Luca Beatrice, Riders 4/2016, 18 maggio 2016
ALL’INFERNO E RITORNO
[Johnny Cash]
«Chiunque abbia conosciuto Johnny Cash può confermare che non era un uomo infelice. Nonostante la passione per gli abiti neri e le canzoni che parlavano di omicidi, Cash era una persona ottimista, affettuosa, gentile e dotata di senso dell’umorismo. Una persona che, se fosse stata meno innamorata della vita, sarebbe stata schiantata ben prima dai colpi che ha ricevuto. Trovava gioia nelle amicizie, nella cultura, nella famiglia, nella musica, nella natura e in Dio. “So cantare canzoni di morte. Ne ho vista tanta” disse una volta “ma sono ossessionato dalla vita”».
Così ha scritto uno dei biografi del re del country, Steve Turner, nel 2004, appena un anno dopo la sua morte, avvenuta il 12 settembre 2003, pochi mesi dopo che lo aveva lasciato l’adorata June Carter, la compagna di una vita, a lungo con lui sul palco e a sostenerlo nei momenti più difficili. Ne è passato di tempo dal suo addio a questo mondo, eppure Cash continua a esercitare una seduzione immutata in chi ancora crede nel fascino di una musica senza tempo, che non sarà di moda quanto il rap politicizzato o il new pop di plastica che ascoltano in file compressi le nuove generazioni, ma forse proprio per questo rasenta l’immortalità. È da poco uscita la splendida graphic novel I see a darkness, edita per l’Italia da BAO Publishing e disegnata nel 2006 dal tedesco Reinhard Kleist. E c’è in giro anche la sua autobiografia, scritta quasi vent’anni fa e ripubblicata da Baldini&Castoldi.
Non accenna a scemare l’onda di riscoperta di un musicista capace di influenzare diversi protagonisti venuti dopo di lui: Bob Dylan, Bruce Springsteen, Nick Cave, Trent Reznor tra gli altri. Il merito principale è legato a un episodio tardo di una carriera lunga e tormentata, ovvero l’incontro con Rick Rubin, produttore di rap ed heavy metal che ne intuisce capacità forse mai espresse. Scrive Franz Dobler nella prefazione a I see a darkness: «Senza Rick Rubin non esisterebbe la “cashmania”, né la biografia che ho scritto io, niente film (Walk the line diretto da James Mangold e interpretato da Joaquin Phoenix), niente fumetto. Quando Rick Rubin lo chiamò, il sessantunenne Cash non aveva più un contratto discografico. Senza l’incontro tra Johnny e Rick non si può raccontare la storia di Cash. Il nostro si è fatto le ossa con i Beastie Boys, i Public Enemy e gli Slayer e ora si impossessava di Johnny Cash. L’industria discografica country statunitense, il mercato musicale più potente del mondo, reagì di conseguenza: il circuito di reti radiofoniche e televisive e quello dei negozi, ignorarono letteralmente le American Series. Nel 1996 i due uomini ringraziarono pubblicamente, facendo comparire su un’intera pagina di Billboard Magazine una foto di Johnny Cash con il dito medio alzato. Così Cash, supportato, incoraggiato e guidato da Rubin, riuscì a portare a termine l’incredibile progetto di un’opera grandiosa».
La sua faccia è quella di un personaggio segnato dalla vita e dalla musica, un volto-opera d’arte che non si vedeva dai tempi di Chet Baker: ogni espressione, ruga, segno, sguardo raccontano una storia, una canzone, un frammento di una vicenda personale che finisce con l’incrociare la leggenda dell’America moderna.
Man in black: è questo il soprannome che Cash si è portato dietro fin da giovane e non soltanto perché vestiva sempre di nero. Un nero molto diverso dalle uniformi fighette di oggi, da «art addicted». La sua fu una scelta cupa, esistenziale, attraversata da dolori personali – la morte accidentale del fratello di cui si sentì, se non colpevole, almeno responsabile, il pessimo rapporto col padre, la dipendenza da alcol e droga, la fine del primo matrimonio e l’abbandono dei figli, la galera – e pervasa dal richiamo verso una cultura altra e anticonformista. La musica di Cash sta alla tradizione folk country come i personaggi di Steinbeck, Faulkner, Cormac McCarthy stanno alla letteratura realista americana. Anche le canzoni degli inizi, decisamente più semplici seppur di grandissimo successo, dimostrano una vena tragica che ritroviamo nelle immagini del suo volto da antieroe, da outsider, da perdente. Avendo conosciuto la triste realtà del carcere – nel 1965 fu arrestato per spaccio – e rischiato più volte di morire, ma anche per una spontanea sensibilità verso i rifiutati, Cash tenne uno dei concerti più famosi e intensi nella prigione di Folsom, la cui registrazione live divenne il disco più importante nella prima fase della sua carriera, nel 1968.
«L’album cementò» scrive Turner «l’immagine da fuorilegge di Cash... Quando gli chiedevano perché prendesse tanto a cuore la sorte dei detenuti, Cash rispondeva che loro dovevano sapere che non erano stati dimenticati. Potevano essersi meritati una punizione da parte della società, ma meritavano anche la loro dignità, soprattutto se in futuro dovevano riabilitarsi... Cash era anche consapevole dell’ammonimento biblico che imponeva di prendersi cura di chi è in prigione. In Matteo 25, Gesù distingue tra coloro che sono religiosi solo di nome da coloro la cui fede dà luogo ad azioni. Dice che i fedeli che si prendono cura dei malati e di chi è solo si prendono cura indirettamente dello stesso Gesù. “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”».
Nonostante i milioni di dischi venduti e l’aura di leggenda cupa che lo ha sempre circondato, Cash spesso venne liquidato dalla critica come cantante commerciale e rischiò negli anni 80, complici alcune partecipazioni televisive ed esecuzioni non degne della sua fama, di non risollevarsi dal prematuro declino. Poi, agli inizi degli anni 90, come detto, l’incontro con Rubin determina la svolta imprevista. Il produttore «sente» in Cash la voce dell’America. Ne asciuga il suono, impostando tutto il lavoro sulla voce, diventata nel frattempo profonda e ancor più nera, come di uno appena tornato dall’inferno. Accanto a nuove canzoni, alla rilettura di standard del country-folk, lo convince a interpretare brani celebri di autori contemporanei, i quali avvertono subito l’animo oscuro che li unisce al vecchio «uomo in nero», gli prestano i pezzi migliori, duettano con lui in passaggi davvero indimenticabili. Il culmine lo raggiunge con il brano e il video di Hurt, scritto da Trent Reznor, leader dei Nine inches nail. Lo interpreta con assoluta naturalezza, come fosse da anni nel suo repertorio. «Va beh» dice Cash «tanto io faccio qualunque canzone». In effetti con Rubin canta di tutto, accompagnato solo dalla chitarra acustica, qualche volta dal pianoforte.
Rubin lavora anche sull’immagine di Cash, nel frattempo smagrito: basta camicie con i pizzi e completi eleganti, il nero diventa assoluto, e così coinvolge grandi fotografi come Anton Corbjin per immortalare il viso rugoso, l’espressione fissa per via di una emiparesi, le mani segnate, ma anche la fierezza con cui indossa un lungo spolverino nero o il suo scivolare nell’ombra, come il colonnello Kurtz di Apocalypse now.
Dal 1993 al 2003 Cash pubblica cinque dischi prodotti dall’etichetta di Rubin, l’American Recordings, e altri ne usciranno postumi, tra cui una serie di outtakes raccolta nel box quintuplo uscito nel 2004: tutti ottengono un successo clamoroso. In questi album la voce di Cash attraversa e rilegge la storia della musica contemporanea. Ancora a proposito di Hurt, Reznor diceva che l’interpretazione di Cash era capace di far sparire l’originale. Per non parlare di Personal Jesus (Depeche Mode), Hallelujah (Leonard Cohen e il sopravvalutato Jeff Buckley), Desperado (Eagles).
C’è però un pezzo che ha segnato il destino: il duetto tra Cash e Joe Strummer, ex Clash, sulle note di Redemption song di Bob Marley. Pochi mesi dopo, se ne sono andati entrambi. Straight to Hell, dritti all’inferno, dove forse hanno raggiunto il re del reggae. Che li stava aspettando per mandare tutti insieme a quel paese gli angeli.