VARIE 16/5/2016, 16 maggio 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - LIBIA, COOPTARE HAFTAR
REPUBBLICA.IT
VIENNA - "Non chiediamo un intervento straniero in Libia, ma chiediamo assistenza con addestramento e la rimozione dell’embargo delle armi al nostro governo: la comunità internazionale ha responsabilità verso la Libia, e quando si tratta di sconfiggere lo Stato islamico ricordo ai nostri amici che questo sarà raggiunto dagli sforzi libici e senza intervento militare straniero". Con un articolo il primo ministro libico Fayez Serraj ha lanciato le sue richieste alla comunità internazionale che si ritrova oggi a Vienna per discutere del futuro dello stato nordafricano.
Il premier è stato designato in dicembre dopo un accordo fra le fazioni libiche favorito dall’Onu. Ma a tutt’oggi Serraj non riesce ancora a governare il Paese, per problemi di sicurezza, per la sfida del terrorismo dello Stato Islamico, ma soprattutto per le profonde divisioni che percorrono ancora la società politica libica 5 anni dopo la rivoluzione contro Gheddafi.
Nel suo appello Serraj aggiunge che "tutti gli Stati devono lavorare solo con le istituzioni legittime secondo quanto prevede l’Accordo politico libico, ma alcune attività stanno minando i nostri sforzi e intensificheranno solo il conflitto".
Il premier fa un chiaro riferimento al sostegno politico e militare che arriva ad alcuni elementi della Cirenaica, innanzitutto il generale Haftar e il presidente del parlamento di Tobruk Agila Saleh. Un sostegno che invece di convincere Tobruk a convergere sul nuovo governo di Tripoli (come da accordi Onu), ha convinto l’ex generale gheddafiano ad alzare la posta e il livello delle richieste che fa per una pacificazione nazionale.
Il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni vogliono rispondere proprio alla richiesta di sostegno fatta da Serraj, che dal 30 marzo è arrivato a Tripoli con il suo "consiglio presidenziale", ma che ancora non riesce a vedere in funzione il suo governo visto che i ministri non sono stati ancora votati dal Parlamento di Tobruk.
Kerry da parte sua ha assicurato: "Appoggeremo il consiglio di presidenza e cercheremo di revocare l’embargo e fornire gli strumenti necessari per contrattaccare l’Is" in Libia. "E’ importante e urgente risolvere la situazione in Libia il più velocemente possibile, tutti conoscono il prezzo inaccettabile delle rivalità interne che stanno infliggendo al popolo libico, all’economia e alla sicurezza e l’aumento dell’estremismo che sta traendo vantaggio". Kerry ha ribadito che il governo Serraj è "l’unico legittimo della Libia", che "ora deve iniziare a lavorare" ed è un "imperativo per la comunità internazionale sostenerlo". Il segretario di Stato Usa ha ribadito inoltre che "coloro che minacciano la pace e la sicurezza in Libia o che vogliono ostacolare la transizione politica dovranno affrontare la prospettiva delle sanzioni".
In conferenza congiunta con Kerry il ministro Gentiloni ha ribadito: "La stabilizzazione della Libia è la chiave per combattere il terrorismo. Senza si rischia un conflitto interno, anche armato. Cercheremo di rafforzare l’accordo politico, per combattere contro l’Is, incluso il generale Haftar, ma serve il riconoscimento pieno" del governo di unità nazionale. "Siamo pronti ad addestrare ed equipaggiare le forze militari libiche come ci chiede il governo Sarraj". La Libia ha più volte ribadito di "non volere un intervento di terra" ma un "sostegno" della comunità internazionale a "formazione e addestramento" ha sottolineato Gentiloni. "Sarraj ha insistito fortemente sulla ownership della sicurezza". In sostanza "il messaggio che arriva oggi da Vienna è che la Libia rimane unita, non si alimentano divisioni, i libici combatteranno il terrorismo e non ci sarà un intervento straniero di terra" ha sottolineato il ministro ai microfoni di SkyTg24.
Pochi giorni dopo l’ultimo summit sulla Libia, che si tenne nel dicembre scorso a Roma, rappresentanti dei due parlamenti rivali (il Congresso dei deputati di Tobruk, riconosciuto a livello internazionale, e il Congresso Nazionale generale, conosciuto come il "parlamento ribelle" di Tripoli) firmarono a Skirat in Marocco l’intesa che ha portato alla formazione del "Governo di Accordo Nazionale" che progressivamente dovrà consolidare la tregua nella guerra civile e riunificare le istituzioni libiche.
Un passo decisivo è il voto del Parlamento di Tobruk, che secondo l’accordo Onu è l’unico ad avere ancora legittimità prima dell’entrata in vigore del nuovo assetto costituzionale. Il presidente della "House of Rapresentatives" Agila Saleh da mesi ha messo in atto un boicottaggio per impedire ai deputati di votare, tanto che è stato sanzionato prima dall’Unione europea e poi anche dall’amministrazione Obama.
Agila ha convocato per oggi i suoi vice e alcuni deputati per discutere della possibilità di convocare la seduta parlamentare per il voto di fiducia: la riunione servirà per studiare la possibilità di modificare il cosiddetto "Annuncio costituzionale" (che funge da Costituzione provvisoria), considerato da Saleh un passo necessario per arrivare al voto di fiducia sul nuovo governo. Per sette volte il Parlamento libico si è riunito a Tobruk, in Cirenaica, senza mai riuscire a votare la fiducia ai ministri presentati dal premier Sarraj
PEZZO DEL 26 APRILE
ROMA - Il governo italiano ha già pronti i piani per offrire una prima risposta al premier libico Fayez Serraj che ha chiesto l’aiuto dell’Onu per proteggere i pozzi e gli impianti di petrolio della Libia. Fonti della Difesa confermano che per difendere le organizzazioni internazionali a Tripoli (ambasciate Onu e Ue e altri uffici internazionali), in una prima fase l’Italia potrebbe guidare 250 uomini delle Nazioni Unite, fornendo un contingente di 50 militari fra Esercito e carabinieri. Non sono i 900 uomini di cui parlano oggi alcuni mezzi di informazione, una disponibilità che è stata smentita da Palazzo Chigi e dal ministero della Difesa, anche se di sicuro nei piani della Difesa sono stati previsti impegni anche superiori ai 900 uomini, ma non in questa fase. Palazzo Chigi al momento precisa che i 900 soldati non sono stati messi ancora a disposizione né direttamente del governo libico e neppure delle Nazioni Unite.
La nota con cui Palazzo Chigi e la Difesa in parallelo smentiscono i 900 uomini ha chiaramente una ragione "tecnica" oltre che politica: al momento si è parlato di impegno militare internazionale solo per addestrare i militari libici o proteggere il governo. Non per andare in Cirenaica a combattere l’Islamic State che attacca i pozzi di petrolio o addirittura per schierarsi fra le diverse milizie libiche che potrebbero riprendere a combattersi nella guerra civile che è esplosa con forza nell’estate 2014.
Truppe in Libia, Di Feo: "Tutte le ragioni della cautela di Renzi"
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Il momento è molto delicato: da domenica, quando Serraj ha fatto la sua prima richiesta di aiuto all’Onu, il gioco si è fatto molto più serio. In poche parole la Libia chiede aiuto militare, anche se manca una richiesta formale avanzata all’Onu. E allora bisogna comprendere le ragioni della richiesta di Serraj: Tripoli ha la necessità di fronteggiare i continui assalti dell’Islamic State nell’Est del paese ai pozzi e alle installazioni petrolifere di carico e di stoccaggio.
Nelle ultime settimane i miliziani del califfo hanno provato più volte ad attaccare i depositi e i check point della "Petroleum facilities guard", la milizia guidata dal giovane rivoluzionario Ibrahim Jadran che da mesi ha assunto la protezione della maggior parte dei pozzi della Cirenaica. Venerdì scorso lo stesso Jadran è rimasto ferito lievemente in uno scontro, e questo ha fatto salire l’allarme nel governo Serraj, a cui Jadran ha giurato fedeltà.
Ma un altro elemento determinante in Cirenaica è il gioco del generale-ribelle Khalifa Haftar. Capo di una milizia che ha combattuto gli islamisti a Bengasi, Haftar di fatto tiene in ostaggio il parlamento di Tobruk e gli impedisce di votare a favore del governo Serraj. Nei giorni scorsi il generale ha ricevuto armi dagli Emirati Arabi Uniti, che assieme ad Egitto e Francia sono i grandi alleati di Haftar, in violazione dell’embargo deciso dall’Onu. Nel porto di Tobruk sono stati scaricati più di 1000 veicoli da combattimento leggeri assieme ad armi e munizioni. L’Egitto usa Haftar per allargare la sua influenza in Cirenaica, sperando di acquisire il controllo di parte dei traffici di petrolio nella regione. La Francia invece è stata "agganciata" al carro egiziano soprattutto dalle forniture militari che il generale Sisi ha chiesto a Parigi. Una mossa simile a quella che la stessa Arabia Saudita aveva fatto con i francesi già ai tempi del negoziato con l’Iran sul nucleare, un negoziato in cui Parigi più volte a sorpresa aveva complicato il percorso prima di riuscire a raggiungere l’accordo finale.
A questo punto Haftar, con nuove armi e nuovi finanziamenti, sarebbe in grado di avanzare verso i pozzi della "mezzaluna petrolifera", una zona che le sue forze non hanno mai controllato. I veicoli che gli sono stati consegnati sono dei "Panthera T6/T4", ovvero delle Toyota Land Cruiser modificate con blindature leggere fornite dalla Minerva Special Purpose di Dubai e la Ares Security Vehicles di Abu Dhabi. Per questo schierare una forza Onu a protezione dei pozzi significa potenzialmente combattere contro l’Islamic State, ma anche trovarsi a dover fronteggiare uno scontro con le milizie di Haftar.
In queste ore fra l’altro arriva un’ulteriore notizia che rafforza l’idea che Haftar vada verso una prova di forza contro Tripoli: il governo di Tobruk sarebbe riuscito a caricare una petroliera con 650mila barili di greggio, in violazione ai divieti imposti dalla National Oil Company. La vendita parallela di petrolio in Libia è vietata dalle risoluzioni Onu, ma Tobruk appoggiandosi a società degli Emirati sarebbe riuscita ad effettuare il carico. Secondo l’agenzia Bloomberg la petroliera Distya Ameya ha caricato petrolio estratto dai campi di Amessla e Sarir e convogliato nel terminal orientale di Hariga. Omran al-Zwai, portavoce per la Arabian Gulf Oil ha confermato che la petroliera sarebbe salpata lunedì per Malta: il carico è destinato alla società emiratina DSA Consultancy. Il governo di Tripoli ha già dichiarato illegale la vendita e attraverso il portavoce della Noc Mohamed El Harari ha fatto sapere che ricorrerà alle Nazioni Unite. Ci sono tutti gli elementi per una nuova fase della guerra civile in Libia, questa volta con un governo (quello di Tripoli) che di fatto è stato creato e viene riconosciuto dalle Nazioni Unite.
LASTAMPA.IT
Nella bozza di documento finale della conferenza sulla Libia a Vienna, viene ufficializzata la disponibilità dei Paesi partecipanti a favorire un percorso di alleggerimento di un embargo sulle armi al governo di Fayez al Sarraj. Le indiscrezioni vengono riferite dall’Ansa che cita fonti qualificate. I lavori della conferenza sono tuttavia ancora in corso e si attende la ratifica finale al documento da parte dei Paesi partecipanti.
L’EMBARGO RESTA PER ALCUNE MILIZIE
I paesi della conferenza di Vienna «sostengono lo sforzo del governo Sarraj per avviare un percorso all’Onu che porti ad un alleggerimento dell’embargo sulle armi» per le forze militari riconosciute dal consiglio presidenziale. Nella bozza, ancora in discussione alla conferenza, si ribadisce però la necessità di mantenere l’embargo delle armi, in vigore dal 2011 dall’inizio della rivolta contro Muammar Gheddafi, per le milizie escluse da questo percorso. Nei giorni scorsi la notizia era stata diffusa da fonti diplomatiche statunitensi che hanno precisato che il governo Sarraj dovrà presentare al consiglio di sicurezza dell’Onu un elenco dettagliato delle forniture, la loro destinazione e il loro uso connesso alla lotta all’Isis.
PINOTTI: “I LIBICI DEVONO DIRCI COSA FARE”
«L’Italia ha sempre detto che per stabilizzare la Libia bisogna chiedere ai libici come fare» ha detto il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che in una conferenza all’Ispi ha osservato che in «passato si è visto che la robustezza militare importata e vissuta come uno sfregio all’orgoglio di un Paese ha alimentato i fenomeni di terrorismo». Pinotti si è detta comunque convinta che alla riunione di Vienna di queste ore «può essere fatto un passo avanti» e che un buon punto di partenza «è la proposta fatta da Serraji di un comando unificato di chi sta combattendo l’Isis in Libia».
KERRY ELOGIA L’ITALIA
L’Italia ha con la Libia «una relazione e un interesse molto speciale», ed è «sempre al primo posto nello sforzo» per la stabilizzazione del Paese. Il segretario di Stato Usa John Kerry aprendo la conferenza stampa della conferenza multilaterale a Vienna ha aggiunto: «Sono grato al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e all’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini per il loro impegno e la loro leadership sulla questione», ha detto ancora Kerry.
SARZANINI SU CDS DI STAMATTINA
Il contingente militare che dovrà garantire la sicurezza della sede Onu in Libia arriverà dal Nepal. In attesa che la situazione si stabilizzi, l’Italia non prevede l’invio di soldati. La conferma è arrivata in queste ore, alla vigilia del vertice di Vienna che dovrà studiare un percorso di sostegno al governo guidato da Fayez Serraj. Troppo alti sono i rischi, troppo forte il pericolo che i reparti stranieri diventino bersagli di attacchi. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi decide dunque di tenere la linea che aveva già anticipato nelle scorse settimane spiegando che «di fronte alle pressioni per andare in Libia abbiamo scelto una strada diversa». L’impegno del nostro Paese segue il percorso della diplomazia, non a caso la Farnesina ribadisce in una nota che «obiettivo prioritario rimangono l’unità e la stabilizzazione della Libia» e di questo discuteranno in Austria dalle delegazioni guidate dal segretario di Stato Usa John Kerry e dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
I report dal campo
In vista del decreto di finanziamento delle missioni all’estero che dovrà essere approvato questa settimana, si sono intensificate le consultazioni tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e i ministri competenti. Sono stati analizzati i report dei comandi delle forze armate e dell’ intelligence proprio per avere un aggiornamento sulla situazione libica che tenesse conto degli equilibri politici dopo l’insediamento del nuovo governo e soprattutto della possibile minaccia fondamentalista nei confronti dei reparti militari stranieri.
Le informative confermano una instabilità ancora molto evidente, ribadiscono l’alta probabilità che soldati provenienti da Europa e Stati Uniti potrebbero essere vissuti come veri e propri invasori, quindi esposti a ritorsioni, pur muovendosi in una cornice voluta dall’Onu. E dunque il governo decide di non rischiare. Rimane la possibilità, prevista da un provvedimento firmato dallo stesso Renzi, di utilizzare nuclei speciali per missioni segrete. Ma per quanto riguarda gli altri compiti di vigilanza e addestramento la scelta è quella di prendere tempo.
Il ruolo del Colle
Era stato proprio l’inviato delle Nazioni Unite, il tedesco Martin Kobler, a sollecitare l’impiego di truppe per la sorveglianza della nuova sede che sarà spostata da Tunisi a Tripoli. Una mossa concordata con Serraj che doveva rappresentare il primo passo per un ingresso degli stranieri nel Paese in maniera graduale e «poco visibile», come del resto era stato chiesto dal nuovo premier libico proprio nel timore che ciò potesse aizzare ulteriormente gli oppositori interni. I primi a rispondere sono stati i Nepalesi e a questo punto saranno loro i primi ad arrivare in Libia.
La possibilità che anche l’Italia fosse subito in prima linea è stata riesaminata dallo stesso Renzi con il capo dello Stato Sergio Mattarella. Come ha più volte detto pubblicamente, il premier non è mai stato un sostenitore di interventi militari senza una cornice di sicurezza effettiva. Lo stesso presidente della Repubblica ha sempre sottolineato la necessità di muoversi soltanto di fronte a una richiesta esplicita del governo libico. E alla fine si è concordata una linea di prudenza.
L’Italia continuerà a sostenere il governo Serraj e in questa fase si concentrerà in modo particolare sull’impegno umanitario. L’obiettivo rimane quello di ottenere il comando del contingente internazionale, ma ciò potrà avvenire — in accordo con gli altri Paesi alleati nella coalizione — soltanto quando si sarà stabilizzata la situazione. Anche tenendo conto che i contingenti italiani sono già impegnati su vari altri fronti.
L’Isis in Iraq
Si sta potenziando la presenza in Iraq a sostegno dei Paesi impegnati nei raid contro le postazioni dell’Isis. «Abbiamo cercato di concentrare i militari nelle aree che riteniamo più inerenti alla nostra sicurezza», conferma la titolare della Difesa Roberta Pinotti in un’intervista a Sky.
Sono 800 i soldati di stanza tra Erbil, Bagdad e Kuwait City. A loro si aggiungeranno presto altri 130 uomini del personal recovery e i 450 addetti alla protezione dei lavori della diga di Mosul. Per quanto riguarda gli equipaggiamenti, a Erbil è arrivato un elicottero che si aggiunge ai quattro già presenti e ai Mangusta. Si tratta di un velivolo che avrà come missione il recupero dei soldati dispersi oltre le linee nemiche.
FRANCESCO BATTISTINI
A Sirte, a Sirte! Con poche strategie e molte chiacchiere, a sconfiggere l’Isis adesso ci vogliono andare tutti. Vuoi mettere? Chi ce la fa, diventa l’eroe dell’Occidente. Il baluardo dell’Europa. Il Peshmerga della Libia che difende tutti noi e può quindi chiedere al mondo più armi, più considerazione, un investimento politico.
Tutti a Sirte, allora. Il generale Khalifa Haftar è stato il primo a radunare i soldati e a lanciarsi col suo Libyan National Army, Lna. Il premier Fayez Al Serraj è stato l’ultimo a capire che l’obbiettivo è simbolico, il risultato appagante, e una settimana fa pure lui ha creato una «coalizione delle milizie» di buona volontà (poche) per combattere «tutt’insieme» (leggi: quasi nessuno) lo Stato Islamico. In mezzo si sono mossi anche i militari di Misurata, tra i pochi che hanno davvero le armi, e i loro alleati islamisti di Alba libica. Per non dire delle tribù che circondano Sirte. O del Signore dell’Oro Nero, Ibrahim Jadhran, che sotto Sirte controlla i pozzi e qualche giorno fa l’ha detto ai suoi: «In un piccolo pezzo di terra ci giochiamo il futuro d’un intero Paese».
Quanta retorica. In un Paese (anzi, tre) che ha quattro governi e due Parlamenti — con un deficit al 54% del Pil, riserve di denaro in esaurimento entro due anni, quasi 5 mila morti, 435 mila sfollati, un tasso d’omicidi che è dieci volte quello egiziano e 17 quello tunisino, il 40% della popolazione che ha bisogni umanitari e il 60% degli ospedali distrutto — qualcuno pensa davvero che la priorità del libico medio sia combattere l’Isis? L’unica cosa evidente ai governi occidentali è che non tocca a loro. L’unica cosa sicura è che, nel caso tocchi ai libici, lo farebbero ognuno per sé e tutti contro tutti. «Una vergogna», commenta l’ Economist . «Un rischio troppo grosso», dice una fonte diplomatica italiana: «Il primo, vero pericolo di un’eventuale avventura militare occidentale è proprio questo: l’assenza di un’alleanza sul terreno».
L’armiamoci-e-partite era già sottinteso nella risoluzione 2259 dell’Onu, dove si stabiliva come un intervento armato internazionale potesse venire richiesto solo dal governo Serraj. E se il mite Serraj rimane paralizzato tanto dal veto d’egiziani ed Emirati, i burattinai di Haftar, quanto dalla diffidenza di Tripoli? «L’Italia, che non ha mai amato granché Haftar, corteggiato invece dai francesi, non poteva certo mostrare simpatie per la Fratellanza musulmana. È normale, oggi, che non possiamo contare su nessun autentico alleato…».
Inaffidabili i tripolini e i misuratini, scaricati per necessità internazionale, prima in favore del governo riconosciuto di Tobruk e poi di Serraj. Irritabili quelli di Tobruk che non hanno mai digerito la nostra ambasciata a Tripoli, nonostante non ne riconoscessimo la legittimità. E irrecuperabile, almeno all’apparenza, il rapporto con Haftar che per un anno ci ha chiesto armi e soldi: l’Egitto è una variabile di questo scenario militare e «la pace — spiega un deputato di Tobruk — può partire solo su ordine del Cairo, dopo una ricucitura dell’Italia sul caso Regeni». Chi credete ci sia dietro i nostri tricolori bruciati in tutta la Cirenaica, le scorse settimane? E sapete come si chiama l’operazione militare che il Generalissimo ha intrapreso verso Sirte? Al Qurdabiya. Esattamente come quella che i libici scatenarono contro l’invasore italiano, nel 1915…
Nessun amico, nessun nemico. La mancanza d’alleati sicuri, per l’Italia, si porta dietro un altro pericolo: chi dovremmo combattere? L’Isis, d’accordo. Ma dalla Tripolitania o dalla Cirenaica? «Non sappiamo nemmeno quale possa essere il fronte», dice la voce diplomatica: «A una guerriglia asimmetrica, contro autobombe e attacchi terroristici, dovremmo unire una guerra a milizie che in una zona sono amiche degli amici e, in un’altra, diventano amiche dei nemici». A Zintan, per esempio: dove sostengono militarmente Haftar, ma non tutti sono d’accordo con un suo ruolo politico, mentre alla lotta all’Isis antepongono quella a Tripoli…
Tanta confusione spiega la cautela degli americani — che in Iraq hanno inviato 5 mila soldati e in Libia meno di 50 uomini in sei mesi — dovuta non solo alla scarsa voglia di farsi coinvolgere: al Pentagono sanno bene che una campagna militare è tutta da studiare. Forse pure il resto d’Occidente — dagl’inglesi che hanno on the ground un centinaio di gruppi speciali Sas, ai francesi asserragliati nell’aeroporto di Bengasi — va capendo: «Gli europei hanno ciò che volevano, un governo Serraj formalmente d’unità nazionale — dice in un suo rapporto l’analista Mattia Toaldo, uno dei maggiori esperti sul tema —. Ora non dovrebbero farsi carico di richieste irrealistiche, dalla fine della crisi dei migranti alla sconfitta dell’Isis. Piuttosto, dovrebbero lavorare per rafforzare la politica del governo Serraj nel controllo del Paese».
Già, il governo che non c’è. Il pericolo maggiore. Come il controllo dei pozzi o la fine dell’embargo sulle armi: due passi necessari, prima di marciare a sconfiggere l’Isis. Non c’è campagna militare, senza un interlocutore politico. E nessuno mette gli scarponi nel fango, finché il premier non si sporca i mocassini nemmeno nelle strade di Tripoli.
LA STAMPA DI STAMANE
FRANCESCO SEMPRINI
Nascosti sotto il pelo dell’acqua, invisibili e in continuo movimento, da oltre un anno quattro sommergibili della Marina militare italiana svolgono davanti alle coste libiche un compito di importanza strategica: controllano le comunicazioni che si scambiano - tra di loro e via etere - singoli o gruppi terroristi o potenzialmente eversivi. Potendo così seguire mosse, spostamenti e piani. E’ un’operazione coperta dal più stretto riserbo, i cui dettagli non possono essere rivelati anche quando consente di acquisire informazioni di grande utilità per la sicurezza nazionale. I sommergibili sono parte integrante della missione Mare Sicuro, affidata dal governo alla Marina, che da tredici mesi vede 900 marinai pattugliare il Mediterraneo centrale, al largo delle coste del Nord Africa e in particolare della Libia. «L’operazione - recita l’unico comunicato ufficiale della Marina militare, risalente allo scorso anno - prevede missioni da svolgere, a tutela degli interessi nazionali, con attività di presenza, sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale». È il termine «sorveglianza» a implicare l’uso dei sottomarini. La missione Mare Sicuro fu varata nel febbraio del 2015 quando venne accertata la presenza di terroristi dell’Isis a Sirte, la città sulla costa che aveva dato i natali a Gheddafi. Avere i terroristi che si affacciano sul Mediterraneo costituisce una minaccia diretta alle piattaforme petrolifere off-shore dell’Eni, al gasdotto che congiunge la Libia all’Italia, e alle nostre coste. Da quel momento, tredici mesi fa, la Marina militare non ha mai mollato la presa nell’azione di sorveglianza verso le coste libiche. A questo scopo, determinanti sono stati i due sommergibili della nostra flotta, classe U212, che sono un fiore all’occhiello della tecnologia italo-tedesca della navigazione in immersione, del combattimento e soprattutto della guerra elettronica. Ci sono state ironie, in passato, sulla presenza dei nostri sommergibili al largo della Libia. La Difesa ha risposto al le critiche sottolineando quanto sia stato importante il loro apporto per seguire alcune navi-madre cariche di migranti, bloccate in alto mare prima che facessero scendere il carico umano sulle carrette che trainavano e che poi avrebbero lasciato andare alla deriva verso le nostre coste. Il ministero guidato da Roberta Pinotti non ha parlato invece di quanto i sommergibili - si sono alternati lo «Scirè» e il «Salvatore Todaro» - siano stati preziosi per monitorare le comunicazioni del nemico. Poco nota, e addirittura coperta da segreto militare quanto ai dettagli, è la capacità dei nostri sommergibili nelle funzioni “ESM”, l’acronimo dell’Alleanza atlantica per «Electronic Support Measures» ovvero misure di sostegno elettronico. Le “ESM” includono capacità di intercettare, localizzare, registrare e analizzare fonti. Si tratta della frontiera più avanzata dell’impiego dei sommergibili: non più la guerra dei siluri, come avveniva nel secondo conflitto mondiale, ma la guerra elettronica. Grazie alla capacità di navigare senza poter essere rilevato, questo tipo di sottomarini - la classe U212, costruita da Fincantieri e Howaldtswerke, di cui si sono dotati le marinerie italiana, tedesca e israeliana, è eccellente, anche se costa carissima, nell’ordine di 1 miliardo di euro ad esemplare - non soltanto è in grado di sfuggire al controllo degli altri, ma di spiare le comunicazioni nemiche arrivando sotto-costa, rimanendo in immersione per lunghi periodi. Con 4 ufficiali e 23 sottufficiali a bordo, propulsione a idrogeno, celle a combustibile che producono ossigeno, ogni tipo di apparecchiatura elettronica, oltre al tradizionale carico di siluri, lo «Scirè» e il «Salvatore Todaro» - a cui da un anno si sono aggiunti il «Romeo Romei» e il «Pietro Venuti» - tengono sotto controllo i miliziani dell’Isis «taciti ed invisibili», come solo i sommergibili possono fare.
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GIORDANO STABILE
C’è un convitato di pietra al vertice internazionale sulla Libia che si tiene oggi a Vienna. E si chiama generale Khalifa Haftar. Il summit, convocato e co-presieduto dal Segretario di Stato Kerry e dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, ha come obiettivo dare una spinta decisiva alla stabilizzazione del Paese, con l’appoggio della comunità internazionale e dei Paesi confinanti. E soprattutto investire di ulteriore legittimità e autorevolezza il premier Fayez al-Sarraj, che finora è riuscito a «riconquistare» solo una piccola fetta di Tripoli ma sarà presente in Austria al suo primo grande appuntamento all’estero.
La diplomazia italiana ha ottenuto che venisse confermato il «formato di Roma», con gli stessi partecipanti del vertice del 13 dicembre 2015 che diede il via libera proprio all’impresa di Al-Sarraj. Ci saranno i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, i più importanti Paesi europei, e i vicini della Libia: Tunisia, Egitto e anche Ciad, Niger, Sudan. Rispetto a qualche mese fa da Roma trapelano però segnali di apertura verso il grande rivale di Al-Sarraj, quel generale Haftar che sta lanciando le truppe contro l’Isis a Sirte per conquistarsi sul terreno il ruolo di vero leader della nuova Libia.
I segnali della Farnesina
Se prima era chiusura totale verso i colpi di mano di Haftar, ora i toni sono cambiati. Lo stesso Gentiloni ha lasciato capire nei giorni scorsi che bisognerà trovargli «un qualche ruolo». E da indiscrezioni sul documento che la Farnesina presenterà oggi a Vienna si evince che l’accento batte sulla «stabilizzazione», sulla priorità della lotta all’Isis coordinata dalla war room congiunta istituita a Tripoli, ma pure sulla necessità di una «riconciliazione» nazionale più ampia possibile, «inclusiva» di tutti tranne ovviamente gli islamisti.
Insomma il primo passo compiuto con il «comando unificato» per la lotta all’Isis, che ha dato riconoscimento all’Esercito nazionale libico (Lna) di Haftar, potrebbe proseguire. Anche perché, tra i Paesi confinanti, l’Egitto, grande sponsor di Haftar, pesa sempre di più e l’Italia ora punta a coinvolgerlo in una funzione costruttiva. Per ridurre la spaccatura fra Tripoli e l’Est del Paese, dove con la liberazione di Bengasi da Isis e Al-Qaeda da parte del generale si sta creando una Cirenaica di fatto indipendente.
Per questo America ed Europa, Italia in testa, hanno bisogno di successi contro l’Isis sul terreno, e presto, in modo da ridurre il peso di Haftar. L’offensiva delle milizie di Misurata, alleate di Al-Sarraj, sembra imminente. Ieri tutta la zona a Sud della città, a partire dal sobborgo di Nahr, è stata dichiarata «zona militare» e chiusa agli spostamenti dei civili. Misurata sta concentrando combattenti e «armi pesanti», soprattutto lanciarazzi per «l’operazione decisiva contro lo Stato islamico».
Misurata e Derna
L’operazione è stata battezzata «Solida costruzione» ed è in primo luogo la risposta all’attacco kamikaze dell’Isis ad Al-Sadad, giovedì scorso, e soprattutto la presa da parte degli jihadisti di Abu Grein, snodo di comunicazioni a sud est di Misurata. Il blitz islamista ha spinto il fronte a Ovest a soli 100 chilometri dalla città, mentre a Est l’Isis è sulla difensiva, ha sbarrato con barriere di sabbia le strade principali in vista dell’attacco delle truppe di Haftar. Il generale, in attesa di un qualche riconoscimento a Vienna, si prepara anche da eliminare Al-Qaeda da Derna, la città fra Tobruk e Bengasi da cinque anni in mano a gruppi islamisti ma ormai circondata.
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