Giuliano, Vanity Fair, 11/5/2016, 11 maggio 2016
QUATTRO PASSI SU MARTE
Anche se la gravità è un terzo di quella della Terra, ogni passo su questo pianeta è pesante, come avere addosso tutto il mondo.
Chiudendo gli occhi, a Cyprien sembra di sentire il vento tra i capelli e il calore del sole sulla pelle. Ma la voce metallica del comandante Johnston rimbomba nel casco richiamandolo al presente, e il suo sguardo sbatte contro il deserto che lo circonda. Polvere rossa, freddo e vento che, per quel che ne sa, può viaggiare alla velocità del suono. Perché lui e i suoi cinque compagni vivono dentro una bolla: 257 giorni senza l’aria del cielo, senza il profumo di una torta appena sfornata, senza fare l’amore.
«Da piccolo amavo spingermi nel buio per esplorare l’ignoto. Sognavo di fare lo scienziato o l’astronauta», mi racconta Cyprien Verseux, 25 anni, biologo, in uno dei video-messaggi che ci scambiamo ogni giorno. «Ma oggi che le mie fantasie sono diventate realtà, rifletto sul senso della vita, consapevole che ogni mio gesto potrebbe cambiare il destino dell’umanità».
Cyprien è parte della Hi-Seas, una squadra di sei astronauti della Nasa che per un anno, sino a fine agosto, simulano la vita su Marte. Sono tre americani, un francese, un inglese e un tedesco, giovanissimi, a cominciare dal comandante Carmel Johnston, una ragazza del Montana di appena 27 anni, e tutti con un curriculum accademico al limite del genio. Trascorrono un anno dentro una cupola bianca piantata sulla cima del vulcano Mauna Loa, nell’Isola Grande delle Hawaii, in mezzo a un groviglio di rocce che è, sulla Terra, il «cugino» del Pianeta Rosso. Undici metri di diametro, sei camere grandi come cuccette di un treno, un laboratorio e una porta pneumatica a tenuta stagna.
Escono solo un paio di volte alla settimana, per le missioni esplorative Eva (Extra Vehicular Activities), sempre indossando la tuta spaziale. Oggi sembra un gioco, ma in un tempo molto vicino, quando vivremo su Marte, la temperatura esterna arriverà a -140 gradi, non ci saranno né ossigeno né atmosfera, e senza quella tuta a farci sopravvivere il nostro corpo esploderà nel giro di quindici secondi.
«Hai mai provato a trascorrere un intero fine settimana in casa? Ecco, immagina di passarci un anno, con le stesse cinque persone», mi dice Cyprien cercando di spiegarmi la sua vita. «Ci sono cose che, fuori da qui, nessuno potrebbe capire», aggiunge il comandante Johnston. «Per questo le lasceremo sotto questa cupola bianca, nel mezzo del deserto».
Le loro giornate sono piene di esperimenti scientifici, per quindici ore ogni giorno. Ma quando l’angoscia dell’isolamento inizia a mordere anche il silenzio, allora si pedala veloci con una bicicletta sul tapis roulant. O si indossa un visore per tornare, almeno virtualmente, a camminare sulla Terra.
«Ogni cosa semplice smette di essere scontata quassù», continua il comandante. L’acqua su Marte sarà un bene prezioso e così, su Hi-Seas, per fare la doccia hanno sessanta secondi: pazienza se il getto è freddo. Per cucinare, invece, basta il tempo di una polvere che si scioglie nell’acqua: «Sarà impossibile portare lassù cibo fresco. Non si manterrebbe, e costerebbe troppo».
Nel bagaglio, gli astronauti hanno messo solo qualche foto di famiglia, una bandiera del loro Paese e cibo liofilizzato col sapore di ogni cosa. «Per colonizzare Marte dovremo generare la vita dal deserto più ostile che l’uomo abbia mai conosciuto», dice Cyprien avvicinando con orgoglio alla webcam una provetta con un liquido verde. «Sono batteri che trasformeranno in sostanze nutritive le poche risorse e i gas presenti su Marte. Grazie a loro produrremo ossigeno e carburante, e inizieremo a coltivare gli orti marziani».
Questi ragazzi sono spinti dallo stesso vento che gonfiava le vele delle caravelle più di cinquecento anni fa. Conoscono il rischio che corrono, ma credono che il successo della missione spaziale sarà una vittoria per l’intera umanità. Sheyna, sei lauree e medico dell’equipaggio, mi spiega che «ciascun essere umano, ogni giorno, salva il mondo», e questo è lo spirito che li tiene uniti sui terreni aspri della conquista: «Il sacrificio a cui la ricerca spaziale ci costringe sarà un bene anche per la nostra vecchia Terra. Vivere in un ambiente ostile come quello marziano significa scoprire come rinascere dai deserti terreni».
I video-messaggi che ho scambiato con gli astronauti su Marte hanno il sapore degli antichi dispacci scambiati tra ambasciatori, che nelle loro tute bianche oggi sono diventati emissari dell’intera umanità. Osservandoli, non so se prevalga l’entusiasmo per la curiosità che li spinge a esplorare o la sensazione di terribile precarietà che si prova nel vederli piccoli, come ogni uomo, nel cosmo senza confini.
Ma quei venti minuti «in differita» che trascorrono tra le mie domande e le loro risposte – la simulazione del tempo luce che ci separa da Marte – raccontano di una distanza troppo grande per non far paura. Lo sa bene Cyprien, che quando gli attacchi terroristici colpirono la sua Parigi e i suoi amici si trovava su un altro pianeta e, per la prima volta dopo cento giorni di missione, sentiva la mancanza di Internet, di una voce amica, di un abbraccio.
«Per raggiungere Marte ci vorranno sette mesi di viaggio e, quando si arriverà lassù, ci sarà molto lavoro da fare», spiega il comandante, che lascia anche intendere la sua titubanza davanti alla possibilità di essere una delle pioniere.
Il problema principale che resta sull’eventuale colonizzazione di Marte riguarda le condizioni nelle quali arriveranno lassù gli astronauti. «Se non riusciremo a generare artificialmente la gravità durante il viaggio, rischiamo di arrivare fisicamente provati», spiega il dottor Sheyna. «E, anche se avremo risolto questo problema, nessuno può dire come corpo e mente si comporteranno lassù».
Il sogno di Cyprien bambino, dove l’uomo vive una dimensione multi-planetaria, sarà probabilmente la storia che segnerà la nostra generazione, forse già dal 2020. Ma il Cyprien grande ora sogna solo di indossare un paio di sneakers e correre nella natura. Mentre nell’oblò della cupola bianca, sul paesaggio pseudomarziano, passa in volo un falco, a ricordarci che la gravità ancora ci tiene con i piedi a terra.