Elisabetta Esposito, SportWeek 7/5/2016, 7 maggio 2016
IL PUGILE HI-TECH CONTRO ROCKY
[Giovanni De Carolis]
Quando si presenta al ristorante della palestra Columbus, due passi da via Cristoforo Colombo a Roma, Giovanni De Carolis ha gli occhi vispi e il sorriso rilassato. Difficile credere abbia appena finito il suo lungo allenamento mattutino, tutto marker biochimici e scienza. Il campione mondiale Wba dei supermedi ordina un riso tonno e zucchine, «scondito ma abbondante, perché devo salire». Ovvero prendere peso per quando a luglio difenderà il titolo contro il tedesco Zeuge. Ma, per ora, vuol parlare d’altro. A Giovanni, 31 anni, una moglie e due figli, non va giù la storia dei ragazzi che diventano pugili per riscatto sociale. «Mi sa che avete visto tutti troppe volte Rocky», dice. Rivendica invece il suo passato felice, con la mamma insegnante e il padre architetto, una famiglia tranquilla di Fonte Meravigliosa, zona Roma sud, senza alcuna rabbia repressa da gestire prendendo a pugni qualcuno.
«C’è la tendenza a romanzare le nostre vite, a parlare della boxe come rivalsa sociale. Anche quando ho vinto il titolo, più che del successo si è scritto del ragazzo che “dalla palestra popolare” è arrivato in cima al mondo. Ma basta! Forse era così in passato, fino agli Anni 80, quando il riscatto era anche economico, i soldi giravano e molta più gente sceglieva il pugilato. Oggi per farlo ad alti livelli devi essere una persona, permettetemi il termine, con i controcoglioni, nel senso che agli allenamenti, per campare, devi necessariamente accostare un’altra professione. Serve testa sulle spalle».
Poi però apri il giornale e leggi di Mirco Ricci, pugile titolato e romano come lei, arrestato in passato per rapina e lesioni gravi e ora per il sequestro di un bambino a scopo di estorsione.
«Lo conosco bene, ci siamo allenati a lungo insieme, in palestra è sempre stato un amico, uno a posto come gli altri, non lo riconosco in ciò che leggo oggi. Quando ho saputo di questa storia, su cui spero si faccia chiarezza, ci sono rimasto male e mi ha dato fastidio veder sottolineato che fosse un pugile: con gli altri mestieri non mi pare accada. I media si occupano di pugilato solo in questi casi e mi dispiace. Tanto per essere chiari, si è scritto molto più del caso Ricci che del Mondiale che ho vinto a gennaio».
Allora scordiamoci Rocky e parliamo della sua storia. Perché la boxe?
«Per caso. Giocavo a calcio e dopo un contrasto un po’ più pesante ho sentito l’esigenza di irrobustirmi. Sono andato in palestra alla Garbatella per fare pesi, ho visto lavorare un pugile e ho capito che essere solo grosso non serviva. Così, verso i 16 anni, ho iniziato a seguire la preparazione atletica della boxe. Pian piano mi è venuta voglia di salire sul ring e lì ho scoperto che per combattere dovevo seguire un percorso emotivo importante, che va al di là dello sport stesso. Era quell’emozione che a me piaceva, una questione quasi spirituale, che ha poco a che fare con la prevaricazione e l’aggressione dell’avversario. Al primo match infatti, dopo un anno di allenamento, arrivai emotivamente impreparato: persi l’incontro e anche due denti... Ci rimasi malissimo, pensai di mollare tutto. Poi, in un’altra palestra alla Montagnola, conobbi il mio attuale maestro Italo Mattioli e con lui vinsi la prima volta, per k.o. al primo round. Fu un nuovo punto di partenza, anche se la mia insicurezza mi ha sempre fatto vivere di alti e bassi».
Insicurezza?
«Beh, da bambino ero molto timido, mi sono sciolto lavorando come cameriere. L’ho fatto per tanto tempo, già dal liceo e ho proseguito durante l’università: ho frequentato due anni di architettura, ramo grafica e progettazione multimediale. Sono sempre stato molto impegnato, anche perché in tutto questo continuavo a giocare a calcio con l’Almas Roma e prendevo pure qualche soldino. Ho smesso nel 2007, quando sono diventato pugile professionista. E quando poco dopo Veronica, che oggi è mia moglie, è rimasta incinta, ho lasciato anche l’università e il ristorante. Ho iniziato a lavorare come venditore di materiale edile ma dopo un anno ho mollato anche quello per insegnare pugilato in tre diverse palestre: avevo un ottimo stipendio, 1.200-1.300 euro al mese, e lavoravo tre ore al giorno invece di otto. Poi aggiungevo le lezioni private, a 25 euro l’ora invece dei 50 che chiedevano gli altri. Andava tutto talmente bene che ho deciso di aprire con mia moglie una palestra a Mazzano Romano, dove mi ero trasferito a vivere: un locale piccolo, solo ring e sacchi. Funzionava, da me non venivano perché la palestra era bella, ma perché volevano davvero fare sport. Dopo sei anni ne abbiamo aperta un’altra più grande e più attrezzata a Monterosi, a nord di Roma, continuando a seguire le persone sotto ogni punto di vista. Ci lavoro ancora, si chiama Next e per fortuna va bene».
Tutto ciò perché, come si diceva, di solo pugilato non si campa.
«Il problema, per i professionisti, è che non ci sono contratti lunghi, solo gettoni. Non hai garanzie. La boxe deve piacerti molto. È uno sport povero, anche se nel match del secolo May weather guadagna 150 milioni di dollari in 46 minuti e l’avversario 100».
E in questo contesto come si arriva a vincere un Mondiale?
«Faticando. A me sono serviti 15 anni e un percorso in cui ho incontrato le persone giuste, fondamentali nei momenti di sconforto. Ho perso 6 volte su 30 incontri, se non avessi avuto accanto chi credeva in me non so come sarebbe andata a finire».
Tra le sconfitte che bruciano c’è anche quella dell’ottobre scorso per il titolo, tra mille polemiche, ai punti contro il tedesco Feigenbutz, in Germania...
«Quella ha fatto male. Ero convinto di aver vinto e al verdetto per la prima volta mi sono venute le lacrime agli occhi, ero deluso. Ma la tv tedesca ha imposto la rivincita quasi immediata minacciando di togliere Feigenbutz dai palinsesti: in Germania erano tutti delusi, convinti che il loro pupillo, che chiamavano Iron Junior, mi “mangiasse” in 2-3 riprese, per questo serviva un nuovo match. Abbiamo combattuto a gennaio e ho vinto! Ero stracarico e avevamo lavorato per intrappolare tatticamente l’avversario con una preparazione atletica impeccabile».
Ecco, il suo allenamento è interamente basato sulla scienza.
«Vero. Quando con Antonello Regina, il mio preparatore, spieghiamo la metodologia Elav della Bio Programmazione, che seguiamo, la gente resta un po’ perplessa... Il concetto non è quello di un tempo, “più fatico e più sono forte”. Grazie anche a una serie di strumenti di misura “real time” (bioimpedenziometria, variabilità cardiaca) e test specifici facciamo le cose puntando sulla massima qualità. Ci sono in ballo variabili che dipendono da molti fattori, quindi non c’è mai un allenamento uguale all’altro, né è possibile programmare i giorni di lavoro e di riposo. Per capirci, se una mattina ti rode magari è meglio non fare nulla o quasi. Ma questo non lo decide l’istinto, ci sono strumenti che verificano la tua condizione. Può essere pure che da arrabbiato quel giorno tu possa dare più del solito. L’obiettivo è valorizzare l’allenamento al 100% monitorando i carichi. Io lavoro molto meno di prima, eppure i risultati sono decisamente migliorati. Ho conosciuto Antonello nel 2013 e in un mese ha rivoluzionato la mia preparazione facendomi fare una gran bella figura nel match contro Abraham, mostro sacro da un milione e mezzo a incontro che vantava 28 k.o., con un avversario lasciato al tappeto in coma farmacologico e un altro fermo due anni per problemi neurologici... Ne sono uscito sconfitto ma senza un segno, nonostante il mio destino fosse da vittima sacrificale, il classico italiano preso a buon prezzo per immolarsi... Da allora il lavoro con lui è diventato fondamentale, al pari dell’allenamento tecnico e dei consigli del mio nutrizionista».
Quindi per il match del 23 luglio in Germania contro Tyron Zeuge siamo pronti?
«Abbiamo appena ripreso la preparazione a già sono sugli standard dell’ultimo match, quindi direi di sì. Sto bene e abbiamo un ottimo piano per fermare Zeuge. Però sono arrabbiato».
Perché?
«Ho provato in ogni modo a portare l’incontro a Roma, ma la Germania non ha ceduto. Mi è spiaciuto, ho il timore di non essere tutelato. Quando ho vinto a gennaio molti hanno parlato di impresa, non tanto perché avevo battuto un tedesco davanti ai tedeschi quanto perché avevo convinto una giuria difficile. Temo non ci sia giustizia sportiva e l’idea di un altro furto fa male. In Germania sono ancora scottati dalla mia vittoria e rivogliono il titolo. Tra l’altro non mi hanno ancora mandato la cintura mondiale, non vorrei se la siano tenuta lì per risparmiare sulle spese di spedizione...».