Michael Stührenberg, Sette 13/5/2016, 13 maggio 2016
L’ARCHEOLOGIA IN NERO AL TEMPO DEL GENERALE AL SISI
Il limite del sopportabile? Senz’altro non lontano da qui e ora, in fondo a un macabro tunnel sotterraneo a Tebe, l’antica città dei morti nell’Egitto dei Faraoni. Alla debole luce di qualche torcia, avanziamo in sei con fatica, accovacciati e in fila indiana. Alla testa del gruppo ci sono tre tombaroli, membri di una stessa famiglia di un villaggio del posto. Poi ci siamo noi, un tris di “imbroglioni” venuti dall’Europa con un pretesto. Cerchiamo di trattenere il fiato, tanto è l’odore rancido dello sterco di pipistrello che attanaglia la gola. I tombaroli – che chiameremo Ali, Ahmed e Abdoul – sembrano divenuti ormai insensibili a questa puzza connaturata nel loro mestiere.
Smettere di pensare. Non farsi ossessionare dall’esiguità dello spazio, dal soffitto bassissimo, dalle pareti da cui scendono rivoli di sabbia e sassi. «Attenti alle mani», avvisa qualcuno. Durante la marcia dobbiamo appoggiarle su cocci di ceramica, ossa appuntite, frammenti di cranio. Tutti questi resti hanno un aspetto così pietoso e derisorio. E dire che ci troviamo a meno di un chilometro dalla Valle dei Re, a solo qualche tratto di tunnel di distanza dalle tombe più straordinarie del Nuovo Regno: Ramsete XI, Thutmose I, Tutankhamon. Finalmente, raggiungiamo la tomba – una delle camere funerarie che fanno parte della stessa “rete”, come la chiama Ali. È per questo che dall’esterno non si scorge nulla delle loro attività criminali. Quando hanno terminato di saccheggiare una stanza, la utilizzano come discarica per le macerie del cantiere successivo. In questo modo non vengono lasciate tracce visibili in superficie. I primi scavi, che hanno gettato le basi della rete, risalgono a molto tempo addietro, a un’epoca in cui la caccia ai tesori faraonici non era ancora considerata un crimine, ma addirittura uno sport per gentiluomini.
I tre tombaroli si dispongono a semicerchio e iniziano il proprio lavoro. Seduti a gambe incrociate, o allungati saldamente sul pietrame, scavano nelle macerie a mani nude. Presto la caverna si riempie di una densa nebbia di polvere. «Respirate attraverso la kefiah», consiglia Ali, il capobanda. Anche lui si è protetto il volto con un triplo strato del suo turbante blu. Rimangono visibili solo gli occhi: una mummia vivente, si potrebbe dire. Ma questa polvere è così fine che penetra nonostante tutte le precauzioni, provocando violenti accessi di tosse e costringendoci a scoprire la bocca a intervalli regolari per liberare i bronchi da un liquido brunastro. «Nelle fasce della mummia si annidano anche delle spore fungine altamente tossiche», spiega Jean-Pierre, l’iniziato, l’avventuriero dalle spalle larghe che ha sottratto la sua prima statuetta da una tomba della 19esima dinastia all’età di 15 anni. Ora che è più vecchio di una quarantina d’anni, la sua passione per l’egittologia non è scemata. «Queste spore hanno provocato la morte di Lord Carnavon e altri 26 membri dell’équipe archeologica che ha esumato il corpo di Tutankhamon nel 1922. All’epoca si fantasticava molto sulla maledizione della mummia». Le bende? Numerosi brandelli scuri sono sparsi sul piano di calpestio della caverna. Ci sono anche frammenti di legno dipinto. «Il mese scorso abbiamo estratto un sarcofago», dice Ali. E Jean-Pierre spiega che, come d’abitudine, i tombaroli hanno rimosso il coperchio e “spogliato” la mummia alla ricerca di un corredo funebre, generalmente costituito da gioielli, statuette e ushabti, le statuette in legno, bronzo o terracotta che rappresentano i servitori agli ordini del defunto nella sua nuova vita. Sono oggetti facili da vendere ai commercianti e ai turisti di Luxor, la città situata di fronte a Tebe, sulla riva orientale del Nilo. «E il sarcofago?», viene chiesto a Jean-Pierre, «che cosa ne hanno fatto?». Con un’aria diffidente, è ora Ali a rispondere: «Adesso il signor X s’interessa anche alle mummie?». Chi è il signor X?
Il nostro reportage tra Tebe e Luxor è il frutto di un espediente. Nessuno può infiltrarsi nel regno dei tombaroli e dei trafficanti di artefatti presentandosi come «l’inviato speciale di un’importante testata parigina». Non funziona così. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la collaborazione di colui che in queste righe risponde appunto al nome di Jean-Pierre. Ex tombarolo e trafficante lui stesso, ha voluto che questa storia venisse raccontata, per vanità, forse. La sua unica condizione è stata che la vera identità di tutti i protagonisti di questo reportage fosse tenuta segreta.
L’ossessione. Non si tratta quindi di un’azione di denuncia, quanto della descrizione dei meccanismi di un’attività che, secondo le stime di alcuni esperti dell’Unesco, genera profitti annui nell’ordine di sei miliardi di dollari, facendo del commercio illecito di antichità il terzo traffico più importante dopo le armi e la droga. E nonostante l’arrivo massiccio di nuove “merci” provenienti dalle terre dell’Isis, la richiesta non cala. Anzi, sembra inarrestabile. E l’Egitto faraonico resta il mercato preferito dei collezionisti privati.
In occasione del primo incontro con lui nel gennaio 2015, Jean-Pierre aveva spiegato il suo piano: «Comunicherò ai miei ex colleghi l’imminente arrivo a Luxor di un uomo di fiducia del signor X», ovvero un commerciante d’arte parigino molto famoso, conosciuto anche in Alto Egitto per esservi venuto in diverse occasioni ad acquistare dei pezzi al di fuori dei circuiti ufficiali. Insomma, il signor X altro non è che colui che figura come nostro “mandante”. «Nell’ambiente lo conoscono tutti», aveva raccontato Jean-Pierre, «è un truffatore, il che gli conferisce un’aura di importanza per la gente del posto. Alcuni lo detestano anche perché cerca di fregare tutti. Dobbiamo solo far finta che ognuno viene per conto suo, per vedere se c’è qualcosa di nuovo sul mercato». Semplicissimo, e ha funzionato. «Al signor X», rispondiamo infine ad Ali, «non interessano le mummie, ma vuole sapere il luogo di provenienza di tutti i pezzi che possono interessare ai propri clienti. La gente non si fida. Ci sono troppi falsi in circolazione. È quindi fondamentale avere un dossier ben documentato con foto». Christopher Pillitz, il fotografo presente all’incontro, dice: «Forza, facciamo ancora qualche scatto a questa camera funeraria».
L’enigma della mummia mancante è un’ossessione. Quando usciamo dai tunnel, cinque ore dopo esservi entrati attraverso un buco nascosto dietro un mucchio di spazzatura ammassato nel cortile della casa di Ali, la famiglia ci invita a restare per il tè. A prescindere dalla loro attività, non sono dei mascalzoni, hanno l’aria di essere delle brave persone. A sentirli, tutti i vicini praticano la stessa attività. Il villaggio di Tarif, poco più di un manipolo di tuguri, è situato ai piedi della montagna tebana, una catena di colline rocciose che separa la Valle del Nilo da quella dei Re. «In questa zona, ovunque scaviate trovate delle tombe», assicura Abdoul, il fratello di Ali. «E più vi avvicinate alla montagna, più avete buone possibilità di scovare una tomba di qualche nobile».
Questo spiega l’antica fortuna del villaggio di Gourna, appoggiato per secoli contro il fianco della montagna, finché, nell’inverno 2006-2007, il governo ha fatto evacuare gli abitanti, radendo al suolo le loro belle case dai colori pittoreschi. Per compiacere l’Unesco e i turisti, i bulldozer hanno risparmiato qualche facciata all’estremità sud del villaggio storico.
Gourna era nota come il feudo dei più grandi tombaroli di tutti i tempi. Per non parlare dei numerosi archeologi, mercanti e collezionisti che si sono serviti a larghi palmenti in questa zona a partire dalla campagna d’Egitto del generale Bonaparte nel 1798 e per un secolo e mezzo a seguire. Erano soprattutto francesi, inglesi, tedeschi e americani. Senza dimenticare Giovanni Battista Belzoni, detto “il grande Belzoni”, l’avventuriero italiano che, nel 1815, è riuscito a portare al British Museum il busto colossale di Ramsete II. La statua, che pesa sette tonnellate, era custodita fino a quel momento al Ramesseum, il tempio di Tebe dedicato al più grande faraone che la storia ricordi. Il monumento non è più tornato.
Scavatori da generazioni. Ma, nella terra dei faraoni, il termine “tombarolo” sembra riferirsi ai soli egiziani. «Il fatto è», conferma Ali, «che tutte le famiglie di qui scavano da generazioni». In effetti, colpisce l’estensione della rete di tunnel che parte dal buco nascosto in fondo al suo giardino. E da quante generazioni si scava nella famiglia di Ali? Lui comincia a contare sulle dita delle mani perennemente coperte di polvere: il papà Ahmed, il nonno Mohamed, il bisnonno Hussein, risalendo fino a otto generazioni precedenti: «Abbiamo cominciato a scavare dall’arrivo dei francesi». Il che è interessante per diversi motivi. Infatti, quando Napoleone è sbarcato sulle rive del Nilo, non era accompagnato solo da 40 mila soldati, ma anche da 167 esperti, ingegneri e artisti, tutti appassionati dallo studio dell’antichità egizia. È quindi nata “l’egittologia” e, con essa, l’ossessione dell’Occidente per i “souvenir” dell’Egitto. Che dire delle indimenticabili serate mondane organizzate a Londra o a Parigi, il cui momento culminante era l’apertura di un sarcofago e la “svestizione” di una mummia allo scoccare della mezzanotte? «Prima dell’arrivo dei francesi, le antichità non valevano nulla per noi», continua Ali. «A parte due eccezioni: polverizzavamo le vecchie terraglie per utilizzarle come fertilizzante per i campi e spaccavamo le bare per usarle come legna da ardere. Nel deserto c’è sempre penuria di legna. Bruciavamo anche le mummie».
Ora è comprensibile come mai anche lui abbia dovuto fare la medesima cosa con i ritrovamenti più recenti. Ma, perché anche oggi? «I sarcofagi sono diventati invendibili», interviene Jean-Pierre, una volta sistemato distante dai tombaroli. «Teoricamente valgono sempre una fortuna. In Europa ci sono collezionisti privati che pagherebbero anche più di cinque milioni di euro per averne uno. Premesso ciò, come si fa a fare uscire la merce da qui?».
Ma quali maschere. Ai tempi del rais Mubarak era più facile: bastava accordarsi con un generale dell’esercito e avere per amico un addetto dell’ambasciata. Poi è arrivata la primavera araba e, con essa, il caos per l’Egitto delle antichità. Bande armate potevano fare man bassa dei tesori esposti nei musei nazionali o stoccati nei magazzini dei cantieri archeologici. I Fratelli musulmani, che appoggiavano il governo del presidente Morsi, non se ne curavano. Ai loro occhi, l’archeologia e l’idolatria erano assimilabili a peccati mortali. Così, a partire dal 2011, il mercato nero è stato inondato di artefatti di ogni sorta, spesso venduti su eBay.
La situazione è nuovamente cambiata con l’arrivo al potere del generale Al Sisi. «Chi viene colto in flagrante saccheggio o traffico viene condannato a 25 anni di detenzione», afferma Jean-Pierre. «Tuttavia, l’attività continua: c’è la domanda e c’è l’offerta». Il dealer suo amico abita alle porte di Nuova Gourna, come vengono chiamate le bidonville erette in fretta e furia nel 2007 per dare un alloggio alla gente espulsa dalla montagna tebana: sinistri cubi di pietra tutti uguali, con finestre minuscole e tetti in lamiera che li trasformano in forni a partire dal mese di aprile. Indubbiamente, il giovane Hassan, vestito di un’elegante gellaba di seta color malva, ha modo di bearsi del violento contrasto con le abitazioni del vicinato. Ornata di tappeti e arredata con gusto, la sua vasta dimora trasmette un senso di agiatezza e trabocca di gadget made in Sony e Apple. Basta sedersi al tavolino del salone, dove Hassan serve il tè. «Quante zollette? E come sta il carissimo signor X nella lontana città di Parigi?». Rispondiamo che il signor X ci ha pregato di trasmettere i suoi più cari saluti al suo migliore amico Hassan.
Poi, Hassan batte discretamente le mani e uno dei suo fratelli arriva da una stanza attigua con le braccia cariche di artefatti che depone davanti a noi sul tavolino. Non battiamo ciglio e lasciamo fare a Jean-Pierre, è lui l’esperto che esamina alcune statuette scolpite, ne annusa addirittura il legno e lancia uno sguardo severo al nostro anfitrione: «Habibi, ci vuoi insultare? Questi signori hanno fatto un lungo viaggio per venire a trovarti e tu gli proponi dei falsi». L’altro sorride: «Certamente, ma sono ottime imitazioni», come per dire che anche le contraffazioni meritano un prezzo congruo. A malincuore fa segno al fratello di sbaraccare. Finalmente arriva qualche oggetto di valore. «Sono molto belle queste maschere», diciamo a Jean-Pierre, in francese, perché Hassan non capisca. Per fortuna, perché l’esperto ci risponde che non ne capiamo proprio niente: «Non sono delle maschere, ma delle teste di coperchio di sarcofago. Vengono asportate per poter vendere almeno la parte più preziosa della bara». Christopher comincia a scattare delle foto, mentre partono le informazioni sul prezzo: «Queste due teste», dice Hassan, «costano rispettivamente 50 mila e 70 mila lire egiziane».
Siamo nuovamente con Jean-Pierre. Che cosa ne pensa di questo prezzo? «È abbastanza ragionevole», è il suo parere, «trattando si potrebbe riuscire a farlo scendere ancora. Ma di norma il calcolo è il seguente: dividi per 8,5 il valore comunicato dal commerciante egiziano, per avere l’importo in euro, a cui devi aggiungere uno zero per ottenere il probabile ricavato di rivendita in Europa. Per quanto riguarda queste due teste di sarcofago, credo che un collezionista privato le pagherebbe al signor X intorno ai 60-80 mila euro». Sono valori piuttosto alti. Come mai? Hassan si mette la mano sul cuore – «Wallah, giuro su Allah» – per garantire l’autenticità della sua merce. La prova? «Proviene tutta dai cantieri della montagna». Che ironia della sorte. Dall’espulsione degli abitanti di Gourna, le terre allora occupate dalle loro case sono diventate dei cantieri archeologici. Numerose missioni internazionali sono all’opera: francesi, inglesi, americani, polacchi e altri che si contendono il bottino. I più detestati al momento sono gli spagnoli, perché hanno fatto diverse scoperte sensazionali in lotti che erano stati ceduti loro da tedeschi che ora si mordono le mani. Infine, la manodopera locale, per la maggior parte abitanti di Nuova Gourna che lavorano al soldo degli stranieri, non si tira indietro quando si presenta l’occasione di far sparire qualche ushabti, statuetta, canopo, e altri piccoli tesori prelevati dai luoghi in cui erano custoditi.
La messinscena. E il trasporto? «Nessun problema», torna ad assicurare Jean-Pierre. Gli oggetti s’infilano in valigia, corredati di una fattura emessa appositamente da un bazar (spesso di dubbia probità), che conferma che questa “imitazione” è stata venduta al tal turista al modico prezzo di... Se si tratta di un pezzo più grande e pesante, lo si avvolge nel pluriball e lo si spedisce per container al porto di Marsiglia, Genova o alla zona franca di Ginevra. Nascosto in mezzo a una serie di oggetti simili, nessun doganiere noterà la differenza».
Ma come fa il signor X a “legalizzare” la merce? In Europa le leggi contro il traffico di antichità sono molto severe attualmente. Ma anche a questo proposito, Jean-Pierre ha la risposta pronta: «Se il cliente è un collezionista privato, non gliene frega nulla di sapere in che modo gli è arrivato il pezzo, a condizione, ovviamente, di custodirlo segretamente a casa sua. Se invece l’artefatto dev’essere venduto all’asta o tramite catalogo, l’opzione più semplice resta sempre quella “solaio”». Ossia? Il signor X incontra una persona il cui bisnonno o trisnonno ha viaggiato in Egitto prima del 1950, quando non esistevano ancora leggi cogenti contro il traffico di antichità. Successivamente, il pezzo “portato” da questo bravo antenato è stato dimenticato per decenni in un solaio dove viene successivamente ritrovato. Ufficialmente l’erede vende il pezzo – per esempio un frammento di muro tombale contenente il rilievo di una testa di faraone – per 50 mila euro al signor X, che probabilmente lo rivenderà per un milione».
Qualche giorno dopo, Jean-Pierre ci presenta Ibrahim, uno dei più grandi trafficanti dell’Alto Egitto, che abita in una villa a Luxor. In pratica il nostro interesse è solo a un tipo di artefatto: i sarcofagi. Siamo quindi nel posto giusto. Ibrahim estrae il suo smartphone e fa scorrere davanti agli sguardi attoniti foto di bare allineate in un cortile interno dall’aspetto malandato. Si possono vedere dal vero? «Certo, se s’impegna ad acquistarne una», è la risposta. Quindi c’è da versare un acconto di 100 mila lire egiziane (11.750 euro) non rimborsabile, e ci si può andare. Magari un’altra volta, allora: «Alhamdulillah». Un’altra tazza di tè e si riesce a filare via. È una bella notte di fine inverno, la luna piena splende sopra il tempio di Karnak. Rimane un po’ di nervoso per il trattamento avuto da parte del trafficante.
Viene detto: «Non si venderanno mai quei sarcofagi». «Non ne sarei così sicuro», replica Jean-Pierre. «Ma ci hai raccontato che sono diventati invendibili». «In Europa e in America, sì. Ma non nei Paesi del Golfo». «E quindi?». «Si dice che certe notti dei jet atterrino nel deserto e ripartano poco dopo».
«E allora?». «Pare che il Qatar abbia realizzato tre nuovi musei che ora devono essere riempiti». Ah, queste voci di Tebe. Sicuramente infondate...