrive una lunga let¬tera a Bianca Guidetti Serra per raccontarle quanto gli è accaduto negli ultimi mesi. La missiva contiene un riassunto delle vicende degli ultimi dieci giorni nel Lager e offre informazioni riguardo alle persone entrate con lui nel campo di sterminio e scomparse. A Bianca chiede di fornirgli notizie della famiglia e degli amici che si augura siano scampati alla guerra e alla strage nazista in Italia. Il post scriptum della lettera: «Sono vestito come uno straccione, arriverò forse a casa senza scarpe, ma in cambio ho imparato il tedesco, un po’ di russo e di polacco, e inoltre a cavarmela in molte circostanze, a non perdere coraggio e a resistere alle sofferenze morali e corpo¬rali. Porto di nuovo la barba per economia di barbiere; so fare la zuppa di cavoli e di rape, e cucinare le patate in moltissimi modi, tutti senza condimenti. So montare, accendere e pulire le stufe. Ho fatto un numero incredibile di mestieri: l’aiuto muratore, lo sterratore, lo spazzino, il facchino, il beccamorti, l’interprete, il ciclista, il sarto, il ladro, l’infermiere, il ricettatore, lo spaccapietre: perfino il chimico!»

Nel gennaio del 1946 è assunto presso la fabbrica di ver¬nici Duco-Montecatini di Avigliana, vicino a Torino, dove vive una parte della settimana nella foresteria della fabbrica. Approfittando delle pause del lavoro, delle serate, dei momenti in cui la produzione si arresta per mancanza di materie prime, Levi scrive freneticamente il racconto di Au¬schwitz.

La scrittura di quelli che saranno i capitoli di Se questo è un uomo è stata condotta prima di tutto a mano, in luoghi differenti: «Ho scritto anche in treno, nel tragitto fra Torino e Avigliana, dove lavoravo in fabbrica. Scri¬vevo la notte, nell’intervallo del pranzo di mezzogiorno: ho scritto quasi tutto il capitolo Il canto di Ulisse nella mezz’ora da mezzo¬giorno e mezzo all’una. Ero continuamente in una specie di tran¬ce».

Levi ha vergato in «brutta copia», a mano – erano tempi quelli in cui pochi battevano direttamente a macchina –, su fogli volanti o su un quaderno.

Come ha mostrato Clément Chéroux , studio¬so dell’immagine, la documentazione fotografica dei Lager non venne diffusa immediatamente dalle truppe alleate, che avevano al loro seguito fotografi di guerra e fotogiornalisti, per via dello shock e dell’orrore prodotto dalle immagini dei campi liberati o abbandonati dai nazisti: cumuli di cadaveri insepolti, corpi orri¬bilmente mutilati, cenere, ossa, sopravvissuti in stato penoso. Nel¬la Francia liberata le immagini compaiono sui giornali solo nel febbraio del 1945; la più alta frequenza sulla stampa transalpina si ha dopo il mese di aprile. Elisabetta Ruffini ha appurato che la maggior parte delle fotografie dei campi appare in Italia a partire invece dal maggio del ’45, oltre un mese dopo la Liberazione del paese dai nazifascisti, e non riguarda in senso stretto gli ebrei, bensì i deportati in generale.

Alla fine del 1946 Se questo è un uomo è terminato, anche nella sua stesura dattiloscritta, e cominciano le prime difficoltà nella pub¬blicazione. L’opera è presentata infatti all’inizio dell’anno suc¬cessivo ad alcuni «grossi» editori (Levi lo precisa nell’Appendice all’edizione scolastica del ’76), ma viene rifiutata. Nella Nota alla versione drammatica del libro, pubblicata nel 1966, Levi parla di tre editori. Come racconta in un’intervista, fu egli stesso a portare una copia in visione alla Einaudi; a distanza di anni, lo scrittore non si rammenta chi lo ricevette, tuttavia ricorda per¬fettamente che al colloquio, dopo la lettura, si trovò di fronte Natalia Ginzburg che glielo restituì.

Levi a Nico Orengo: «Avevo scritto dei racconti al ritorno dalla prigionia. Li avevo scritti senza rendermi conto che potesse essere un libro. I miei amici della Resistenza dopo averli let¬ti mi dissero di ‘arrotondarli’, di farne un libro. Era il ’47, lo portai alla Einaudi. Ebbe varie letture, toccò all’amica Natalia Ginzburg dirmi che a loro non interessava. Così cercai alla De Silva di Franco Antonicelli. Lo lesse la Malvano, Anita Rho, la Zini e Zorzi. Anto¬nicelli scelse il titolo da una mia poesia: Se questo è un uomo, e lo pubblicarono in 2500 copie» (Orengo, 1985).

Sulla vicenda del rifiuto da parte della Einaudi Levi è ritor¬nato diverse volte, ma sempre per ricordare il clima del periodo: «C’erano ancora tanti problemi da risolvere in Italia, come del resto in tutta Europa: non c’era molto posto per i deportati e neanche tanta voglia di leggere i loro racconti» (De Rienzo, 1975); e ancora, riferendosi direttamente a Natalia Ginzburg, ebrea come lui e appartenente al medesimo ambiente torine¬se: «Bisogna pensare che allora Natalia usciva da un periodo tremendo, era la vedova di Leone Ginzburg e quindi capisco abbastanza bene il suo rifiuto che esprimeva un rifiuto più am¬pio, collettivo. A quel tempo la gente aveva altro da fare. Aveva da costruire le case, aveva da trovare un lavoro. C’era ancora il razionamento; le città erano piene di rovine; c’erano ancora gli Alleati che occupavano l’Italia. La gente non aveva voglia di questo, aveva voglia di altro, di ballare per esempio, di fare feste, di mettere al mondo dei figli. Un libro come questo mio, e come molti altri che sono nati dopo, era quasi uno sgarbo, una festa guastata».

Che questo fosse il clima dell’epoca, rispetto non solo ai so¬pravvissuti ai campi di sterminio, ma anche ai soldati italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943 (il loro numero è intorno ai 700.000) e ai reduci in generale, lo testimonia un testo teatrale di Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!, scritto a caldo e rappresentato a Napoli nel marzo del 1945 (uscito presso Einaudi nel 1950), dove il protagonista, al ritorno dalla guerra, trova la moglie e la figlia impegnate in varia maniera a far soldi, che rifiutano di stare ad ascoltare le sue storie di reduce (Levi stesso ha parlato di questo testo di De Filippo come di un’opera fraterna).

Nel 1944 esce il primo libro sulla deportazione degli ebrei e dei soldati italiani, scritto a caldo dallo scrittore e critico letterario Giacomo Debe¬nedetti, 16 ottobre 1943, cui seguono nel 1945 dieci libri, quindi quattordici nel 1946 e tre soli libri nel 1947, tra cui quello di Primo Levi; poi si passa ai primi anni Cinquanta: fino al 1954 sono solo quattro i libri pubblicati, tra cui quello dell’associazione degli ex deportati, l’ANED, intitolato L’oblio è colpa.

Natalia Ginzburg, interrogata a proposito del rifiuto dell’Einaudi: «Mi ricordo che, oltre a me, l’aveva letto Cesare Pavese, ma anche altri che ora non ricordo. Pavese disse che forse non era il momento adatto per fare uscire Se questo è un uomo, ma non per censura ebraica, ma perché sarebbe andato disperso fra i tanti libri di testimonianze sui Lager che uscivano in quel tem¬po. Disse che era meglio aspettare. Se abbiamo fatto male è un altro discorso, ma, ripeto, non ci fu nessuna volontà censoria...».

Anna Maria Levi fa avere una copia del testo ad Alessandro Galante Garrone che la legge e la passa a Franco Antonicelli, il quale ha appena riaperto l’attività della De Silva, piccola casa editrice torinese. Il libro viene stampato in 2500 copie. Arrigo Cajumi lo recensisce su «La Stampa», insieme a Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Non esiste un dato preciso sul¬le vendite. In un’intervista del 1986 Levi dice che ne furono vendute «circa 1500 copie per un totale di 3000 lettori (perché un libro viene letto da un minimo di due persone)».

Il libro fu poco letto fuori da Torino – a detta dello stesso Levi – e di quella tiratura iniziale di 2500 copie presunte le ven¬dite non furono esaltanti, certamente inferiori alle attese dell’edi¬tore e dello stesso autore. La conclusione, come Levi afferma nel colloquio con Rita Caccamo De Luca e Manuela Olagnero, fu che «visto l’esito scarso delle vendite ho subito abbandonato l’idea di vivere facendo lo scrittore. Mi sembrava un’utopia assolutamen¬te irraggiungibile. Mi sono messo a fare il chimico a capofitto» (1984).

Alla fine di giu¬gno del ’47 Levi si licenzia dalla Duco e tenta con l’amico Alberto Salmoni (l’Emilio di Arsenico e Stagno) l’esperienza della libera professione di chimico; nel dicembre dello stesso anno entra alla Siva (la fabbrica di vernici in cui, all’epoca della lettera a Riedt, lavora già da dodici anni); l’uscita del libro da De Silva è dello stesso anno, il ’47, nel mese di ottobre.

Entra¬to nell’aprile del 1948 alla Siva, industria chimica specializzata in smalti isolanti per condutture elettriche, ne è diventato il direttore tecnico nel 1950, poi nel 1962 direttore generale. Ma non ha mai cessato di pensare di diventare scrittore a tempo pieno, come ha scritto nel 1959 al suo traduttore tedesco, Heinz Riedt: si augura d’andare presto in pensione per farlo.

Primo sposa Lucia Morpurgo, insegnante, nel 1947. L’anno dopo, nel 1948, nasce Lisa, nel 1957 Renzo.

Nel 1952, durante una riunione del consiglio editoriale dell’Einaudi, Paolo Boringhieri ripropone la pubblica¬zione di Se questo è un uomo: «Boringhieri riferisce che Primo Levi, il quale è anche ottimo traduttore di libri scientifici, vor¬rebbe sapere se non saremmo disposti a fare una nuova edizione di Se questo è un uomo, pubblicato da De Silva e ora quasi esauri¬to. Il Consiglio sarebbe favorevole, ma Einaudi fa osservare che, da un punto di vista commerciale, la Casa De Silva fu acquistata tempo fa dalla Nuova Italia e che perciò la pubblicazione da parte nostra di una nuova edizione del bel libro di Primo Levi, già pas¬sato per le mani di due editori, non avrebbe molte probabilità di successo. Nessuna decisione viene presa al riguardo».

Lo scrittore ha raccontato come nel 1955, in occasione del de¬cennale della liberazione dei Lager, a Torino, a Palazzo Mada¬ma, era stata organizzata una mostra sulla Resistenza e la depor¬tazione: «Mi avevano invitato a commentare le fotografie esposte e a parlare di questo libro che alcuni avevano letto; erano in¬vecchiati di nove anni ma l’avevano pur letto. Mi sono trovato subissato di domande da parte di giovani, più giovani di me... Ricordo ancora adesso con un certo spavento: era la mia prima apparizione in pubblico, mi sono trovato assediato veramente e bombardato di domande. E mi hanno chiesto, ma perché questo libro giace sepolto? Allora l’ho riportato da Einaudi, e a quel tempo c’era un’altra équipe, c’era Luciano Foà. L’hanno accetta¬to» (Paladini, 1987).

Nel luglio del 1955 Levi forme il contratto con Einaudi e cede i diritti di pubblicazione di Se questo è un uomo per un compenso di lire 200.000.

Se questo è un uomo viene pubblicato da Einaudi nel giugno 1958 in una tiratura di duemila copie presto esaurite; nel 1959 il libro è tradotto in Inghilterra e negli Stati Uniti senza alcun riscontro di pubblico.

Come hanno messo in luce gli psicologi che hanno indaga¬to le reazioni degli ex deportati, non è possibile «attribuire uno stesso grado di realtà al mondo normale e al mondo infero del Lager: non si può abitare contemporaneamente, nemmeno nella memoria, due mondi così alieni fra loro» (Barenghi, 2013).

Levi ha dichiarato in numerose interviste che senza Auschwitz non sarebbe mai diventato scrittore, o forse sarebbe stato solo uno «scrittore fallito». Sappiamo da sue conversazioni, e da testimonianze di amici, che scriveva già prima di essere deportato nel Lager, anche se erano poesie e abbozzi di racconti. Come ha notato Daniele Del Giudice (Del Giudice, 1997), Se questo è un uomo inizia con la frase: «Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz...», frase che ci ricorda in modo ironico la sua vocazione di scrittore.

In una delle ultime conversazioni (Di Caro, 1987), Levi parla dell’attività dello scrivere: «Non c’è differenza tra costruire un apparecchio per il laboratorio e costruire un bel racconto. Ci vuole simmetria. Ci vuole idoneità allo scopo. Bisogna togliere il superfluo. Bisogna che non manchi l’indispensabile. E che alla fine tutto funzioni».

Primo Levi amava realizzare animali con fili di rame. Una passione che nasceva dal lavoro presso la Siva. Raccontano i colleghi che Primo raccoglieva scarti del filo di rame provenienti dalla produzione, se li portava a casa e li usava per realizzare profili di animali: coccodrillo, can¬guro, formica, civetta, farfalla, gabbiano, pinguino, insetto e altre creature. Philip Roth, venuto a Torino per intervistarlo per conto di «The New York Review of Books» nel 1986, li aveva visti; tra gli animali misteriosi gli era sembrato di scorgere «un ebreo che suonava il suo naso».

Alla fine del lavoro con i fili, donava i suoi animali agli amici più cari; alcuni li conservava in casa.

Gli animali sono presenti in Se questo è un uomo e in La tregua (il cavallo è l’animale più citato, la cui carne diventa la salvezza per il narratore denutrito), ma anche in tutti gli altri libri di Levi, in particolare L’altrui mestiere, dove lo scrittore parla di ragni, farfalle, pulci, grilli, scarabei, ecc., e an¬che nelle poesie, in quelle pubblicate a partire dal 1979 sul quo¬tidiano «La Stampa», e poi raccolte in Ad ora incerta (gabbiano, formiche, ragno, talpa, topo, meleagrina, chiocciola, bue); nelle poesie pubblicate in precedenza in L’osteria di Brema dominano invece gli uccelli, in particolare i corvi, simbolo di morte.

L’animale più citato da Levi è il cane, seguito da cavallo, gat¬to, coniglio, gallina, pidocchio, pollo, farfalla, serpente e formi¬ca. Una serie di dialoghi-racconto pubblicati nell’ultimo perio¬do della sua vita, comparsi sulla rivista «Airone», sono dedicati al ragno, alla giraffa, al gabbiano, alla formica e alla talpa.

Il ragno è l’unico animale di cui Levi dichiara di aver ribrezzo.

Nel 1963 La tregua vince il Campiello. Si tratta del primo suc¬cesso letterario. Per quanto il libro sia una continuazione di Se questo è un uomo, la parte centrale è la storia di un viaggio avventuroso ricco di episodi picareschi. Sono trascorsi poco meno di vent’anni dal ritorno da Monowitz-Auschwitz, e solo cinque dalla riedizione del suo primo libro presso Einaudi. Levi è ora un chimico che scrive, oltre naturalmente a un testimone dei campi nazisti. Lo intervistano i giornali e la televisione; finisce ritratto sul piccolo schermo, nella trasmissione culturale dell’epoca, L’Approdo.

Nel 1963 compare sul settimanale «Gente», uno dei rotocalchi popolari più diffusi all’epoca, per la prima volta con la sua famiglia: la moglie Lucia, i figli Lisa e Renzo. In seguito non si vedranno sui giornali altre foto di Lucia e dei figli, nonostante Levi stia diventando noto.

Dagli anni Settanta combatte contro la depressione.

Il 20 novembre 1977 «La Stampa» pubblica nella terza pagina dedicata alla cultura, in taglio basso, un testo di Primo Levi. S’intitola Il re dei Giudei, e presenta un’illustrazione: una moneta recto e verso. È questa, in lega leggera, recante su una faccia la stella ebraica (lo «Scudo di David»), a dare il via a un raccon¬to autobiografico. Levi ha raccolto la moneta ad Auschwitz, nel Campo Grande, dopo la liberazione dal Lager di Monowitz. A partire da quel piccolo oggetto, conservato prima come porta¬fortuna nel borsellino, poi in un cassetto, lo scrittore racconta la storia dell’uomo che l’ha fatto coniare.

Tra il 1982 e il 1986 lo scrittore Ferdinando Camon incontrò Primo Levi a più riprese per registrare una lunga intervista. L’ultima conversazione ebbe luogo nel mese di maggio del 1986 a Torino, a poco meno di un anno dalla morte del suo interlocutore. L’argomento centrale della intervista è la colpa, oltre al tema del male e a quello della respon¬sabilità del popolo tedesco. Verso la fine del colloquio Camon fa notare a Levi che il suo atteggiamento è sempre ironico e comprensivo; sorride spesso: «Ho l’impressione», dice, «che lei sia, per natura, uno che ama la vita, che l’amava prima, che l’ama dopo. Tra il prima e il dopo c’è stato un trauma violento e totale, ma concluso». Levi risponde che in generale è così, ma aggiunge: «Però ho avuto, dopo la prigionia, alcuni episodi di crisi depressive. Non sono sicuro che si ricolleghino a quell’esperienza, perché hanno delle etichette diverse, di volta in volta».

Nella corrispondenza con Hety Schmitt-Maass, che copre l’arco di tempo che va dal 1966 al 1981, anno in cui Hety muore improvvisamente, ci sono almeno un paio di lettere in cui lo scrittore parla della depressio¬ne che lo attanaglia. Nell’agosto del 1971 per esempio scrive che il lavoro in fabbrica non va molto bene ed è fonte di dispiaceri, cui si unisce la perdita della speranza per il suo futuro di scrittore. Ogni giorno aprendo i giornali, confessa all’amica, trova solo notizie pessime, situazioni di crisi, delitti, la minaccia di un futuro ancora peggiore.

Giulio Einaudi all’inizio del 1987 lo va a trovare a casa, in corso re Umberto; gli offre la presidenza della casa editrice. Levi non accetta, non se la sente dato il suo stato d’animo. Il suo editore rac¬conta di averlo trovato profondamente depresso, bloccato nella scrittura.

L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta nella tromba delle scale della sua casa di Torino.

Il corpo fu trovato ai piedi delle scale a chiocciola che salgono al suo piano, il terzo. A lato, sul muro poco dopo le cassette della posta, vicino a una porta, nella fotografia si scorge una targa di metallo a caratteri stile liberty, in maiuscolo: «Vietata la questua».

Esistono due interpretazioni sul suicidio di Primo Levi. «Secondo la prima, il suo gesto estremo è legato alla deportazione, ad Auschwitz, e sarebbe da ricon¬durre ai sensi di colpa, prima di tutto quello di essere sopravvissuto; sen¬so di colpa e soprattutto vergogna. La seconda spiegazione è che Levi soffriva di depressione; e questo prima della permanenza ad Auschwitz. Anzi, la deportazione sarebbe stato un momento in cui la depressione era temporaneamente scomparsa. Più probabile che le due spiegazioni si sovrappongano e si contaminino, così da creare un intrico di motivi e di situazioni che hanno alimentato la depressione di Levi fino a quell’esito finale che ha lasciato interdetti amici e conoscenti. L’elenco dei motivi che verosimilmente l’hanno spinto a gettarsi dalla tromba delle scale l’11 aprile 1987 è lungo: il negazionismo, la perdita di fiducia nella testimonianza, il timore di aver fallito come scrittore, la paura di non riuscire più a scrivere nulla di buono».