Marco Ciccala, il venerdì 13/5/2016, 13 maggio 2016
SE QUESTO È UN SINDACO
CADICE. Rossa, gialla e viola: sull’antico palazzo comunale sventola la bandiera della repubblica spagnola che fu proclamata giusto ottant’anni fa e presto accoppata dalla guerra civile. A piazzare il vessillo sull’ayuntamiento di Cadice non è stato un facinoroso qualsiasi, ma il sindaco in persona. Un tribunale gli ha subito ricordato che non si fa. Primo, perché, piaccia o no, la Spagna è ancora una monarchia. Secondo, perché non è che sui pennoni degli edifici pubblici puoi metterci quello che ti pare e piace. Risultato: la bandiera è stata ritirata. Ma intanto lo spettacolino – andato in scena identico anche in qualche altra città ribelle aveva prodotto il suo bravo effetto mediatico.
José María González Santos – che governa Cadice da un anno con una lista emanazione di Podemos – non è nuovo a simili birichinate. Tanto per dirne una: appena si è insediato ha fatto togliere dal suo ufficio il ritratto del re per sostituirlo con quello di Fermin Salvochea, apostolo dell’anarchia vissuto tra Otto e Novecento, quasi sempre in carcere.
Occhiali da nerd, basettoni ricciuti alla Valentino Rossi, orecchini su entrambi i lobi, González ha 41 anni e una laurea in storia. L’ha insegnata un po’ nei licei. È nato a Rotterdam, dove i genitori erano emigrati. Suo padre faceva il saldatore nei cantieri navali. Anche José racconta di essersi temprato sui moli del porto di Cadice, come scaricatore. Però tra i vecchi camalli locali nessuno si ricorda della sua faccia. Fin qui siamo alle note di colore. Ma in questa storia di colore ce n’è parecchio. E condito da musica, balli, sberleffi, travolgenti cortei di gente in maschera.
Sarà che a una certa età l’udito tende a tradirti, ma quando mi viene detto che l’attuale sindaco di Cadice «si è formato politicamente nel carnevale» prego il mio interlocutore di ripetere. Lui, che si chiama Fernando Santiago ed è un navigato analista della vita cittadina, conferma: «Sì, ha capito bene. Ma guardi che qui il carnevale non è uno scherzo». In effetti è tra più sentiti di Spagna. Ogni anno mobilita passioni, inventiva, interessi politici, quattrini. González – che sgorga dall’ambiente associativo, inizialmente cattolico – si è fatto un nome come indomito attivista carnascialesco in gruppi pop e affini. Pare canti da dio. Al gusto del travestimento non ha voluto rinunciare nemmeno adesso che è salito sul cadreghino. Lo scorso febbraio si è presentato a una festa mascherato da re, mentre tra gli assessori al seguito spiccavano un papa, una guerriera mongola e alcuni pagliacci.
Del carnevale – mi spiegano – González ha assorbito quello spirito irriverente che adesso cerca di trasportare in politica. Bene. Ma a parte travestirsi o cambiare bandiere e ritratti negli uffici, in un anno di amministrazione che ha fatto? Alla domanda quasi tutti gli intervistati sospirano evasivi. «Diamogli tempo» dicono i più benevoli. Certo, Kichi – il nomignolo con cui tutti chiamano il sindaco e che sta all’incirca per piccolino, trottolino – si è anche autoridotto lo stipendio a 1.800 euro e l’ha tagliato a tutti i dipendenti comunali. Ha rinunciato a guardie del corpo e auto blu. È intervenuto contro gli sfratti e per le mense scolastiche. Ha bloccato progetti di parking e di hotel giudicati invasivi. Ma si è fatto notare soprattutto per i gesti simbolici: «Ha rifiutato di visitare la nave scuola cilena perché sotto Pinochet era stata centro di torture. Ha pure bisticciato con il console tedesco che l’aveva sentito definire nazista Angela Merkel. Poi si sono chiariti» sogghigna Fernando Santiago, che è stato per dodici anni consigliere comunale di Izquierda Unida, ma nel suo blog definisce Kichi «compendio di tutte le disgrazie». A me lo descrive come un «tipo frivolo. Tante parole, ma fatti di rilievo finora zero».
E pensare che, sponsorizzando González in campagna elettorale, il grande timoniere Pablo Iglesias aveva detto che proprio da Cadice sarebbe partita la «rivoluzione» di Podemos. Benché provenga dal – tardissimo – trozkismo e dal pugnace sindacato scolastico Ustea, Kichi sembra andare all’appuntamento con la storia con tutta calma, indolenza molto andalusa. Ma fatta la tara degli elementi pittoreschi, fino a che punto il suo stile rispecchia quello di Podemos su scala generale?
Dalla primavera 2015 il partito di Iglesias governa, con alleanze assortite, in sette città spagnole: Madrid, Barcellona, Valencia, Saragozza, La Coruña, Santiago e, appunto, Cadice. Ragguardevole bottino territoriale. «È difficile tracciare un bilancio complessivo di questo primo anno alla prova del potere. Perché a seconda delle coalizioni locali dentro cui si muove, l’azione di Podemos assume sfumature variabili» premette Pablo Simón, analista del sito politikon.es. «Direi comunque che nella gestione finanziaria si stanno comportando bene. Per il resto, puntano più che altro su una politica di atti simbolico-culturali». Tipo la rimozione degli ultimi simboli franchisti – nomi di strade o monumenti – che sta appassionando molti tra i sindaci podemisti. O podemiti (in Spagna il dibattito terminologico è ancora aperto). «È un modo per mantenere il loro elettorato in stato di mobilitazione permanente». Resta da vedere se pagherà il prossimo 26 giugno, quando gli spagnoli torneranno alle urne per le politiche. Quelle di dicembre non hanno permesso di formare un governo. Ma stando ai sondaggi il nuovo scrutinio rischia di essere una fotocopia del precedente. Con Podemos ancora terza forza dietro il centrodestra dei Popolari e socialisti. Però le incognite non finiscono qui.
A marzo, in pieno valzer negoziale per imbastire uno straccio di esecutivo, all’interno di Podemos sono volati gli stracci. Siluramenti, dimissioni, base in subbuglio, duelli al vertice. Tra chi e chi? Anche se la crisi è stata subito silenziata, nello scontro riaffioravano le due anime podemiste: quella incarnata da Iglesias, che si batte per un partito verticale, gerarchizzato, oligarchico; e quella rappresentata dal braccio destro Íñigo Errejón che, affezionato al movimentismo delle origini, vorrebbe un’organizzazione più orizzontal-assembleare. Per ora ha prevalso Iglesias: «Ma la frattura è solo stata messa nel congelatore. Ci rimarrà fino alle elezioni» assicura Simón.
Nei sogni di conquista di Podemos c’è il sorpasso sui socialisti. Che però a Cadice hanno permesso di governare alla lista di Iglesias, arrivata seconda. L’operazione ha interrotto un regno dei Popolari durato vent’anni e che ha lasciato in eredità alla nuova giunta un debito da 250 milioni di euro. Ma ci sono anche altri problemi.
Strana città mediterranea sgranata sull’Atlantico e dalla non abbastanza reclamizzata bellezza, Cadice detiene – con provincia – il record nazionale di disoccupazione. Secondo cifre per niente irrealistiche, un 40 per cento della popolazione attiva sarebbe a spasso. Di che si campa? «Turismo. Pubblico impiego. Sussidi. Tutto il resto è chapu». Che sta per chapuza, lavoretti in nero. Un sommerso stimato sei miliardi di euro. È la vita sub specie postindustriale. Nell’Andalusia tutta agricola, Cadice era praticamente l’unico distretto operaio. Oggi, grazie ad Airbus, le fabbriche aeronautiche tengono duro. Ma quelle automobilistiche (Ford) hanno sloggiato da un pezzo e l’astillero, la cantieristica navale che fu orgoglio cittadino, boccheggia. In tempi fulgidi dava lavoro a 10 mila di persone. Ora – tra eterne promesse di rilancio – siamo nell’ordine delle centinaia: «Si ripara, si assembla, ma si costruisce sempre meno» dice Rafael Lara, storico attivista dell’associazionismo gaditano (il gentilizio di Cadice). Ha votato Podemos però adesso si fa qualche domanda: «Kichi è dei nostri, ma non si capisce ancora da che parte voglia andare. Contro gli sfratti ha fatto qualcosa, ma passi troppo timidi: qui sono seimila le famiglie che chiedono una casa».
Una trentina hanno occupato un condominio nel popolare barrio di Bahía. La palazzina appartiene al Banco di Santander, con cui è in corso una vertenza. Ci vado guidato da Raúl, uruguaiano, meccanico riconvertitosi alla vendita di pesce su furgoncino. Per entrare lottiamo un po’. Da sola la chiave del portone non basta: tocca aiutarla a spallate. L’ascensore è fermo da sempre. Saliamo a piedi tra muri butterati ma corridoi puliti: «Ce ne occupiamo a turno». Raúl vive da single in due stanze più cucina. Di là un divano afflitto; di qua un letto in ordine, qualche camicia ad asciugare sulle grucce. L’elettricità è arrivata da poco, però di straforo. L’acqua ancora no. In fatto d’arrangiarsi, Cadice è stata spesso paragonata all’Avana. Visto dal barrio di Bahía, non è un cliché.
Ma niente paura: Kichi ha preso nota di tutto. Prima delle elezioni percorreva la città con un taccuino, appuntando qualsiasi doléance di quanti lo fermavano per strada. Adesso in giro si fa vedere meno, notano i maligni. Gli stessi ti ricordano quanta parte abbia avuto nell’ascesa di González la moglie Teresa Rodríguez, pasionaria di Podemos molto in vista e deputata nel parlamento andaluso. «I Clinton di Cadice» li sfottono.
«Alla cerimonia di insediamento come sindaco Kichi si è presentato con la camicia fuori dai calzoni. Però per celebrare i matrimoni si mette la cravatta. È già qualcosa» racconta il giornalista-blogger Fernando Santiago. È un tipo sarcastico, disincantato come la sua città. Piccola, ma antiprovinciale, conservatrice-illuminata con vampe libertarie. I gaditani vanno ancora fierissimi della Pepa, come viene affettuosamente chiamata la prima, effimera, Costituzione liberale spagnola, che fu promulgata qui due secoli fa (1812).
«Cadice elegante e cosmopolita» scrive Santiago, «abulica e indolente, scettica e sdegnosa». Alcuni di questi lineamenti li ritrovo chiacchierando a caso in un baretto di Loreto, altro quartiere operaio con robusta storia rivendicativa alle spalle. Spalle che Emilio, edile sulla quarantina, scrolla fatalista: «Kichi? Che vuoi che ti dica... Basta che non rubi e faccia tre o quattro cose. Anche due basterebbero». Nell’attesa, Cadice continua a spopolarsi. In pochi decenni ha perso quasi 35 mila abitanti. Tra chi rimane ci sono anche i tizi che vedi ciondolare con birretta in pugno intorno ai casermoni popolari. Scioperati dei quali è difficile dire se siano una nuova categoria sociologica scaturita dalla crisi o l’ultima reincarnazione del picaro primigenio.
In centro si respira un’aria diversa. Sotto il cielo di un esaltante azzurro africano, le taverne brulicano di francesi o tedeschi che ormai da tempo hanno messo la Spagna al posto dell’Italia in cima alla classifica delle destinazioni sud-europee. Frutti di mare e cicchetti di sherry: l’enogastronomia carbura benone. Anche tra i vicoli della Viña, l’ex quartiere di pescatori dove González abita da affittuario in 40 metri quadri. Però dicono che, tampinato dalle continue richieste del vicinato, starebbe meditando di trasferirsi altrove. Con la stampa ha rapporti spigolosi. Eppure il suo marketing politico tutto strappi e strappetti micro-sovversivi non potrebbe privarsene. Mesi fa è diventato virale il video che in consiglio comunale lo mostrava furente in un duro j’accuse anticastale: «Vi ho visto allo spettacolo di Peppa Pig: voi belli comodi sulle poltrone riservate in platea, io e i miei figli in piccionaia!» ringhiava contro i rappresentanti Popolari e Socialisti.
Dagli slanci liberali della Pepa a Peppa Pig sembrano passati molto più di due secoli.
Marco Cicala