Federico Fubini, Sette 13/5/2016, 13 maggio 2016
QUELLO CHE I BIG DATA NON PREDICONO
C’è stata l’epoca dei Big Data, ma sembra un secolo fa. Negli Stati Uniti si è appena imposto nelle primarie del partito repubblicano il candidato più tradizionalista: Donald Trump. Tradizionalista non per il suo stile o per i contenuti, e neanche per il modo in cui si è imposto. Tradizionalista semplicemente perché sembra avere un approccio ai dati che avrebbe potuto praticare un uomo politico di trent’anni fa. Non ne ha fatto nessun uso, se non molto grezzo.
Il suo non è il modo in cui di solito si analizza oggi un’elezione negli Stati Uniti. All’inizio della campagna elettorale, un celebrato guru come Nate Silver aveva fatto accuratamente i conti e aveva prodotto il suo responso: secondo lui, Trump aveva il 2% di possibilità di vincere la «nomination». Fino alle scorse presidenziali, Silver aveva un curriculum perfetto come autore di previsioni azzeccate e gli avversari di Trump devono avergli creduto, a giudicare dalla loro sottovalutazione del candidato vincente. Il resto è cronaca. I fini analisti dei Big Data hanno avuto torto, il fiuto di Donald Trump ha avuto ragione.
fattori imprevedibili. La politica in realtà non è arrivata per prima all’adozione dei Big Data e non ne fa, in genere, l’uso più estremo. Le tecniche di filtraggio e selezione delle preferenze dei singoli nascono nelle grandi imprese produttrici di beni di consumo ed è lì che si stanno sviluppando a livelli insospettabili di aggressività. Quando si riceve una newsletter con un link via email, per esempio di un’agenzia di pacchetti-vacanza, spesso non si ha idea dell’analisi che sta dietro. Ancora meno si ha idea della catena di dati che sta per dispiegarsi da lì in poi. L’azienda saprà esattamente in quanti aprono quella email, nome per nome, dopo quanto tempo lo fanno e quali sono le offerte commerciali che ciascuno cerca nel sito a cui si può accedere attraverso il link. L’azienda saprà anche esattamente misurare la transizione fra la lettura dell’email e ogni nuovo ordine della clientela.
Dunque oggi come un tempo la politica segue il marketing. E come questo a volte sbanda. La prossima dimostrazione rischia di essere il referendum sulla Brexit – Londra dentro o fuori dall’Unione europea – il mese prossimo. Gran parte dei sondaggi danno il «Remain», restare nella Ue, in vantaggio di cinque-sette punti. Ma quanto possiamo fidarci? Stefan Gerlach, capoeconomista di Bsi a Zurigo, ha di recente analizzato 201 sondaggi di 15 istituti sulle intenzioni di voto dei britannici in un referendum sul sì o no alla permanenza nella Ue. Ne emerge che in effetti il fronte che preferisce lo status quo è leggermente in vantaggio. Viene fuori però anche qualcosa di più sorprendente: le variazioni fra un sondaggio e l’altro sono così vaste che non possono essere spiegate con un semplice errore statistico. Chi pone le domande conta per l’orientamento delle risposte almeno tanto quanto l’opinione stessa delle persone interrogate. «Nello spiegare i risultati – conclude Gerlach – l’organizzazione che conduce il sondaggio sembra non meno importante delle intenzioni di voto del campione nel sondaggio».
Detto in altri termini: i Big Data rischiano di produrre equivoci nello studio delle preferenze di massa. La matematica è oggettiva, le opinioni sono volatili. I Big Data aiutano a prevedere gli orientamenti nelle fasi statiche, nella continuità, ma possono sviare e offuscare nelle fasi dinamiche di discontinuità. Sono perfetti per prevedere la rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2012, infidi per la vittoria di un uomo di rottura come Trump alle primarie del Grand Old Party nel 2016.
Tutto questo ci lascia una domanda: i politici italiani usano, o dovrebbero usare, i Big Data? Sbaglierò, ma la mia impressione è che non lo facciano. Non perché ne diffidino, ma perché non sono ancora pienamente arrivati a quel punto. Se in futuro dovessero farlo, ecco allora i miei consigli a loro per evitare di prendere cantonate: andate al sodo. Non cercate di capire cosa pensano i vostri potenziali elettori, ma chi sono. Quanti sono anziani, e quanti giovani. Quanti hanno studiato, e cosa. Quanti vivono grazie a una rendita e quanti grazie alla produzione di qualcosa di cui qualcun altro da qualche parte nel mondo ha voglia o bisogno. Potreste scoprire, cari politici italiani, realtà a cui non avevate mai pensato prima.