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 2016  maggio 13 Venerdì calendario

IL MIO SUCCESSO GALEOTTO– [Sam Millar] BELFAST. La sua vita sembra un romanzo. Era inevitabile che prima o poi lo scrivesse

IL MIO SUCCESSO GALEOTTO– [Sam Millar] BELFAST. La sua vita sembra un romanzo. Era inevitabile che prima o poi lo scrivesse. Madre suicida, scuole interrotte, apprendista in un mattatoio, militante nell’Ira al tempo di Bobby Sands, undici anni di carcere britannico per atti di guerriglia, emigrazione clandestina in America sotto falso nome, rapina da milioni di dollari al camion blindato di una banca, tre anni di prigione negli Usa, la grazia inaspettatamente concessa da Bill Clinton al termine della presidenza, il ritorno in Irlanda: dove a quel punto Sam Millar pubblica le sue memorie, che diventano un bestseller in patria, in Europa e negli Stati Uniti, Hollywood ne compra i diritti, forse diventeranno presto un film interpretato da una star del cinema americano. Quando te lo trovi davanti, sulla porta della sua modesta casetta nel quartiere cattolico di Belfast, capisci la differenza fra chi scrive di vita vissuta e chi esce dai corsi di scrittura creativa. Basso, tozzo, muscoloso, Millar ha la faccia di uno che ne ha passate di tutti i colori ed è sopravvissuto. Ora, a 60 anni d’età, gli si prospetta davanti una nuova esistenza, la terza, forse la più imprevista per uno nato in mezzo ai Troubles, i problemi, i guai, come era soprannominato il trentennale e sanguinoso conflitto tra cattolici e protestanti, ovvero tra repubblicani indipendentisti e monarchici unionisti, in Irlanda del nord: la parte dello scrittore. On the brinks, il suo romanzo autobiografico, esce in Italia dopo essere stato in testa alla classifiche in Francia e Germania; la sceneggiatura è pronta per il film che ne dovrebbe essere tratto, prodotto dalla Warner, interpretato da Jeremy Renner, l’attore di The Bourne Legacy, un’altra decina di romanzi, noir ispirati ai suoi ricordi, sono apparsi con successo sull’Isola di Smeraldo e in un’altra mezza dozzina di paesi. Seduto al tavolo della cucina, questo Papillon irlandese si passa la mano nei capelli e sospira: «La vita ha più fantasia di noi. E certamente la mia ne ha abbastanza per scrivere ancora tanti libri». Cominciamo dalla fine: cosa è successo quando è rientrato in Irlanda, dopo la rapina, la condanna, il carcere e il perdono in America? «Avevo 48 anni, neanche un penny in tasca, niente lavoro né la possibilità di trovarne facilmente uno perché la mia fedina penale era sporca anche qui. Passavo le giornate a leggere alla biblioteca pubblica di Belfast. Un giorno leggo sul Belfast Telegraph, il quotidiano locale, un concorso per un racconto. Premio: mille sterline! Non potevo crederci». E lo ha vinto? «Si, ma prima ho fatto un corso di dattilografo perché non sapevo nemmeno scrivere su un computer. Lo spedisco, non ci penso più, tre mesi dopo una telefonata mi comunica che sono io il vincitore». Fu allora che decise di scrivere le sue memorie? «Quelle le avevo scritte in America, in carcere, per mantenere la sanità mentale. Ma non mi ero mai immaginato di pubblicarle. Dopo aver vinto il concorso con il racconto, ho cambiato idea. Ho fatto un po’ di tentativi e ho trovato un editore. Il libro è uscito, è andato bene e ho pensato che fosse un modo per guadagnare qualche soldo. Dall’America ero tornato con moglie e tre figli, dovevo dare una mano a mantenerli». Non aveva mai pensato di diventare uno scrittore? «Ci avevo pensato sì. Mi è sempre piaciuto leggere, ma da ragazzo ho studiato poco, non avevo gli strumenti, non sapevo nemmeno cosa fosse un libro. Però mi passavano per le mani i giornalini a fumetti. Ero innamorato di quelli sui super eroi. Sognavo di scrivere testi per fumetti come Stan Lee, il mio mito, l’inventore dell’Uomo Ragno e dei Fantastici Quattro. Adesso leggo di tutto, leggo voracemente». Chi sono i suoi modelli, i suoi scrittori preferiti? «Cormac McCarthy, adoro Non è un paese per vecchi. E Chandler, un po’ datato, ma scrive come un dio». L’amore per i fumetti però non è finito. «No di certo. Quando sono arrivato a New York, a Jackson Heights, nel Queens, sotto falso nome, utilizzando il passaporto di un americano morto, procuratomi da un prete cattolico in Canada, aprii proprio un negozio di fumetti. E ancora adesso li colleziono, sono la mia passione». Ha nostalgia dei tempi in cui era un combattente dell’Ira, l’Irish Republican Army, l’esercito clandestino indipendentista nord irlandese? «Per nulla. Ero giovane, volevo avere la ragazza, divertirmi, come tutti quelli della mia età. Ma la mia era una famiglia di militanti repubblicani, ci si aspettava che lavorassi per l’Ira e così feci. Significava essere pronti a uccidere e vivere con la costante paura di essere uccisi. Nulla di cui essere nostalgici». Crede che un giorno l’Irlanda tornerà a essere unita? «Non credo che lo vedrò io ma lo vedranno i miei figli. Un tempo pensavo che, così come il colonialismo ci era stato imposto dalla Gran Bretagna con la forza, avremmo ottenuto la liberazione con la forza, come del resto ha fatto il resto di quest’isola, la repubblica irlandese sorta dalla rivolta del 1916 contro Londra. Ora sono meno romantico, più realista, penso che ci arriveremo pacificamente, con un referendum. Dal Regno Unito se ne andrà per prima la Scozia e poi sarà il turno dell’Irlanda del Nord. Ma ci vorrà tempo». È vero che i soldi della rapina al furgone blindato a New York non sono mai stati trovati? Dove sono finiti? «Quelli che avevo io me li hanno trovati addosso, sono stati la prova per arrestarmi. Il resto, chi lo sa? Auguri a chi ce li ha e se li gode!». Era peggio il carcere sotto i britannici o il carcere in America? «Quello britannico: gli inglesi ci maltrattavano e ci torturavano quotidianamente. Ma nel carcere britannico avevo la solidarietà dei miei compagni. In America ero solo. Fortunatamente in quella prigione c’erano dei gangster di origine irlandese, sapevano che ero un ex dell’Ira e mi presero sotto la loro protezione». Ha visto Gangs of New York, il film di Scorsese? Racconta come è nato il crimine irlandese in America. «Sì, ma narra un passato lontano e a me ignoto. Mi è piaciuto di più The departed, sempre di Scorsese: i gangster irlandesi che descrive, come quello impersonato da Jack Nicholson, li ho conosciuti anch’io». Da buon irlandese, nonostante una vita di violenza e crimine, lei è cattolico praticante? «La religione cattolica, com’è noto, consente di pentirsi dei propri peccati e chiedere perdono. In ogni modo io sono praticante alla mia maniera. Vado a messa tutte le domeniche, ma prego Dio, non la Chiesa cattolica, che non ha mai veramente aiutato la causa dell’indipendenza irlandese e per questo non mi è mai piaciuta troppo». Sono autobiografici anche i suoi romanzi noir su un detective privato nella Belfast di oggi? «L’ispirazione viene da cose che ho fatto, visto o sentito. Parlo di una vita che, se non ho vissuto direttamente, perlomeno conosco bene. Penso che piacciano per questo, perché suonano autentici». E ci sta bene nella Belfast di oggi? «Sono contento che i miei figli abbiano studiato e trovato un buon lavoro. Se potessi scegliere il posto in cui vivere, tuttavia, tornerei a New York, al mio quartiere di Jackson Heights nel Queens, dove mi bastava mettere il naso fuori dalla porta per sentirmi eccitato dagli odori, dai rumori, dalla varietà di lingue, personaggi, storie». Può sempre tornarci. «No che non posso. Quando Bill Clinton mi ha fatto la grazia, è stata accompagnata dal decreto di espulsione a vita. Non potrò mai più tornare a New York. È un prezzo che sono stato pronto a pagare, pur di uscire di galera e tornare libero. Non mi lamento certo di come sono andato a finire. Ma la notte sogno ancora a occhi aperti la mia New York. E vuol sapere una cosa? Ancora oggi, quando penso ai taxi gialli che sfrecciano nel traffico di Manhattan, quasi quasi mi commuovo». Enrico Franceschini