Francesco Formaggi, Riders 4/2016, 13 maggio 2016
LA STRADA È VITA
Allora ho spento il computer e tirato fuori dallo scatolone la mia vecchia macchina da scrivere Olivetti Lettera 32, e adesso questo pezzo lo batto a macchina, con l’inchiostro sbiadito che fa lettere sbaffate sul foglio, perché è un pezzo che parla di velocità, spontaneità, di ritmo interiore e trasformazioni, di musica e amicizie pazze, notti furiose e poesia e sesso e alcol e parla di strada, soprattutto, di strada e di un libro che è stato scritto sulla strada come fosse una strada e quindi di Jack Kerouac, lo scrittore vagabondo che ha inciso una traccia profonda e inimitabile di libertà e vitalità nel disco della letteratura americana, in un’epoca, gli anni Cinquanta, in cui la musica dominante era un suono di piffero al ritmo dei jingle pubblicitari che spingeva gli uomini e le donne dentro le gabbie del consumismo e del falso mito della ricchezza.
E allora io continuo a battere veloce sui tasti celebrando quello stile diretto e strafottente che era il suo beat, quella “prosa spontanea” che Kerouac ha inventato e teorizzato, alla ricerca solo del ritmo, della bellezza, della spontaneità, come «un’improvvisazione jazz», e non mi frega se il direttore me lo boccia io lo faccio lo stesso, perché oggi è il 2 aprile del 2016 ed esattamente 65 anni fa, il 2 aprile del 1951, in una serata mite di New York, nella sua stanza fumosa, con la finestra aperta sui rumori della strada, la sigaretta in bocca e la tazza piena di caffè, Kerouac infilava la carta nella sua macchina da scrivere e, al ritmo dell’amata musica bebop che veniva dal giradischi, iniziava a battere sui tasti il suo romanzo capolavoro, dove racconta in una colata folle di parole i viaggi in macchina col suo amico Neal Cassady attraverso le strade d’America, gli incontri, le avventure, le donne, il sesso, l’alcol, la musica, la libertà, la sua «vita sulla strada»; il romanzo manifesto della Beat Generation che avrebbe mandato in frantumi le vetrine della letteratura dominante, dando un senso nuovo al gesto dello scrivere – come Pollock in quegli stessi anni, con la tecnica dei dripping, dava un senso nuovo al gesto del dipingere – e facendo del viaggio e delle strade che attraversano l’America un mito: sto parlando di On the Road.
Ma questo pezzo parla anche di un uomo che ha tentato di scavalcare il muro della coscienza per approdare sulle terre inesplorate dell’inconscio e della verità interiore dell’essere umano, ma ha trovato solo il vuoto, quello che aveva dentro, quello che le delusioni della vita e la madre pazza e il fratello morto bambino e il padre alcolista gli avevano scavato dentro fino a farlo collassare su se stesso, a 47 anni, dopo essersi bevuto la vita come fosse un cicchetto tra pazzi incontri, folli accelerate sulle strade deserte, droghe, alcol, amori furiosi, insieme agli amici Allen Ginsberg, Neal Cassady, William Burroughs, «pazzi della vita, pazzi delle parole, quelli che vogliono tutto e subito, quelli che non sbagliano mai e non dicono mai cose banali... ma bruciano, bruciano, bruciano come candele romane nella notte».
La leggenda vuole che nelle tre settimane che impiegò per scrivere On the Road, dal 2 al 22 aprile del 1951, Kerouac battesse a macchina come in preda a una sacra ispirazione febbrile, strafatto di benzedrina; ma ormai sappiamo che non è vero; è lui stesso a scriverlo in una lettera a Cassady: «Ho scritto quel libro imbottendomi di caffè, ricordati la regola. Benzedrina, maria, nessuna tra le sostanze che conosco ti apre la mente come il caffè».
Lo scrive su un rotolo di fogli da disegno che costruisce con le sue mani: taglia i fogli della misura giusta affinché entrino nella sua macchina da scrivere, poi li unisce con del nastro adesivo, facendo sì che diventino «un lungo rotolo di carta, come la strada che ricordava, su cui poter scrivere rapidamente, senza soste, come su una pagina infinita».
Philip Whalen anni dopo scrisse un resoconto di quei giorni di aprile: «Se ne stava seduto – alla macchina da scrivere con tutti i suoi taccuini tascabili, e i taccuini tascabili erano aperti alla sua sinistra sul tavolo – e batteva sui tasti. Scriveva a macchina più veloce di qualsiasi altro essere umano in circolazione. Capitava che girasse una pagina del taccuino, si rendesse conto che non funzionava e la cancellasse tutta. Poi scriveva un pezzo a macchina, girava un’altra pagina e la batteva».
Con la sua bella voce entusiasta, Michele Piumini, il traduttore italiano del «rotolo», mi confessa che «la cosa più impressionante di quel testo non è solo l’incredibile spontaneità della scrittura, ma anche la lucidità, la chiarezza unita alla rapidità, la nitidezza delle immagini, delle forme e dei colori: sembra davvero di vedere un film. Ho tradotto altri libri di Kerouac, come Tristessa, che si avvicina più a un flusso di coscienza e alcune parti sono confuse, sembrano solo abbozzate, mentre il “rotolo“ di On the Road è di una chiarezza e compiutezza incredibile, e poi è musicale, la scrittura di Kerouac è musica, e da traduttore ho fatto il possibile per ricreare in italiano il ritmo della sua prosa, non è stato facile».
Al di là dei modi e delle forme, delle leggende e dei miti, la cosa più stupefacente è che un ragazzo non ancora trentenne, che solo un anno prima aveva dato alle stampe un romanzone «tradizionale» (La città e la metropoli) passato quasi inosservato e a quel tempo era poco più che uno scrittore molto promettente, nel volgere di quelle tre settimane diventa uno dei più grandi scrittori della letteratura americana, scrivendo su un rotolo di fogli lungo 34 metri un romanzo che è tra i più letti e innovativi e belli della letteratura del Novecento, e rappresenta per Kerouac sia il compimento di una rivoluzione narrativa sia la realizzazione della propria identità di scrittore.
Ma da dove veniva quell’impeto quell’urgenza folle di scrivere tutto ciò che aveva visto e vissuto durante i viaggi in giro per l’America come se suonasse una batteria o un sax in un pazzo assolo solitario? Ma forse sarebbe meglio chiedersi: da dove veniva quell’inquietudine che gli impediva di stare per più di qualche mese nello stesso posto e di mantenersi un lavoro e una donna e quella voglia irrefrenabile di fuga che lo afferrava ogni volta al collo e lo scaraventava di nuovo sulla strada?
Probabilmente era iniziata con la sua nascita, nel 1922 nella cittadina di Lowell, Massachusetts, tra le mura di una casa come tante in una famiglia ordinaria di origine canadese profondamente cattolica e apparentemente per bene. Prima di essere segnata dalla morte per malattia del fratello di quattro anni, l’infanzia di Jack trascorre spensierata e felice, tra giochi e corse gioiose nei campi e lungo il fiume. Da lì a poco il padre, di mestiere tipografo, perde il lavoro e inizia a bere, facendo precipitare pian piano tutta la famiglia in un baratro.
Jack eccelle soprattutto nello sport, e dopo le scuole superiori si iscrive alla Columbia University a New York, grazie a una borsa di studio per meriti atletici, ma non porta a temine gli studi. Trascorre il tempo nei locali jazz, dove si suona il bebop, e soprattutto frequenta gli artisti del Greenwich Village, vivendo tra droghe, alcol e sesso libero.
Nel 1944 incontra Lucien Carr, conosce Burroughs e Ginsberg, con i quali forma il movimento della Beat Generation, e si sposa con Edith Parker – la prima delle sue tre mogli. Due anni dopo fa l’incontro più importante della sua vita: Neal Cassady, uno che «sulla strada ci era nato» e rimane così affascinato da lui, dalla sua irrequietezza, dalla sua voglia di vivere, dalla sua follia vagabonda, che diventano subito migliori amici e insieme compiono i primi viaggi attraverso l’America, tra il 47 e il 50, che saranno il nucleo di esperienze originario di On the Road.
Inizialmente l’idea era di raccogliere il materiale per fare un romanzo secondo i canoni occidentali di fiction letteraria, con una trama chiara e uno sviluppo lineare. Ma il risultato è scadente.
I personaggi con quei nomi finti sono deboli calchi di persone reali, e le esperienze personali passate nel filtro della fiction risultano scialbe e diluite: come se Kerouac non avesse ancora la forza di affrontare di petto il suo talento e realizzarsi come lo scrittore che voleva essere e sapeva di poter diventare. «Nei primi preparativi per il libro», annota un critico, «Kerouac scrive il perché della strada, non la strada in quanto tale».
Poi accade qualcosa, un’accelerazione improvvisa, un movimento fulmineo che è una trasformazione interiore, e accade quando la realtà autobiografica, con uno spintone, butta fuori dalla pagina la falsa necessità della finzione, ovvero quando Kerouac decide di scrivere in prima persona, mettendo il suo nome vero, Jack, al posto di quello fittizio del protagonista, Sal Paradise, e anche i nomi veri di tutti gli altri personaggi di On the Road: doveva afferrare a piene mani la materia viva della sua ispirazione e plasmarla senza il timore che si sgretolasse o gli scivolasse tra le dita: tutto doveva essere vero, «al diavolo le architetture fasulle», doveva finalmente rinunciare «alla finzione e alla paura. Non c’è altro da fare che scrivere la verità. Non c’è altra ragione per scrivere».
Una volta completato, però, nessun editore vuole pubblicare quel libro. Le ragioni del rifiuto sono di ordine morale oltre che stilistico. È un romanzo troppo sperimentale, certo, gli editor non capiscono di che pasta sia fatto – saggio, romanzo, confessione – ma c’è anche troppo sesso esplicito e troppo uso di droghe, vengono nominate persone vere che potrebbero risentirsi. Sono problemi secondari per Kerouac, che è ormai certo del proprio talento e del valore del libro e si infuria. Ma resta il fatto che il romanzo non viene pubblicato.
Dopo vari rifiuti Kerouac si dice perfino disposto a modificarlo, e lo fa, scrive due nuove stesure, più «pubblicabili», torna a usare nomi fittizi, (la prima versione pubblicata nel 57 è così: edulcorata, corretta, alleggerita). Ma i suoi tentativi sono vani. Nei sei anni che separano la prima stesura del romanzo dalla pubblicazione, Kerouac vive da emarginato, è povero in canna e solo, non ha un tetto sotto il quale dormire, vive alla giornata, cambiando mille lavori. Tuttavia il suo flusso creativo non subisce interruzioni, e la scrittura sperimentale così diretta e prorompente che aveva inaugurato con On the Road adesso sembra esplodere. Scrive un libro all’anno, poesie, romanzi, viaggia in Messico, in Europa, a Parigi, Londra, vive per qualche mese da solo come un eremita in una baita sulla costa californiana dove lo assalgono gli incubi e riemergono antichi terrori (e dove scrive Big Sur, il romanzo che è il resoconto dei suoi soggiorni nella baita).
Scrive senza sosta, si perde, diventa buddista, si ritrova, torna a perdersi, e intanto beve, beve e continua a bere. Il fatto più impressionante è che mentre la sua vita personale precipita sempre più nel baratro dell’alcolismo, la sua creatività decolla e sembra poter raggiungere vette sempre più alte. «Sto sfornando poesie e letteratura così folli» scrive a un amico, «che tra anni le riguarderò con incredulità e sarò mortificato di non esserne più capace, ma nessuno lo scoprirà per altri 15, 20 anni, lo so soltanto io».
Solo dopo il 1957, quando On the Road viene pubblicato dalla Viking, dopo un estenuante rimpallo di bozze tra avvocati ed editor per espungere le parti che avrebbero potuto creare problemi legali alla casa editrice, per Kerouac arriva il successo. Ma è un «terribile successo», che lo condanna al destino non voluto di «Re dei Beat», e lo rende il bersaglio di tutti quei commentatori e recensori che volevano soltanto fare gossip sulla sua vita e sui segreti di quella generazione di teneri folli e sognatori che ormai stava già scomparendo.
Solo dopo qualche anno si è cominciato a capire che la pubblicazione di On the Road fu un evento culturale di grande portata, non solo per lo stile rivoluzionario del libro, per la vitalità della scrittura e la densità narrativa, ma perché parlava di un modo nuovo di stare al mondo, di una possibilità fino ad allora non contemplata, che i giovani delle generazioni successive avrebbero subito abbracciato: un modo di vivere svincolato dalle ragioni della società e della cultura dominante, che esaltava la libertà personale e «l’immagine dello slancio vitale, della spontaneità nell’arte e nella vita» come scrisse Fernanda Pivano in una delle tante interviste. «La generazione degli anni 50 e 60 è stata fortemente influenzata da questo libro, è cominciato l’autostop, il sacco a pelo, il vivere alla giornata, il non sapere mai cosa si farà domani».
Quando Kerouac venne in Italia, nel 1966, fu lei a intervistarlo. Lo scrittore era ormai una celebrità, ma l’uomo era ridotto a uno straccio. Su youtube si può vedere la registrazione dell’intervista. Kerouac era ubriaco fradicio. Fernanda Pivano fa molta fatica a contenerlo, mantiene la calma di chi è avvezza a trattare con gli ubriaconi e cerca di tirarne fuori solo il meglio, senza badare ai farfugliamenti, al gesticolare scomposto, alle frasi senza senso. L’inquadratura indugia su un bicchiere con dentro del liquido bianco, come volesse suggerire che lo scrittore sta bevendo solo acqua, ma l’impressione che fa è pessima.
Kerouac morirà poco dopo, nel 1969, a 47 anni, per la cirrosi epatica. E naturalmente, come sempre in questi casi, resta il rammarico e il dubbio di cosa avrebbe potuto scrivere ancora se non si fosse ucciso con l’alcol. Forse altri capolavori. Forse nulla. Ma ognuno ha le sue ombre e le sue luci, e le ombre di Kerouac sono state tanto buie e nere quanto luminose e splendenti sono state le sue luci.
A me piace immaginarlo come appare in una intervista del 1959, allo Steve Allen Plymounth Show (potete cercarla su youtube), in giacca grigia, i capelli impomatati, mentre legge pagine di On the Road sulla coda di un pianoforte, e la sua voce è potente, piena di vita, di tenerezza e fervore, piena di pietà e tristezza, e se chiudi gli occhi hai la sensazione che le parole non escano dalla sua bocca, ma salgano come un battito sotterraneo dalle crepe dell’asfalto, in una strada solitaria d’America.