Francesco Merlo, GQ 5-6/2016, 12 maggio 2016
IL FILM CHE NESSUNO VEDR
[Pietro Valsecchi]
La sera, a casa di Pietro arriva Checco («Mi chiamo Luca»), che è timido, goffo e simpaticissimo. Pietro tiene in casa un pianoforte Fazioli («È migliore dello Steinway»), e Zalone, che si sente soprattutto un musicista, non resiste e suona. E canta Samba a culu piattu e Uomini sessuali, mentre il suo amico produttore muove la bocca: «Perché è vero, l’amicizia è cantare insieme la stessa canzone».
Valsecchi canterebbe solo Battisti, che «è l’atto mancato, il film che la signora Battisti, all’ultimo momento, bloccò. Si intitolava Il mio canto libero. Lucio era Claudio Santamaria. Il soggetto era straordinario». Ecco: Il film che nessuno vedrà potrebbe essere il titolo di un film sul film, alla Truffaut. «La vedova non permetterebbe neppure quello». Toglie i filmati da YouTube. «E regolarmente qualcun altro li rimette».
Raccontare gli eroi dell’attualità significa anche affrontare il familismo? «Parenti, sorelle e figli, che hanno un punto di vista spesso troppo ravvicinato, custodiscono la presunta verità. Per fortuna non tutti: Umberto Ambrosoli mise il cappotto del padre sulle spalle di Fabrizio Bentivoglio». E il pasticcio del cognome? «Sembrerebbe ovvio dire che Battisti è di tutti, perché gli artisti appartengono a tutti. Ma...». Anche Zalone è di tutti? «È il grande comico sul quale, come al solito, si è accanito il dibattito». La derisione del comico di successo è l’anticamera della sua santificazione? «Fu così per Totò e per Sordi. La critica italiana ha paura del botteghino». Tu però hai cominciato con Bellocchio: «Persi 600 milioni». Hai imparato da lui come non perderli? «Ho imparato a non fidarmi. Di natura, infatti, io mi farei ancora fregare. E poiché lavoro in un mondo dove ci sono persone che davvero hanno bisogno, cedo facilmente...». Sei nato povero e orfano. «Mia madre morì che avevo dieci anni e mio padre era un invalido di guerra, fuggito da Dachau. La mia infanzia a Crema è l’albero degli zoccoli: vitelli, pollai, terra bagnata». E la nebbia? «E il mio paesaggio, anche sentimentale. Una volta per la nebbia sbagliai bocca e baciai un’altra. Fu la mia fortuna». La nebbia per noi del Sud era lo sviluppo, l’industria. «Capisco: il sole accecante era il sottosviluppo e la nuvola inquinata la modernità. Zalone ci farebbe un film».
Sono più simpatici quelli che rifiutano Zalone o quelli che se lo annettono? «Si somigliano. Entrambi ne alimentano la grandezza». Zalone ride dell’impegno e tu hai cominciato con il Teatro Zero, «e poi con Dario Fo, il teatro nelle fabbriche, “la rivoluzione s’ha da fare / con la guerra popolare”, scemenze d’epoca». È dunque te che irride? «E mi piace. Pensa che nel 1973 andai in Iran e in Afghanistan. Guarda la foto: quel guerrigliero sono io. E ancora oggi faccio il cinema impegnato, colleziono arte, do lavoro agli intellettuali...». E però siete diventati amici e bisogna vedervi insieme per capire che Zalone è la maschera naturale che, con il corpo e la gestualità, si è impadronita, come Totò, dell’immaginario degli italiani, mentre tu sei la commedia, il dissipatore, l’uomo dell’azzardo, una specie di Gassman del Sorpasso, ma nato a Crema. «Io, che sono dispotico e testone, nel lavoro di Zalone non metto bocca. Ma nella vita facciamo tante cose insieme». E però ti piace alimentare il dibattito sulla risata. «Fa parte della strategia della confusione o, più propriamente, della complessità. È dunque un bene che Zalone, come tutti gli artisti, abbia una verità cangiante. C’è chi lo tratta come la liberazione degli italiani dal complesso dell’intellettuale, chi vede in lui un’epoca e chi una paura, addirittura un modello negativo che spiegherebbe non so quali fenomeni moderni... Il dibattito sulla risata è forse lunatico, ma il riso è una faccenda seria come diceva Umberto Eco, che è stato mio insegnante al Dams di Bologna».
Cosa ti ha insegnato? «Con il senno di poi, l’importanza della tv, che non mi piaceva. Fu mia moglie a insistere e ora, nel mio piccolo, sono fiero di avere portato in tv la fiction civile, Il capo dei capi, Borsellino, Ambrosoli, Maria Montessori, Aldo Moro, Karol – Un uomo diventato papa su Wojtyla... E la cronaca nera, che è stata la fonte di ispirazione di Balzac, Simenon, Truman Capote, dei grandi americani. In Italia, dove non ci sono grandi narratori, per fortuna la cronaca è già romanzo». Hai prodotto anche Non essere cattivo di Claudio Caligari e il film su Papa Francesco. «Mi infilo nelle passioni della gente, che si ritrova e si identifica». Una volta c’era Liala che faceva sognare l’Italia popolare con i suoi tenentini, ora ci sono gli eroi civili e religiosi: «C’è un miglioramento nella qualità della retorica, anche se non abbiamo ancora la perfezione narrativa delle fiction americane che non hanno bisogno di ricorrere alla morale. Persino un cartoon come i Simpson è sapienza civile e grande narrazione». Ci arriverai mai? «Ci arriveranno i miei figli». I figli, in genere, distruggono quel che i padri costruiscono: «Non lavorano con me. Virginia si è laureata e scrive per la televisione. Filippo sta studiando in Inghilterra economia aziendale». È quello che ha scoperto Zalone. «Mi disse: papà, se produci un film con questo comico di Zelig, fai il botto».
Di’ la verità, da quando hai venduto la Taodue a Mediaset, non ti senti un po’ ospite a casa tua? «Sono l’amministratore. Nessuno mette bocca nel mio lavoro. Ma è vero che prima o poi farò qualcos’altro». Che cosa stai preparando? «Quattro puntate su Buscetta». Vedo sul tavolo decine di libri sulla mafia: è una malattia? «I cattivi sono letteratura. Pensa a Lady Macbeth con le mani insanguinate. E ai gangster. I cattivi italiani sono i mafiosi». Quando hai capito che ce l’avevi fatta? «Non sono ancora sicuro di avercela fatta, ma l’ho pensato una sera a Crema, quando mi hanno intervistato nei locali dell’ex Cinema Nuovo. Lì era nata la mia passione: quando la folla premeva per entrare io aiutavo il padrone a trattenere la gente». Come? «Con le braccia tese, con le mani, con il corpo. Mi guadagnavo il biglietto per vedere James Bond la domenica. Poi cominciai a mettere le pizze». È vero che tratti male tutti? «È vero che litigo». Sul set? «Sono ingombrante e non vado». Soggetto e montaggio? «I soggetti li scrivo io. E i montaggi li facciamo bisticciando. Alla fine funziona». Dicono che telefoni alle 6 del mattino e ti metti a gridare. «Fare scenate è un altro modo di volersi bene. Quando mi feriscono davvero, io sto zitto». E cosa ti ferisce? «L’amico che mi tradisce». Chi ti calma? «Mia moglie, che non è solo la più bella donna di Roma. È discreta e saggia. La parte sana dell’azienda e della famiglia».
La famosa casa romana di Valsecchi è all’ultimo piano di un magnifico palazzo patrizio con due terrazze incantevoli. «So che a Roma la terrazza è il peccato del Potere che si riunisce nell’aria rarefatta del mezzo cielo. È una simbologia felliniana che non so quanto sia ancora vera. In realtà le mie sono solo terrazze». I corridoi espongono le opere d’arte che Valsecchi colleziona. C’è una statua del Canova, e all’ingresso un dipinto di Gentileschi, poi complicate installazioni contemporanee: «L’ospitalità è anche radunare gente attorno a queste opere e discutere, stimolare la creatività. L’arte fa ragionare». Valsecchi è un paperone generoso, che è un ossimoro, e spesso le sue feste sono raccontate sia su Vogue sia su Dagospia, che è un altro ossimoro: la raffinatezza e il cafonal. «Dicono che all’origine di tutto c’è mia moglie, che già produceva film quando io facevo l’attore impegnato e squattrinato. È vero, ma quando ci siamo messi insieme io avevo già prodotto il film di Bellocchio».
All’inizio sembrava che lui l’avesse presa prigioniera con qualche misterioso incantamento. Poi invece è esploso il suo talento e oggi la signora Camilla Nesbitt, che è naturalmente elegante, governa gli eccessi del marito, che è naturalmente ruvido, ma fa prove di eleganza. Lei è d’antica famiglia, lui è uomo di popolo. Lei è il silenzio intelligente e lui la chiacchiera creativa. Lei sorride e lui ride. Lei è il blasone e lui le scarpe grosse. Lei non si trucca mai, lui spesso recita con la sua bella voce impostata. Insieme sono la borsa e la vita del cinema italiano.
«La ricchezza», dice, «è sapere che la mattina una barca va in mare a pescare per te». Si vanta di essere «più un cuoco che un produttore» e di mangiare «esemplari di specie preziose». Gli ricordo che Sordi diceva che “la felicità è ’na sarsiccetta quando ce vo’”. Parliamo allora dei ricci «ma d’alto mare», del tonno «che deve essere piccolo». Nella disputa tra carne e pesce, Valsecchi sta con Gesù «che moltiplicò pani e pesci e non pani e costolette». Sei credente? «Sono cattolico, ma non credo. A meno che Dio non sia Energia, la Forza di Guerre stellari, quella che presto mi farà ricominciare tutto daccapo: un’altra vita». Il cuoco? «Lo faccio già». Il collezionista d’arte? «Lo faccio già». Lo scrittore? «Lo faccio già. Ho scritto il primo romanzo e ne sto preparando altri due». L’agente immobiliare? «Anche quello...». Per spiegarmi il pasticcio di un poeta ingenuo che comprerebbe casa su Marte, Valsecchi mi racconta, «in confidenza, fuori dall’intervista», del suo rapporto con il danaro, di quel tal banchiere che «un giorno venne e mi propose investimenti mirabolanti e, insomma, mi intonò. E siccome io coinvolgo tutti quelli che mi stanno attorno, misi dentro “l’affare” mia sorella e un amico. Ci rimasi malissimo, ma per loro. E da allora mia moglie, senza dir nulla, mi ha... commissariato».