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 2016  maggio 13 Venerdì calendario

IN SIRIA TORTURANO TUTTI. È CAPITATO ANCHE A ME


BILLUND. Daniel Rye non solo è danese, ma danese di Billund. La mamma lavora a Legoland, lui nasce e cresce tra campi verdi, piste ciclabili e casette che replicano con ossessiva regolarità il mantra del mattoncino. Se l’Onu volesse girare uno spot sulle gioie (e le noie) della pace potrebbe accomodarsi in quest’angolo di provincia scandinava, che dà i natali alla multinazionale del giocattolo e al protagonista della cupa e luminosa vicenda narrata in Hai visto la luna? della reporter danese Puk Damsgård (Sperling & Kupfer)). Quanto ci vuole per essere catapultati dall’eterna quiete nordica al cronico strazio siriano? Il 17 maggio 2013 il fotografo venticinquenne Daniel Rye ha appena attraversato la frontiera tra Turchia e Siria quando viene rapito da un oscuro gruppo di miliziani che si fanno chiamare Stato islamico. Nessuno ancora li conosce, ma tra una battaglia e l’altra hanno già cominciato a fare incetta di ostaggi occidentali: per Daniel seguiranno tredici mesi di prigionia, e una provvidenziale liberazione a poche settimane dall’avvio dell’orribile sabba di decapitazioni in favore di telecamera. Daniel Rye è rimasto un ragazzo posato, che ricorda senza rabbia e assimila le domande prima di decidere se, come e quanto rispondere. Gli chiediamo come si passa dalla bonaccia danese alla tempesta siriana, ci dice che nel 2013 aveva appena scoperto il gran mondo al di là delle pareti di casa: «Ero un ginnasta professionista e per anni ho pensato solo a me stesso, ai miei salti e a vincere i prossimi campionati». Ma a vent’anni si fa presto a cambiare passioni: «La fotografia mi ha aperto gli occhi: lavoravo come assistente di un reporter di guerra e dopo un paio di viaggi in Africa e in Asia decisi di partire per la Siria». Voleva portare nella piccola Billund le immagini di un conflitto dimenticato, non sapeva che sotto i riflettori sarebbero finiti lui, la sua storia e il buio pesto da cui emerse la sera del 19 giugno 2014.
Dopo aver letto il libro dedicato al suo sequestro e alle torture fisiche e psicologiche che ha subito, la prima cosa che viene da chiederle è semplicemente: «Come sta?».
«Bene, molto meglio di quanto potrei stare, ho ricominciato a vivere e a fare fotografie».
Cosa le resta di un anno nelle mani dell’Is?
«Dopo un primo periodo passato in solitudine sono stato recluso con altri ostaggi occidentali, in certi momenti siamo stati anche diciotto. Penso sempre al nostro gruppo e a quanto ci siamo sostenuti a vicenda: facevamo ginnastica, yoga, giocavamo a scacchi, a Risiko, ci raccontavamo delle nostre famiglie, abbiamo addirittura inventato un giochino di preparazione al Natale. Volevamo restare umani e ci siamo riusciti».
Lei è stato compagno di prigionia del reporter americano James Foley, il primo occidentale a essere decapitato quasi in mondovisione dall’Is. Che ricordo ne ha?
«Nelle carceri dello “Stato islamico” sono diventato amico non solo di James, ma di Steven, David, Peter, Alan, tutti gli ostaggi americani e inglesi assassinati nella seconda metà del 2014. Di James Foley ricordo la tempra con cui si concentrava sulla nostra vita quotidiana, senza mai concedersi un pensiero negativo: sapeva che il suo governo non avrebbe mai trattato per lui, ma sperava che in qualche modo riuscissero a liberarlo».
Nemmeno il governo danese ha fatto nulla per lei. Le sembra una posizione accettabile?
«A questa domanda preferisco non rispondere».
Eppure la sua vicenda è unica per due ragioni: per questa sorta di eroica «prigionia di gruppo» e per le trattative strettamente private che hanno portato alla sua liberazione. Com’è stato possibile?
«Mi ero premunito con una polizza che in caso di sequestro avrebbe pagato gli sforzi per liberarmi. A seguire le trattative è stato un professionista che nel libro è chiamato Arthur. Ma a raccogliere i due milioni di euro necessari al mio rilascio è stata la mia famiglia: sottoscrivendo l’assicurazione speravo di averli messi al riparo da ogni incombenza e invece devo a loro se sono ancora qui».
Chi erano i suoi carcerieri? Degli psicopatici, dei fanatici o semplicemente dei criminali?
«No, degli essere umani come tutti noi, con convinzioni, obiettivi e interessi diversi dai miei. Ci sono sempre due facce della stessa medaglia: chi mi ha tenuto prigioniero è parte di una guerra in cui la tortura è pratica comune, del regime, dell’esercito rivoluzionario e di tutti i gruppuscoli ribelli. In Siria torturano tutti: posso solo dire che è capitato anche a me».
Eppure l’Is non è un gruppo tra i tanti...
«Non sono peggio di altri, l’unica differenza è che per loro noi occidentali siamo il nemico da abbattere. Ma se si guarda al numero di civili uccisi non sono i peggiori attori di questa guerra».
Vi parlavano del loro impegno e dei loro obiettivi?
«Ci facevano domande di tipo religioso, ci chiedevano perché noi cristiani abbiamo più di un solo Dio, ci volevano persuadere che l’Islam è la via corretta da seguire».
E voi cosa rispondevate?
«Era molto meglio non rispondere. Ascoltavamo in silenzio per non innervosirli».
Come giustificavano la loro crudeltà?
«Dicevano che l’Occidente è in guerra contro l’Islam, e che dopo quello che si era visto ad Abu Ghraib e Guantanamo avevano il diritto di trattarci come volevano. Oltre a questo mostravano una fiducia incrollabile nella forza del loro califfato: tutti noi eravamo stati rapiti quando di Is non parlava ancora nessuno e quindi pensavamo di essere di fronte a un drappello di mitomani. Quando sono stato liberato mi ha sorpreso moltissimo constatare che non erano solo vanterie».
Lei ha vissuto la guerra siriana in prima persona. C’è qualcosa che vorrebbe far sapere a noi che la guardiamo solo da spettatori.
«Dopo anni di indifferenza, la Siria è tornata al centro dell’attenzione perché i rifugiati hanno raggiunto l’Europa e l’Is ha colpito le nostre città. Ma è molto pericoloso farsi guidare solo dal proprio interesse: rischiamo di intervenire in modo unilaterale suscitando lo stesso risentimento provocato in Afghanistan e in Iraq».
Qual è stato il momento peggiore della sua prigionia?
«È una domanda difficile. La gente vuole sentirmi parlare di sofferenza e di terrore, ma se ripenso alla mia prigionia, le torture hanno contato per il due, tre per cento del tempo, mentre l’esperienza fondamentale è stata l’incontro con i miei compagni di cella e i momenti straordinari che abbiamo condiviso pur in condizioni terribili. È per ricordare tutto questo che ho voluto pubblicare questo libro».
Lei è stato l’ultimo del gruppo a essere liberato. Quando ha lasciato i suoi compagni, sapeva che per loro sarebbe andata diversamente?
«Sì, lo sapevamo tutti».