Valentina Colosimo, Vanity Fair 11/5/2016, 11 maggio 2016
INTERVISTA A CAPOSSELA – Fuori dallo studio, due anonime vetrate verdi che affacciano sulla strada, di fronte a una sala giochi e a un negozio di alimentari arabo, nel quartiere meticcio vicino alla Stazione Centrale di Milano, vive Salvatore, che dal suo pezzo di marciapiede chiede soldi, ma più che altro ai passanti racconta storie sgangherate con protagonisti poliziotti e umanità varia
INTERVISTA A CAPOSSELA – Fuori dallo studio, due anonime vetrate verdi che affacciano sulla strada, di fronte a una sala giochi e a un negozio di alimentari arabo, nel quartiere meticcio vicino alla Stazione Centrale di Milano, vive Salvatore, che dal suo pezzo di marciapiede chiede soldi, ma più che altro ai passanti racconta storie sgangherate con protagonisti poliziotti e umanità varia. Vinicio Capossela arriva a passo svelto e, come ogni giorno, scambia qualche battuta con lui, con cui spesso cena. Al di là delle vetrate, si apre il mondo di Vinicio. Si chiama La Cupa e ti accoglie con una stanza-ufficio piena di cappelli pelosi, quadri, tastiere, maschere di legno, una bicicletta, una libreria con quattro edizioni di Moby Dick, mischiate a decine di libri sui canti popolari, Buzzati, Gianni Mura, la Bibbia, Catozzella, Yourcenar. Superato un sipario rosso, e prima del piccolo bar in stile rétro, si entra nello studio di registrazione, con un grande pianoforte al centro, un organo, una tastiera, due xilofoni, sette chitarre, due mandolini, due trombe, tre fisarmoniche, un megafono, una moltitudine di tamburi. Qua ha registrato Canzoni della Cupa, doppio album frutto di 13 anni di lavoro e fatto di racconti ispirati al folklore dell’Irpinia, la terra da cui viene la sua famiglia. Vinicio si siede su una poltroncina vintage di pelle color verde mela e attacca a parlare. Timidissimo, per quasi tutto il tempo dell’intervista, punteggiata da lunghe pause e digressioni, fissa un punto davanti a sé mentre sorseggia una birra artigianale. C’è una canzone in questo album che si intitola Il Pumminale e racconta il mito del licantropo. C’è qualcosa di lei? «È l’unico pezzo che parla di me. Di notte il pumminale, quando è preda dei suoi attacchi, ha l’istinto di andarsi a sporcare, si rotola nel fango in cerca di refrigerio. Vuole sbranare, si butta in incontri di meretricio clandestino. Rappresenta gli istinti bestiali dell’uomo, il rapporto che si ha col proprio demone. Canto: “Se hai un demone dagli un nome, battezzalo e fallo compare”. Perché nel momento in cui facciamo pace con il nostro demone, ci accettiamo come uomini». Il suo demone qual è? «Ne ho diversi: i demoni della ferinità, della voracità, della clandestinità. Il demone ha bisogno di un travestimento, teme la verità». Non è chiarissimo. «Il demone deve essere nascosto (ride)». Il licantropo vive in solitudine. Anche il musicista? «Concedersi alle proprie muse o ai propri demoni, requisito indispensabile per la scrittura, è un’attività che rende socialmente anticonvenzionali. Si fa fatica a prendere impegni, rispettare orari, avere una vita realmente condivisibile. In più abbandonarsi alla proprie voci interiori è una cosa così appagante che è difficile tornare indietro. Come nel mito delle Sirene: il viaggiatore ascolta il loro canto incessante e smette di mangiare e di bere, si lascia morire. È un rischio». Le è mai successo? «Ah sì, naturalmente (ride)». La cosa creerà problemi anche nella vita sentimentale, immagino. «In effetti, è assolutamente problematico (ride)». Come si fa a stare con Vinicio? «Ah be’, si lascia perdere… (ride). Nel senso che bisogna dare lenza. L’amore è la nostra piccola ambizione di eternità, che però è una dimensione che appartiene a Dio, non agli esseri umani. Probabilmente l’amore è possibile solo a patto di concedersi libertà, di essere disposti a perdere». Lei ha trovato questa dimensione di libertà? «Non è perenne, si trova di momento in momento». Questo luogo che cosa dice di lei? «È ispirato alla storia di Polifemo, che ha bisogno di una grotta per esprimere la sua natura di ciclope. E ho scelto questo quartiere perché mi ha sempre affascinato. Quando mi sono insediato qua ho fatto come Harvey Keitel in Smoke: per un anno intero ho fotografato tutte le mattine lo stesso angolo. Vedevo arrivare questi pullman pieni di giapponesi e la notte decine di esistenze munite di carrelli che restano impigliate in questo reticolo di strade, gente che cammina sospinta verso il grande magnete della Stazione Centrale». Che cosa ha fatto poi di quelle foto? «Assolutamente niente. È la conquista dell’inutile (ride)». Ne ha fatte molte di queste conquiste? «In realtà sono abbastanza costruttivo. Non mi basta fare una foto, devo farne centinaia. Così come questo disco: ci ho lavorato per 13 anni». È un lavoro sulle radici, sulla tradizione popolare dell’Irpinia. «I miei genitori hanno preso il treno tanti anni fa (negli anni ’60 sono emigrati in Germania, dove è nato Vinicio, ndr) portandosi dietro questa zolla intrisa di racconti. Ho cercato di tradurre le storie in canzoni». Che cosa le ha lasciato questa storia di emigrazione? «Ci si abitua da subito a cercare casa dentro di sé, più che fuori. C’è un concetto che mi piace molto, quello di heimat: in tedesco non è, come si pensa, la patria nel senso nazionalistico; è solo qualcosa in cui ti senti a casa». Qual è la sua heimat? «Il suono del pianoforte. E poi la lingua. La cosa che mi distrugge quando finisce una relazione d’amore è perdere, appunto, questa lingua condivisa. È quella la mia casa». Una casa di mattoni invece l’ha comprata? «No, non ci sono mai riuscito… vivo in affitto. Però ho comprato diversi uffici dove posso riporre gli strumenti. L’ho fatto per loro». Ha da poco subito un intervento alle corde vocali. Ha avuto paura di non poter più cantare? «È stata un’esperienza particolare. Dopo l’intervento sono dovuto stare due settimane in silenzio assoluto. Tantissime Sirene...». Com’era da bambino? (Fa una lunghissima pausa) «Bambino per me vuol dire prima elementare (ride). Facevo fatica a concentrarmi. Mi ricordo la prima volta che mancai al mio dovere: a scuola, per tutta la mattina, non seguii la lezione, il tempo passò come un sogno senza che facessi niente. Tornato a casa, avevo la sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato e mia madre, non so come, se ne accorse. Mi tirò due ceffoni straordinari. In quel momento realizzai che c’era una parte di me che tendeva alla clandestinità, all’ammutinamento. Non faceva niente di orrendo ma era lì, esisteva. Nella mia classe c’era Spessotto che era sempre in disordine e non faceva mai i compiti; e poi c’era Davide, il migliore. Io non ero veramente uno Spessotto, ma neanche un Davide: stavo lì in mezzo, nella zona d’ombra. Di certo non ero tra quelli che di fronte al Signore avevano la fedina pulita». Si sente ancora così? «Ah sì, è la sensazione più durevole della mia vita». Perché non si sente «dalla parte giusta»? «Perché non sono fatto per essere investito dalla luce. Ma nello stesso tempo le mie ombre mi salvano dall’oscurità completa». E la luce del successo e della popolarità? «Mi interessa di più il lavoro. Quello che faccio non ha tanto a che fare con la ricerca effimera del successo. È un modo di ordinare le cose nella mia vita». Che cosa sarebbe oggi se non avesse fatto il musicista? «Vediamo: avevo studiato chimica, perché nei film mi piaceva la figura dello scienziato. Poi, all’università Economia a indirizzo politico, volevo diventare un economista al servizio del sindacato». Ha mai avuto un lavoro normale? «Ah sì, da giovane ho fatto il barman in una discoteca di Riccione. Avrebbe potuto anche durare». Era bravo a fare i cocktail? «Non ce n’era bisogno, era una discoteca di ragazzini. Però capii che era importante come ti presentavi. Io per prima cosa mi presi una giacchetta bianca e un papillon. Se fai credere di saper fare una cosa, la gente amerà i tuoi cocktail». Dalla giacchetta bianca a questo look «viniciano», questi cappelli pelosi… «Ligabue, il pittore, si faceva delle grosse ferite in testa per far uscire i cattivi pensieri. Io invece ai miei cattivi pensieri ci sono affezionato e li tengo lì, trattenuti dal cappello. Di recente ho fatto restaurare i miei cappelli e, quando li ho visti tutti in fila, mi sono emozionato: ognuno rappresenta una stagione della mia vita». La stagione dei figli arriverà mai? «Il mio amico poeta Vincenzo Costantino “Cinaski” dice: “Se fossi sicuro di avere una femmina, farei subito un figlio. Ma pensa se mi viene un maschio… non potrei sopportarlo” (ride). Non so perché. Comunque devo riconoscere che finora ho sempre preferito essere figlio che padre. E forse è così che funziona: c’è chi nasce per essere padre e chi per essere figlio». Lei è nato per essere figlio? «Per ora».