Michele Neri, GQ 5-6/2016, 12 maggio 2016
UNO DI NOI
Si tenevano per mano, la testa schiacciata contro l’erba alta, sul Sentiero degli innamorati. Negli occhi avevano campanule, cespugli di lamponi, i trifogli intirizziti dal temporale estivo. Rannicchiati per farsi piccoli, undici ragazzi e ragazze trattenevano il respiro: «Mettiamoci giù in posizioni strane, così penseranno che siamo morti». Non capivano chi fosse quell’uomo che si stava avvicinando a passi tranquilli dentro anfibi militari neri; stempiato, gli occhi celesti, al collo il medaglione dei cavalieri templari. Avevano sentito degli spari echeggiare proprio al centro di quell’isoletta a forma di cuore, in cui si erano radunati a centinaia per far festa e per discutere di politica. L’uomo li raggiunse, mirò con calma alla fronte, alla nuca. Impugnava una pistola, la sua “Mjolnir” (cioè il martello di Thor), e una carabina battezzata Gungnir (lancia di Odino). I proiettili schizzarono a 800 metri al secondo. Si alzarono lievi guaiti, gorgoglii, poi silenzio: lui sparò di nuovo, quindi prese a calci i corpi per assicurarsi che in loro non ci fosse più vita. Si sbagliò solo con una ragazza, Marte, 17 anni, colpita mentre era abbracciata a un’amica: il suo cuore batteva ancora. L’uomo, che era travestito da poliziotto, proseguì la mattanza, facile come in un videogioco.
L’isola era Utøya, a 40 chilometri da Oslo. Lui si chiamava Anders Breivik e si era autoproclamato «Comandante del movimento di resistenza anticomunista norvegese». Aveva 32 anni, il sangue pieno di steroidi, efedrina, aspirina, ed era sorpreso che in quel freddo pomeriggio del 22 luglio 2011 tutto stesse andando per il meglio. Da anni non si sentiva in pace così. Il conto delle vittime tra i partecipanti al campeggio estivo dell’organizzazione giovanile laburista (Auf), era già salito a 32. Aggiungendo le 8 persone dilaniate dalla bomba artigianale, nascosta in un furgone, che un’ora e mezzo prima aveva fatto esplodere sotto l’ufficio del primo ministro (laburista anche lui), e gli altri 37 ragazzi che avrebbe poi annientato, uno al minuto – aggrappati alle rocce, dentro tende, aule, bar, trafitti nelle acque gelide del Tyrifjorden – prima di arrendersi agli agenti della Delta Force, Breivik avrebbe ucciso 77 persone e ferito altre 319.
Aveva sparato, sparato e poi ancora, come quando a sei anni si sedeva sul sentiero vicino a casa, guardava le formiche e dopo averle scelte – «Tu e tu e tu!» – le schiacciava tra le dita. Erano state sufficienti tre ore perché la fase armata della sua campagna contro il partito che, secondo lui, aveva promosso i diritti delle donne, il multiculturalismo e l’apertura all’Islam si concludesse con successo.
E perché un Paese aperto, democratico come la Norvegia piombasse in un dolore insopportabile e facesse i conti con una conseguenza diabolica della propria tolleranza: la più grande tragedia nazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale.
A sconvolgere i norvegesi fu anche il fatto che Breivik fosse «Uno di noi», come s’intitola l’inchiesta della giornalista norvegese Åsne Seierstad che uscirà per Rizzoli il 26 maggio. Nel libro, basato su testimonianze dirette e brutalmente onesto, le tre ore del massacro ingigantiscono, grondano sangue, sogni spezzati, follia omicida. La Seierstad tenta di rispondere a due classiche “W” del giornalismo: Who? e, per quanto possibile, Why? Rivolgo queste due domande all’autrice, corrispondente di guerra e già autrice di un libro famoso, Il libraio di Kabul, qui alle prese con l’indagine più dolorosa: «È orribile dirlo, ma ho versato più lacrime per i ragazzi norvegesi che per migliaia di morti in Afghanistan».
Chi è Breivik?
«Un terrorista politico. Il suo obiettivo non erano i musulmani e la difesa della nostra identità, come ha sempre sostenuto. Eravamo noi, la nostra società: tutti i morti sono norvegesi. Ha attaccato un momento di impegno e gioia, qualcosa che lui non aveva mai conosciuto».
Perché l’ha fatto?
«Occorre considerare molti fattori, come i numeri di una combinazione per aprire una cassaforte. Per cominciare: lui. Poi il rapporto di amore/odio con la madre, l’assenza del padre, la mancanza di fiducia in sé, il fatto che qualunque gruppo o associazione lui avvicinava finisse per rifiutarlo. Breivik implorava attenzione, temeva il vuoto, ma era respinto. Si è vendicato. Come ha detto una ragazza, “lui ce la metteva tutta per essere cool, ma era così uncool...”».
Åsne Seierstad si riferisce al Breivik adolescente: un teppistello, un tagger, nome d’arte Morg. Viveva a Oslo con la madre, una donna depressa e con un’infanzia segnata da abusi, che si era separata dal marito quando Anders aveva un anno. Il padre, un diplomatico, si era trasferito a Londra: quando il figlio, a 15 anni, si fece arrestare per atti vandalici, decise di non vederlo più.
Da bambino, Anders era collerico. A causa di una rigidità fisica, la censura delle emozioni, per i vicini era “il bimbo Meccano”. Quando, anni dopo, avrebbe scatenato la sua guerra contro l’islamizzazione della Norvegia (per cui i musulmani si sarebbero dovuti convertire al cristianesimo o essere deportati), avrebbe conservato la risatina chioccia, la voce affettata e un’attenzione maniacale per il fisico e l’abbigliamento. Oltre alla predisposizione a collezionare fallimenti e rifiuti. Dopo quello paterno, e l’espulsione dalla più celebre crew di writers a Oslo, aveva abbandonato il liceo per entrare nel Partito del Progresso, nazionalista e anti-immigrazione, ma anche lì era stato snobbato. Aveva provato con la truffa, vendendo in Rete diplomi falsi e facendo dei soldi. Finiti quelli, era tornato dalla mamma.
A 27 anni, Breivik doveva di nuovo riempire il vuoto. La sua prima scelta sembrava innocua – World of Warcraft, un gioco online, di cui diventò Master – ma non così tanto se, per quasi 5 anni, rimase chiuso nella cameretta a giocare. L’eremita di Internet – osteggiato per l’antipatia anche dagli avversari – scoprì un altro centro di gravità: l’odio per l’Islam e la difesa della “purezza” nazionale. Almeno lì, nella landa dei nazisti invisibili, sperava di trovare una nicchia. Cercò di compiacere un nazi-imbonitore virtuale che si faceva chiamare Fjordman, ma anche da lui ricevette un rifiuto. Peggio: il silenzio.
Decise allora di fare da solo. Una guerra. Con una dichiarazione d’indipendenza: un proclama intitolato 2083. Nel 2010 affittò una fattoria isolata. Recuperò armi, 200 confezioni di aspirina (per l’acido acetilsalicilico) e nicotina liquida per rendere i proiettili più devastanti. Nel raccontarne la storia, Åsne Seierstad sottolinea l’ostinazione di Breivik quando, per settimane, tritò in un piccolo robot da cucina sei tonnellate di fertilizzante, che poi intinse nel gasolio. Coincidenza: la bomba che produsse, chiamata in gergo “madre di Satana”, è la stessa degli attentati di Parigi e Bruxelles. Alle 15,25 del 22 luglio, esplose sotto l’ufficio di Jens Stoltenberg, il primo ministro, che però si trovava a casa. Da quel momento tutti i numeri di una combinazione sciagurata presero il loro posto.
Nove minuti dopo l’esplosione, un uomo che lo aveva visto fuggire su un Fiat Doblò chiamò la linea d’emergenza della polizia. Diede il numero di targa del furgone con cui intanto Breivik si dirigeva verso l’isola, a nord-ovest di Oslo. L’operatrice scrisse tutto su un post-it, che però lasciò in mezzo al disordine della scrivania. Breivik era già sul traghetto per Utøya quando qualcuno notò il post-it e cercò di attivare l’emergenza. Le due pattuglie allertate preferirono però proseguire nelle loro routine. Si pensò a un elicottero, ma era luglio, l’unico in dotazione alla polizia era “in ferie”. Sbarcato dal traghetto, Breivik disse di essere stato mandato dalla polizia, dopo la bomba di Oslo, per proteggere la sicurezza dei ragazzi. Chiese che fossero radunati. Una prima pattuglia era arrivata intanto davanti all’isola. La centrale aveva comunicato di andare sul posto e “osservare”. I due agenti obbedirono: nell’aria si sentivano colpi di carabina.
Breivik provò a costituirsi chiamando la polizia. Due volte. Non gli diedero retta. Disse: «Mi trovo a Utøya, sono il Comandante...». Avendo dimenticato il suo, usava il telefonino di un ragazzo da cui era possibile fare solo chiamate d’emergenza poiché la scheda Sim non funzionava. L’operatore non vedeva il numero sullo schermo e, non potendo richiamarlo, come previsto dal protocollo, lasciò perdere. Per una serie di disguidi, la squadra speciale Delta, finalmente vicino all’isola, era in mezzo all’acqua su una barca a remi offerta da un campeggiatore. Breivik, intanto, sparava dentro la bocca aperta delle ragazze.
Chiedo ad Åsne Seierstad se la Norvegia è cambiata dopo Utøya. «No. Ed è meglio così. Dovevamo forse cambiare i nostri valori per un pazzo che era tra di noi?».
Qualcuno ha pagato per le ingenuità e i ritardi?
«No. Nessuno, anche se il rapporto sull’operato delle forze dell’ordine è molto pesante».
Il processo si è concluso nel 2012, con la condanna di Breivik a 21 anni, il massimo previsto. Non erano passati due giorni dalla cattura, che il prigioniero cominciò a lamentarsi del trattamento carcerario. Non aveva la sua crema idratante, per esempio, e non capiva come mai, poiché era abituato a quattro fette di pane per colazione, gli dessero burro soltanto per tre... Il processo per “disumanità” intentato da Breivik contro la Norvegia si è concluso pochi giorni fa. Il giudice gli ha dato ragione. Lui, in udienza, aveva fatto il saluto nazista.
Prima di morire, i ragazzi hanno davvero visto le campanule?
«Sì. Ho fatto un sopralluogo a Utøya, con la sorellina di una vittima: era lì anche lei, ma è sopravvissuta. Ci siamo sdraiate esattamente dove la sorella fu colpita, per avere il suo punto di vista. Da quella posizione poteva vederle».
Un male talmente grande – alcuni ragazzi morirono con i polmoni distrutti dall’iperventilazione provocata dal terrore – e un diavolo così banale. Poiché gli era stato vietato di indossare l’uniforme, Anders Breivik si lagnò perché, per la deposizione, potesse almeno indossare la sua polo preferita, rossa. Che ora l’aspetta, sicuramente stirata, nel magazzino del carcere.