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 2016  maggio 18 Mercoledì calendario

TEDESCO DI ROMAGNA– [Nicolò Bulega] Nicolò Bulega spacca tutto. Sbiella la moto che usa per allenarsi con il flat track, ha crepato due telai del Team Calvo impennando e in un certo senso basterebbe guardare come è ridotta la sua macchinina rossa, uno di quegli aggeggi che si guidano senza patente, per capire che il benessere dei mezzi di locomozione non è in cima alle sue priorità

TEDESCO DI ROMAGNA– [Nicolò Bulega] Nicolò Bulega spacca tutto. Sbiella la moto che usa per allenarsi con il flat track, ha crepato due telai del Team Calvo impennando e in un certo senso basterebbe guardare come è ridotta la sua macchinina rossa, uno di quegli aggeggi che si guidano senza patente, per capire che il benessere dei mezzi di locomozione non è in cima alle sue priorità. La sua è ignoranza agonistica estrema shakerata con lucidità da killer. Per capirci, Bulega è uno di quei piloti che rientra ai box, gli spiegano cosa bisogna cambiare, esce, fa il giro di lancio e poi fa il tempo. È una di quelle persone cui non importa come vestirsi, dove andare a cena. In generale, non gli importa di nulla se non della sua moto da gara e di tutto quello che viaggia con lui fino in circuito: ecco di queste cose, sì, ama prendersi cura ed è capace di provare amore. Come quando il camion dello Sky Racing Team VR46 era andato in Austria a ritirare la sua nuova Moto3 e anche se era domenica sera, Nicolò ha insistito con chiunque potesse aprirgli il rimorchio per poter guardare la sua moto nuova, quella che avrebbe guidato nella prima gara del Motomondiale 2016. Il viso angelico che gli ha dato sua mamma Nathalie, insomma, è totalmente inadeguato alla sua indole: lo guardi da lontano ed ostenta sicurezza. È silenzioso, riflessivo, quando parla è solo per far capire che, caso mai ci fosse da fare a sportellate, lui ci sta. Ecco, la mamma. Nathalie Carlini è senza dubbio la matrice del ragazzo che sta diventando il pilota Bulega: nata a Berlino quando c’era ancora il muro, svezzata a San Giuliano a Mare, quella frazione di Rimini che i locali ribattezzano volentieri «Bronx», è cresciuta anche pelando le patate («perché ci si adatta a fare tutto, nel paddock») sul camion dell’hospitality del Team Lightspeed Kawasaki del mondiale Supersport mentre con un occhio lavorava e con l’altro controllava i figli di Haga, di Chili e pure il suo Nicolò. Non ci sono scale di grigi per la Nathalie, c’è il bianco o il nero, casomai non fosse chiaro che è una con due attributi grandi come la Germania riunificata. Nathalie è una che non te le manda a dire e riesce a essere competitiva anche quando fa il caffè, anche se poi può stare sveglia tutta la notte per fare quattro teglie di cappelletti, il piatto preferito di Nicolò. Mamma Bulega è una genuina via di mezzo tra l’ultrà nel quale si trasforma in pista e la donna che si scioglie quando parla di suo figlio. Nathalie, in generale, tiene alle cose, ma soprattutto a che siano fatte per bene. Un po’ di quest’indole teutonica l’ha passata al figlio: non è esattamente un ragazzo che sente la pressione, Nicolò. Anzi, quando le faccende si complicano lui si esalta. Pensi a Bulega e ti viene in mente uno consistente, uno che nella sua stagione finora più importante, quella del 2015, non ha segnato nemmeno uno zero ed è salito sul podio una volta sì e una no, finché è arrivato il momento di andare a giocarsi i punti decisivi per il Mondiale Junior a Valencia e dalla Spagna è tornato a casa con il titolo. La prima stella a 16 anni, per dire. Quel modo di fare da guascone gli sarà pure venuto perché da quando ha compiuto 11 anni ha vinto un titolo in ogni categoria in cui ha partecipato. E questo, senza dubbio, è anche per via del papà Davide. Figlio d’arte, si dice in questi casi, quando l’arte è anche pinzare intorno ai 300 km/h e tirare una staccata alla prima curva del Mugello. Davide Bulega, campione di velocità negli anni Novanta, non ha bisogno di troppe presentazioni. Forse nemmeno di troppe spiegazioni: tra un salto mortale e un tuffo carpiato ci è riuscito per davvero a far correre suo figlio. Una (bella) storia come ce ne sono solo nel Motomondiale. Fatta di sacrifici (tanti) e ricerca continua degli sponsor (pochi). Un papà schietto, spontaneo, che si è allestito l’ufficio in taverna trasformandosi in commercialista-manager-assistente tecnico-responsabile logistico del figlio. Ed è da quella sedia consumata che prova a mordere il mondo delle corse da quando ha smesso lui e ha cominciato Nicolò. Perché a questo punto ti viene da pensare che sono ricche e forse pure un po’ avide le famiglie dei piloti, e invece i soldi per correre non bastano mai, non si mette via niente, specie se le cifre con cinque zeri che devi inventare ogni stagione non vuoi farle pesare a un ragazzino, che ogni domenica deve solo abbassare la visiera e dar giù con il gas. Ci sediamo a tavola, mentre Nathalie sta ancora trafficando con i cappelletti in brodo, insieme a Davide e Nicolò ci portiamo avanti con una piadina sfoglia e jamon iberico, souvenir appena scaricato dai camion di ritorno dai test privati in Spagna. Il tutto annaffiato da qualche spritz. La carta d’identità di Nicolò è sul tavolo e un particolare attira immediatamente la mia attenzione. Ti chiami Nicolò Jarod Bulega. Perché Jarod? «Lo voleva mia mamma: è nata nella parte di Berlino dove c’erano gli americani, lì si usava il secondo nome, ci è affezionata. A dire il vero me ne vergognavo un po’ fino a qualche tempo fa, adesso invece mi piace. Anzi, volevo quasi farlo cucire sulla tuta». È un nome da surfista, o da cantante di una boy band. Ma in fondo sei alto, biondo e fisicato, se ti va male con le moto puoi sempre cominciare a suonare la chitarra. Alzi ancora il sedere per metterti in carena? Nicolò sbarra gli occhi come un gatto inquadrato dai fanali di un’auto di notte. «Si vede così tanto?». Si vede. «Lo so, è un problema, ci perdo qualche decimo al giro, ma io sono alto, cosa devo fare? Non ci sto. Uccio (Alessio Salucci, ndr) e Albi (Alberto Tebaldi, ndr) mi prendono in giro di continuo». A che ora ti sei svegliato questa mattina? «Verso le dieci, come sempre. Non sono proprio mattiniero, specie da quando ho lasciato la scuola. È che le mie spesso sono giornate lunghe, molto piene». Ti prenderai pure qualche pausa ogni tanto... «Beh sì, a volte me ne sto sul divano, la tv è sempre sintonizzata sulle repliche dei GP. In alternativa gioco, sempre a MotoGP, con la PS4 così nel frattempo do un’occhiata alle piste del Mondiale. Per me saranno tutte nuove quest’anno». E con quale pilota giochi a MotoGP? Hai fatto un team virtuale? «Certo. Gioco con Fabio Ouartararo, lo conosco, è forte. Ha già dimostrato quanto va, merita rispetto, poi forse c’è stato qualche intoppo nel suo team l’anno scorso». Bulega che gioca con Quartararo: un po’ fa ridere. Sai che molti già ti indicano come erede di un pilota MotoGP? Uno di Tavullia. Dicono che gli somigli molto. In effetti, vedendo la tua camera riordinata in modo maniacale viene da chiedersi se sia vero, se te ne rendi conto. «È tutta colpa di quel numero, lo sapevo che non dovevo usarlo». Intendi il 46 che hai usato la scorsa stagione quando hai vinto il Mondiale Junior, il CEV? Sei l’unico pilota della VR46 Academy che ha avuto l’onore di scendere in pista con il 46, è una cosa bella! «Il mio numero è l’11, ho sempre corso con l’11 come mio papà, ma era già preso quando sono arrivato al CEV. Guardavamo la lista dei numeri rimasti liberi, ma erano “brutti” (avevano a che fare con altri piloti o brutti ricordi, ndr). L’idea di usarlo è partita da Uccio, poi Albi e anche Valentino Rossi hanno detto che stava bene. Io ho sempre sentito una grande responsabilità con quel numero sulla moto. Molta responsabilità. Non so se riesco a spiegarmi per bene». Ma hai vinto, cosa non va? (Un po’ turbato, ndr) «Mi hanno massacrato. Specie adesso che sono arrivato al Mondiale, sui social mi dicono che sono un pallone gonfiato, uno che pensa già di esser chissà chi. Mi auguravano di tutto, pure di cadere, di farmi male. Ma si può?». Non si può, ma che ci vuoi fare? Sarà il successo. Però sono una minima parte queste persone, rispetto a tutti quelli che invece hanno visto solo una bella storia di sport. Non guardare troppo ai social, e non li guardare soprattutto durante il Gran Premio. «Infatti non li guardo più, mi danno dispiacere. Ci rimango male. E poi ho abbandonato il numero 46, anche se portava bene, anche se è stato un onore vincere un titolo proprio con quello. Per la prima stagione in Moto3, con lo Sky Racing Team VR46 avrò l’8. Prima che me lo chiediate: non mi aspetto nulla, diciamo di stare nei primi 15 quest’anno, per il resto vorrei solo imparare e fare chilometri». Ok. Ho notato, guardando le foto incorniciate qui in giro, perfino in quelle in cui sei bambino, che non ridi mai. «Non c’è da ridere, perché dovrei ridere?» Dopo il quarto piatto di cappelletti in brodo per Nicolò, e il bis per gli altri, decidiamo di prendere un caffè al bar storico dei Bulega, l’Insolito Caffè di fronte a casa, anche qui la TV è sintonizzata sulle repliche dei Gran Premi. Nicolò si prende anche un gelato. E dei biscotti. E uno snack. Mangi sempre così? «No, oggi solo perché la mamma mi ha fatto i cappelletti. Come li fa lei, non ci sono paragoni. Però in genere sono fortunato, brucio tutto, almeno per ora funziono così». Prima, a casa, nel decoder avevi in memoria il film Wolf of Wall Street. Lo stavi guardando tu? «È il mio film preferito, ogni tanto lo riguardo. Talento e follia: bellissimo». Senti Jarod, ma oggi non ti alleni? «Oggi no, ci siete voi. Se ti dico che è più faticoso fare un’intervista che allenarmi in palestra mi credi?». Ti credo. Il pomeriggio finisce con uno scontro senza esclusione di colpi al calciobalilla del bar di famiglia. Formazione della squadra rossa: Bulega Senior e Bulega Junior; formazione della squadra blu: Nathalie e la sottoscritta. Com’è andata a finire? Non sono autorizzata a dirvelo. Però un indizio ve lo do: alla fine mi auguravo che fossero avanzati dei cappelletti in frigo: dicono che facciano bene anche all’umore...