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 2016  maggio 15 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LE BORSE, IN UN SEMESTRE, HANNO PERSO 90 MILIARDI DI DOLLARI LASTAMPA Borse, la più grande fuga dal 2011 Da inizio anno gli investitori hanno ritirato 90 miliardi di dollari dai fondi azionari Crescono i timori sulla frenata dell’Asia e l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa Francesco Spini Si è accesa una spia rossa sulle Borse mondiali

APPUNTI PER GAZZETTA - LE BORSE, IN UN SEMESTRE, HANNO PERSO 90 MILIARDI DI DOLLARI LASTAMPA Borse, la più grande fuga dal 2011 Da inizio anno gli investitori hanno ritirato 90 miliardi di dollari dai fondi azionari Crescono i timori sulla frenata dell’Asia e l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa Francesco Spini Si è accesa una spia rossa sulle Borse mondiali. I risparmiatori stanno scappando dalle azioni. La raccolta netta dei fondi globali specializzati non mente: da inizio anno - secondo i dati di Epfr rielaborati dal Financial Times - è stata negativa per quasi 90 miliardi di dollari (80 miliardi di euro), una tendenza che non si vedeva da 5 anni. Vuole dire che, a fronte di (relativamente) pochi sottoscrittori che mettono quattrini, prevale di gran lunga chi non vuole avere a che fare, in questa fase, con indici e titoli. Ma, di volta in volta, preferisce in parte obbligazioni - meglio se governative -, oppure come accade in Europa prodotti alternativi o che scommettono sul mattone. Torna alla ribalta anche l’oro, bene rifugio per eccellenza, la cui richiesta nel primo trimestre è salita del 21%, guidata proprio dal boom di sottoscrizioni di prodotti di investimento collegati al metallo giallo. Invece, se guardiamo alle Borse, venerdì una ricerca di Bank of America Merrill Lynch aveva un titolo piuttosto esplicito: «Esodo dalle azioni». E segnalava che nelle ultime 5 settimane l’emorragia di denaro da questi fondi è stata pari a 44 miliardi di dollari, ossia 39 miliardi di euro: un periodo del genere - sottolineano gli analisti - non si vedeva dall’agosto del 2011. Dalla tenuta della crescita in Europa e in Giappone, alla possibile uscita della Gran Bretagna dalla Ue, alle nuove elezioni spagnole, fino alle presidenziali Usa: le preoccupazioni non mancano. La spia, come si può notare, non solo è accesa ma ha preso a lampeggiare. E lo fa da ben 13 settimane, da quando l’uscita incontrollata di soldi dai fondi non sembra arrestare la propria corsa. L’allarme parte dagli Stati Uniti: da gennaio, secondo Lipper - divisione della Thomson Reuters specializzata nei fondi - sono volati via circa 60 miliardi di dollari (53 miliardi di euro) dai fondi che investono a Wall Street. Sull’economia Usa c’è un punto di domanda, che s’è fatto gigante quando, ultimamente, anche i conti dei colossi dell’hi-tech hanno deluso gli investitori, a cominciare da Apple. Se pure in Giappone si registra lo stesso film, con disinvestimenti netti nei fondi azionari che a fine aprile si piazzano a quota 12 miliardi di dollari (10 miliardi di euro), in Europa le cose non vanno meglio. Sempre secondo Lipper, nel primo trimestre i fondi azionari hanno subito riscatti netti per 18,27 miliardi di euro, il dato peggiore tra tutte le categorie di fondi. I soldi usciti da lì sono finiti nei portafogli alternativi (come hedge fund) dove sono affluiti 10,69 miliardi di euro, e in quelli dedicati al settore immobiliare, per cui la raccolta netta è positiva di 2,26 miliardi. Nel frattempo le banche d’affari sconsigliano le azioni. Nel consueto rapporto che Credit Suisse manda agli investitori, per esempio, si legge espressamente di un «passaggio a una propensione negativa sulle azioni globali», pur segnalando che quelle europee «potrebbero avere una performance migliore rispetto ai mercati globali». Intanto la grande fuga sta accelerando, in particolare in Europa, segnalano da Bank of America. Gli analisti citano proprio le banche italiane, insieme con quelle cinesi, tra i maggiori problemi dell’anno. Allo stesso modo è in progressione l’uscita dai fondi specializzati in tecnologia, dove da un mese l’emorragia non si arresta. Al contrario la tendenza che ultimamente si registra è una spinta sui fondi monetari: nell’incertezza molti tendono a restare liquidi. Si aspetta e si vede, anche se nel frattempo si guadagna assai poco. Qualcuno però ha subodorato turbolenza in arrivo sui listini di Borsa. E questa volta ha deciso di starsene alla larga. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI “I populismi fanno paura ai mercati e gli Stati sono troppo invadenti” Il Nobel Fama: in Europa e Usa aumentano le reazioni da destra a sinistra e troppe regole frenano l’economia Paolo Mastrolilli Il premio Nobel Eugene Fama si augura che la fuga dai fondi di investimento diventi un campanello d’allarme, per spingere ad affrontare finalmente i veri nodi che frenano la crescita: «Le regolamentazioni eccessive, cioè la presenza asfissiante dello Stato. Questo imbriglia oggi l’economia, e limita anche l’attività creditizia delle banche». Tra gli addetti ai lavori, il professore della University of Chicago di origini italiane è soprannominato «The Father of Modern Finance», il padre della finanza moderna. Logico quindi rivolgersi a lui per cercare spiegazioni. Secondo il Financial Times, nel corso del 2016 sono stati ritirati circa 90 miliardi di dollari dai «global equity funds», la fuga più grave dal 2011. Cosa sta succedendo? «Io penso che sia soprattutto un fenomeno tecnico. Gli investitori hanno finalmente capito che da questi fondi non ricavano ritorni abbastanza interessanti, e quindi stanno cercando soluzioni più profittevoli o sicure per i loro soldi. Il problema vero, che non sento discutere abbastanza a livello politico, è quello delle ragioni profonde di questa incertezza, che poi sono alla radice della crescita anemica in quasi tutto l’occidente». Quali sono queste ragioni? «La continua presenza eccessiva del governo nella gestione dell’economia, attraverso regole che la frenano, a danno di tutti». Alcuni analisti dicono che è colpa della paura per la Brexit, gli interessi negativi che non danno i risultati auspicati, le elezioni negli Usa e in Spagna, le migrazioni e la minaccia del terrorismo che mettono a rischio l’unità dell’Europa, la Grecia che vacilla ancora, il crollo del prezzo del petrolio, la frenata della Cina, lo spettro di una nuova recessione negli Stati Uniti, e così via. «Sì, tutto giusto. Però come lo spiegate, ad esempio, che nel mercato edilizio americano, all’origine della crisi del 2008, i capitali abbondano? Perché l’economia degli Stati Uniti, pur andando piano, continua a crescere più velocemente di quella europea? Io credo che tutte queste cause di preoccupazione siano giuste, ma contingenti. La fuga dai fondi forse nasce da questi timori, e potrebbe fermarsi quando alcuni di essi saranno placati. I problemi di fondo invece restano, e l’economia non ripartirà davvero fino a quando non li avremo risolti». Negli Stati Uniti è in corso la campagna presidenziale: la scelta del nuovo capo della Casa Bianca non dovrebbe essere il momento perfetto per affrontare questo dibattito e trovare le risposte? «Sì. Ma invece quello che vedo, in America come in Europa, è soprattutto una forte espansione dei populismi, a destra e a sinistra, ossia delle reazioni di pancia emotive e irrazionali». Il risentimento verso le banche, accusate di essere state la causa della crisi del 2008 con la loro irresponsabilità, non è giustificato? «Hanno fatto i loro errori, senza dubbio. Ma non è strozzando il credito a colpi di regole che si fa ripartire l’economia. E se l’economia non riparte, la gente normale ne risente almeno quanto le grandi banche». Gli interventi delle banche centrali, dal quantitative easing della Fed a quello della Bce, fino agli interessi negativi, non erano provvedimenti giusti e necessari? «Che hanno raggiunto i risultati che potevano, cioè pochi e insufficienti, perché non sono loro ad avere la leva per avviare una crescita forte, durevole e sostenibile». Gli investitori hanno ritirato 90 miliardi di dollari dagli equity funds per questa ragione? «Gli investitori hanno ritirato i loro soldi perché pensano di fare più profitti altrove. Nel settore dei fondi si vince a scapito di qualcuno che perde, e quei capitali non sono stati bruciati, sono andati da qualche altra parte. È un fenomeno importante, ma non è la questione fondamentale a cui dovremmo prestare attenzione». Cosa dovremmo fare? «La questione fondamentale, che frena l’economia e genera tutta questa incertezza, è la presenza eccessiva dello stato, con le sue regole che paralizzano tutto. Ma invece sentiamo i populisti che parlano del contrario, della necessità di aumentare l’ingerenza, per proteggere i cittadini dagli abusi. Così però i cittadini non avranno più un’economia forte, grazie a cui prosperare». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI E a Londra la finale dell’Eurovision diventa una campagna anti-Brexit Giulia Zonca Il cocktail si chiama «Eurotastic» e ha bandierine colorate Anni Ottanta che mescolano i confini, sul poster c’è scritto «Eurovision party» con tanto di ponte tra la Svezia e Londra: se non fosse una festa sarebbe una campagna elettorale, un movimento di under 45 che balla sopra Brexit. In realtà è la notte dell’Eurofestival: anima Londra e dà un’idea chiara e rumorosa di come si schiera la City davanti al referendum del 23 giugno. Politica in musica Locali a tema, gente in strada, vestiti folli, code fuori da Shaftesbury Avenue dove l’acconciatura più stravagante vince l’ingresso scontato e ore piccole al The Water Poet di Spitafield, per mescolare i piatti di Stoccolma e la birra british. Nove maxi schermi, menù multiculturali. È tutto kitsch, eccessivo e gli orfani dell’ex sindaco Boris Jonhson obiettano: «Non è politica, è baldoria». Ma l’Eurofestival è politica dell’Unione per definizione, tra le meglio riuscite visto che attira un pubblico mediamente giovane, eterogeneo, multietnico. È uno spettacolo trasgressivo dove può vincere una donna con la barba e pure un contesto super popolare con slogan classici. Quello di quest’anno recita «Come Together». E in piena emergenza immigrati è politica pura. La City antiseparatista L’isolamento spaventa Londra e la paura è trasversale. Prende i finanzieri incravattati che agitano numeri da catastrofe per frenare le spinte separatiste e gli hipster promotori della vita su due ruote che sponsorizzano ciclabili nelle adunate di massa: «Go Dutch, prendiamo il bello dell’Europa». La Goldman Sachs ha pagato 500 mila dollari in propaganda antibrexit, le banche avvertono gli investitori che dire ciao al continente spalancherebbe la porta a una recessione già opprimente. Il fronte indipendentista, che trova ottimi argomenti nel resto del Regno Unito, fatica a convincere la capitale: qui il sabato sera risponde solo al richiamo dei pub. E ieri dicevano tutti Europa, una coloratissima e disinibita Europa. Il Thirst Bar di Soho ha appeso lo striscione «No matter where you’re from, if you like kitsch Euro beats», cioè non importa da dove vieni se ti piace quell’Europa con il rossetto slabbrato, il pizzo strappato, in disordine, ma viva e capace di osare. Alla Hackney Picturehouse c’è il deejay che mixa la diretta da Stoccolma e fa partire il gingle «Euro a go go». La parodia a Camden A Camden va in scena la parodia in tempo reale del festivalone continentale, scelta che stronca ogni euroscettico: non si fa dell’ironia su quel che non si conosce. E i londoners hanno passato la notte dietro alla colonna sonora dell’Europa con tanto di canzone schierata. Joe & Jake, un inglese e uno scozzese, promuovono il ritornello: «You’re not alone, we’re in this together», tacito endorsement pro Unione. Dare all’Eurofestival l’etichetta di party per strambi è facile, non vedere che tra l’alcol e il trucco circola molta spirito europeo è impossibile. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI I gestori: “Bene diversificare ma ora è meglio non vendere” Gruppi farmaceutici e alimentari per giocare in difesa Sandra Riccio I mercati, si sa, non amano le incertezze e le incognite che si stanno avvicinando all’orizzonte non sono poche. Dal rischio Brexit, ai numeri sulla crescita mondiale e in particolare i timori su quella cinese, fino alle sofferenze del settore bancario in Europa, le ragioni per ritirarsi in coperta non mancano. A giudicare dai dati che Assogestioni, diffonde con cadenza periodica, l’azionario da noi però continua a viaggiare a vele spiegate. Nel nostro Paese, soltanto nel mese di marzo, su questo comparto, sono affluiti 747 milioni di euro di nuovi investimenti. Una cifra che porta a complessivi 1,7 miliardi gli afflussi registrati nel primo trimestre solo sull’azionario. Va detto che i primi tre mesi si sono chiusi in maniera positiva per i fondi azionari nonostante l’andamento dei mercati sia stato fortemente penalizzante, soprattutto a gennaio con crolli anche pesanti su tutti i listini. Piazza Affari è arretrata come tutte le altre Borse. Tra emotività e realizzi Ora il dato sui deflussi massicci a livello mondiale fotograferebbero una fuga generale dalle azioni, per di più in un contesto in cui l’azionario è uno dei pochi asset che offre ancora rendimenti apprezzabili e quindi dovrebbe essere l’unico in cui restare. «Niente allarme, quello raccontato dai numeri è un andamento fisiologico - spiega Gianluca Verzelli, vice-direttore centrale di Banca Akros -. Negli ultimi tre anni le Borse sono salite molto e, con le correzioni dei primi mesi dell’anno, gli investitori con le coronarie più sensibili hanno preferito uscire da questo mercato e diversificare i propri portafogli anche su altri comparti». La corsa dell’azionario è stata anche una delle conseguenze del bassissimo tasso che ormai offrono strumenti come i titoli di Stato e le obbligazioni societarie con rating più alto. Ora c’è un nuovo spostamento ma per l’esperto si tratta di dinamiche strutturali dei mercati. Fatte da chi, guidato dall’emotività, vende e lo fa quando ormai i cali sono ampi o da chi invece preferisce portare a casa i guadagni totalizzati fino a quel momento. Quando vendere azioni Quello sulle azioni è un investimento che deve essere pensato sul medio termine, vale a dire in un’ottica di tre o cinque anni, almeno. E’ la logica dei fondi comuni d’investimento che lavorano su questi tempi. Per gli esperti, il massiccio deflusso a livello mondiale dai fondi azionari non rappresenta, in ogni caso, un segnale di vendita. Se poi un risparmiatore è correttamente investito e quindi ha un portafoglio ben diversificato e distribuito, con alle spalle anni di soddisfazioni, motivi di fuggire così dalle azioni non pare ce ne siano. I titoli che proteggono In genere, in fasi di difficoltà economica e di maggior volatilità in Borsa, ossia di rialzi e ribassi anche violenti, è meglio posizionarsi su società difensive e anticicliche come le utilities, le aziende farmaceutiche o quelle alimentari che garantiscono più facilmente dei ritorni. Anche la strategia di scegliere titoli con alti dividendi può aiutare a proteggere i propri risparmi. Dove guardare Tra gli analisti prevale ancora la preferenza per l’Europa e per gli Stati Uniti. Sono queste le due macro aree che promettono le maggiori opportunità. Anche in vista di una possibile ripresa dell’economia globale. Anche i Paesi emergenti ritornano nel mirino degli operatori, in particolare quelli che hanno saputo resistere meglio alla crisi del petrolio e delle materie prime, come l’India e la Russia. Su questi temi però è meglio posizionare soltanto una piccola parte del proprio portafoglio. Le obbligazioni «Chi esce dall’azionario si muove sul reddito fisso, sui bond aziendali e su quelli governativi - dice Vincenzo Longo, strategist di Ig -. Nell’ultima settimana, in particolare, si è vista questa corsa con la forte domanda che c’è stata per i titoli di Stato della Spagna e degli Usa». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI pag. 1 di 3 DANILO TAINO SUL CDS V a bene: abbiano stabilito che robot e intelligenza artificiale possono battere i campioni del mondo, umani, di scacchi e di go. Un turbamento forse maggiore, però, lo stanno provocando nel mercato del lavoro, anch’esso umano. Ci sono due grafici tratti dalle statistiche del Department of Labor degli Stati Uniti che creano un dubbio e la conseguente discussione fondamentali per cercare di capire il nostro futuro. Il primo mette a confronto la produttività e la media dei salari manifatturieri e crea un indice stabilito per entrambe uguale a cento nel 1970 . Si nota che dalla fine della seconda guerra mondiale la produttività e i salari crescono perfettamente in parallelo, da 50 a 110 nel 1973 . Poi, iniziano a divergere drasticamente. La produttività nei maggiori settori dell’economia supera 210 nel 2010 . Dal 1973 in poi, invece, i salari dei produttori di beni rimangono praticamente costanti e nel 2010 l’indice li pone a 105 . Il secondo grafico riguarda il tasso di partecipazione alla forza lavoro manifatturiera. Nel 1948 era del 58,6% ed era allo stesso livello alla fine del 1964 . Poi ha iniziato a salire, fino a un massimo del 67,3% nell’aprile 2000 . Da allora è calata fino al 62,9% dello scorso febbraio. Succede cioè che la produzione di beni americana è al massimo storico di circa 2.100 miliardi di dollari (dato 2014 ). L’occupazione, sempre tra i produttori di beni, è invece crollata, soprattutto dal 2000 ma già dagli anni Ottanta: siamo attorno ai 12,5 milioni di lavoratori contro gli oltre 19 milioni di fine anni Settanta, un numero inferiore ai 13 milioni del 1948 quando la produzione era di soli 400 miliardi di dollari. Da oltre 30 anni, alla crescita della ricchezza prodotta corrisponde cioè una caduta degli occupati. Le due statistiche sollevano il dubbio che oggi le innovazioni distruggano, come è sempre successo, i vecchi lavori ma che, a differenza che nelle rivoluzioni tecnologiche del passato, non li sostituiscano più, o comunque molto meno, con la creazione di nuovi. Potremmo essere arrivati a una cosiddetta fase di transizione, come quella dell’acqua che, riscaldata, aumenta la temperatura (crea lavoro) fino a cento gradi ma poi si trasforma in vapore (e i posti volano via) — ha notato di recente Moshe Vardi, un docente di Scienza dei computer. Non è detto che sia così. Ma questo è uno dei grandi interrogativi del futuro. Per gli umani. @danilotaino REPUBBLICA.IT JOHNSON DICE CHE L’EUROPA UNITA È COME IL NAZISMO LONDRA - Si riaccende la polemica sulla Brexit, ossia l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, e stavolta a infiammare gli animi sono le affermazioni shock dell’ex sindaco di Londra Boris Johnson, uno dei sostenitore della Brexit, che ha paragonato l’Unione Europa al dittatore nazista Adolf Hitler. Intervistato dal Sunday Telegraph, Johnson ha affermato che l’Unione Europea persegue un obiettivo simile a quello di Hitler nella creazione di un sovrastato europeo. Lanciandosi in una interpretazione storica un po’ semplicistica, il politico conservatore ha sostenuto che gli ultimi duemila anni di storia europea sono stati segnati da tentativi di unificare l’Europa sotto un singolo governo per far rivivere "l’età dorata dell’impero romano". "Napoleone, Hitler, varie persone ci hanno provato, ed è finita tragicamente", ha proseguito, sostenendo "che l’Ue è un tentativo di fare lo stesso con metodi diversi". "L’eterno problema, è che manca una sottostante lealtà all’idea di Europa. Non esiste una singola autorità che tutti rispettino o capiscano. Questo crea un grande vuoto democratico", ha affermato Johnson, che ha invocato lo spirito di Winston Churchill, invitando i britannici ad essere di nuovo "gli eroi dell’Europa" votando per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue al referendum del 23 giugno. I "disastrosi fallimenti" dell’Ue, ha detto ancora l’ex sindaco, hanno provocato tensioni fra gli Stati membri permettendo alla Germania di "rilevare" l’economia italiana e "distruggere" la Grecia. Immediate le reazioni da parte della campagna "Gran Bretagna più forte in Europa". Johnson "fa un gioco veramente sporco", ha commentato l’ex ministro laburista Yvette Cooper, secondo il quale l’ex sindaco "non dovrebbe fare giochetti con il periodo più buio e sinistro della storia europea". Più Johnson "usa questo tipo di affermazioni isteriche - ha aggiunto - più dimostra la sua mancanza di giudizio". Le parole di Johnson hanno trovato subito terreno fertile tra gli estremisti come Nigel Farage, leader del partito antieuropeista britannico Ukip, che si dice pronto a sostenere l’ex sindaco di Londra a diventare primo ministro britannico se al referendum del 23 giugno vincerà la Brexit. Intervistato dal Daily Mail, Farage ha paragonato Johnson all’ex presidente americano Ronald Reagan e non ha escluso di poter collaborare con il suo governo. "Amo Boris, lo rispetto, lo ammiro. Sono un fan di Boris. Potrei lavorare per lui? Certo. Posso immaginare uno scenario in cui diventi primo ministro e mi chieda qualcosa? Non lo escluderei", ha affermato Farage, definendo l’attuale primo ministro David Cameron "un fanatico pro-Bruxelles". Capofila degli euroscettici del partito conservatore, Johnson non nasconde la sua ambizione di diventare primo ministro al posto di Cameron se al referendum vinceranno i favorevoli all’uscita dall’Unione Europea. TITOLI DI STATO SPAGNOLI La Spagna ha collocato titoli di stato con scadenze a 6 e 12 mesi per un ammontare di 4,41 miliardi di euro, poco oltre la metà della forchetta prevista inizialmente (3,5-4,5 miliardi). Nel dettaglio, il governo iberico ha collocato titoli con scadenza a sei mesi per un ammontare complessivo di 400 ... Leggi tutto: http://www.soldionline.it/notizie/mercati-esteri/bond-spagna-sempre-negativi-i-rendimenti-dei-titoli-a-sei-e-dodici-mesi?cp=1