Zigor Aldama, D - la Repubblica 7/5/2016, 7 maggio 2016
ORO. LA GUERRA DEI NINJA
Anche se ci fosse (ma non c’è) un termometro non riuscirebbe a dar conto del freddo che fa a Zaamar, perché a 40 gradi sono zero congela pure il mercurio. Ma poco importa perché, indipendentemente dalla temperatura, i ninja della Mongolia non riposano mai.
È così che vengono chiamati qui i minatori illegali, che in gran numero girano con attrezzature rudimentali bucherellando la steppa alla ricerca della sua risorsa minerale più pregiata: l’oro. Secondo diversi studi, fino a 300mila persone (più o meno il 10% della popolazione che vive in questo territorio grande cinque volte l’Italia) prima o poi hanno avuto a che fare con la ricerca del prezioso metallo. E oggi il Governo di Ulan Bator stima che circa 100mila ricercatori ne estraggono ogni anno, in forma illegale, fino a cinque tonnellate.
Ganzorig è uno di loro: è impegnato a scavare un buco nella terra gelata e risponde quasi unicamente a monosillabi. «Finora non è stata una buona giornata», dice mentre passa un cubo di terra a un compagno perché setacci alla ricerca di pepite dorate. «Ma è meglio questo che commerciare bestiame». E Ganzorig sa di cosa parla, perché fino a due anni fa era uno dei nomadi che popolano il Nordest del Paese. Perse quasi tutti gli animali durante il crudo inverno del 2010: decise così di vendere quelli che restavano e dar retta a un amico che già faceva il ninja.
«L’importante è riuscire a sfamare la mia famiglia», aggiunge. E indubbiamente l’oro gli permette di condurre una vita dignitosa. «Un grammo è quotato 55mila tugrik (26 euro), e questo significa che in una giornata di lavoro riusciamo a guadagnare anche fino a 100mila tugrik (47 euro)», racconta una volta uscito dalla buca, mentre fuma in fretta una sigaretta. Non può rilassarsi troppo, perché Khurlee potrebbe arrivare da un momento all’altro con la sua Land Cruiser metallizzata.
Khurlee, un uomo muscoloso che va in giro con un paio di occhiali da sole che non toglie mai, è uno dei mercenari assunti da una grande compagnia mineraria mongola per spaventare i cercatori d’oro. «Scavano in terreni privati e non hanno l’autorizzazione per farlo», racconta. Vestito con una tuta mimetica, avvisa del suo arrivo con un lampeggiante rosso sul tetto e la sirena tipica delle macchine della polizia. Consapevole della presenza di un giornalista, si mostra amabile e usa toni gentili per intimare al gruppo di Ganzorig di andarsene. Amgelan Damdinragehaa, però, ci assicura che le cose non vanno sempre così lisce. «Molte volte finiscono per fare a botte e c’è perfino scappato il morto: oltre alle guardie private, anche la polizia arriva a usare le armi da fuoco per cacciare i cercatori d’oro».
Amgelan è il presidente di una piccola associazione di minatori artigianali, un tipo di organizzazione che il Governo ha deciso di legalizzare alla fine del 2013 per ridurre il numero dei ninja e consentire alla popolazione di beneficiare legalmente dello sfruttamento di una risorsa nazionale. Neanche lui, quindi, difende il lavoro che fanno i ninja: anzi, pur essendo stato uno di loro fino a pochi anni fa, li combatte. «Prima, nella zona, eravamo arrivati ad avere 10mila minatori illegali, ora sono solo 3mila: gli altri si sono messi insieme e hanno creato questa associazione, che ci consente di disporre di più strumenti, avere più forza contrattuale per trattare sul prezzo e vendere l’oro direttamente alla Banca di Mongolia».
Damdinragehaa sostiene che i ninja causano due problemi seri: uno ambientale, «perché non riparano il danno che fanno all’ambiente scavando centinaia di buche», e uno economico, «perché non pagano le tasse e vendono l’oro a intermediari stranieri». Ganbold è la prova dell’esattezza delle affermazioni di Damdinragehaa. Questo 60enne ben piazzato lavora come ninja insieme a sua moglie, Tungalatamir, nel vicino villaggio di Khailaast, sfruttando la terra scartata da una miniera a cielo aperto per trovare pepite d’oro. Ganbold e Tungalatamir non scavano, si limitano a trasportare con un camion la terra e “ripulirla” vicino a un laghetto, usando una tramoggia e acqua sotto pressione. Dal momento che l’oro è il materiale più pesante, alla fine del processo si deposita sul fondo e può essere raccolto con un secchio. Però servono parecchie tonnellate di materia prima per trovare, quando sono fortunati, un paio di pepite che vanno a vendere di sera in un negozietto del villaggio. La procedura è semplice: l’impiegata tira fuori da sotto al bancone una piccola bilancia, certifica il peso in grammi e li paga sull’unghia. Una persona fidata porterà il metallo prezioso fino a Ulan Bator per venderlo a intermediari che piazzeranno sul mercato internazionale. «Ma vengono qui direttamente anche molti compratori che vogliono risparmiarsi il costo degli intermediari: sono soprattutto cinesi e russi, che poi portano l’oro in Europa», commenta la direttrice del negozio.
Il problema di questo sistema, sottolinea Tuya Damdinjats, è che incentiva la spoliazione delle materie prime del Paese. Tuya é la donna a capo dell’Unione Duush Mandal Khairkhan, un’associazione di minatori artigianali creata da 300 ex ninja nel villaggio di Zhuunkharaa, 200 chilometri a sud di Khailaast. «Noi evitiamo che l’oro esca dal Paese e abbiamo cura dell’ambiente», racconta mentre ci indica il piccolo edificio dove si utilizzano prodotti chimici per lavorare la pietra e ricavare l’oro. «Cerchiamo di inquinare il meno possibile e abbiamo un programma con l’Asia Foundation per riciclare la terra in impianti che abbiamo costruito appositamente».
L’organizzazione è riuscita anche a migliorare la produzione dotandosi delle tecnologie più avanzate, che consentono di perforare la montagna fino a 60 metri di profondità. Un’altra tappa fondamentale ha riguardato le condizioni lavorative dei soci: «Ognuno paga 53mila tugrik (25 euro) di imposte al mese e ha garantito un salario minimo di mezzo milione (240 euro) e un’assicurazione sanitaria. Inoltre, gode di dieci giorni di vacanza dopo un mese consecutivo di lavoro», enumera Tuya. È una formula fantastica per «professionalizzare i ninja, contribuire all’economia del Paese ed evitare incidenti sul lavoro», sottolinea.
Si fa fatica a credere a quest’ultima promessa, vedendo come lavorano i suoi minatori sulla montagna di Noyod: dentro una tradizionale yurta mongola, tre uomini e due bambini in vacanza da scuola preparano a mano, qualcuno addirittura con la sigaretta in bocca, i candelotti di dinamite che utilizzeranno per avanzare nella galleria che stanno aprendo. Ogni giorno tirano fuori 20 sacchi di pietre, che spediscono a Zhuunkharaa perché vengano lavorati nell’impianto. «Lavorando come ninja si guadagna di più, ma è pericoloso e illegale», commenta Uuganbayar, un veterano. «Contribuiamo allo sviluppo della regione: molte famiglie, prima povere, ora se la passano meglio». Nella veste di presidente dell’Associazione delle industrie minerarie mongole, che rappresenta le grandi multinazionali attive nel Paese e in particolare la Rio Tinto, D. Enkhbold non è d’accordo. E infatti combatte tanto i ninja quanto le associazioni di minatori artigianali, con convinzione. «Nel caso dei ninja è evidente che non sono soggetti a nessuna regolamentazione e sono particolarmente nocivi. Ma il problema con le associazioni sta nella scarsa trasparenza con cui lavorano, nella mancanza di strumenti di controllo e nel fatto che godono di ingiusti vantaggi fiscali». Enkhbold assicura che «le compagnie minerarie più sono grandi più apportano benefici in termini di posti di lavoro, tasse o royalties e tutela dell’ambiente».
Con posizioni così contrapposte, la guerra per l’oro si prospetta lunga e cruenta. La torta in gioco fa gola: il settore minerario, che la Mongolia ha fortemente sfruttato da quando ha abbandonato il comunismo negli anni ’90, rappresenta il 20% del Pil e apporta il 70% della crescita economica nazionale. Si calcola che le riserve di minerali raggiungano i 1000 miliardi di dollari, tanto che la nazione ha il nomignolo Minagolia.Tuttavia, la caduta del prezzo delle materie prime ha rallentato il tasso di incremento del Pil rispetto al 2011, quando toccò il record del 17,5% facendo della Mongolia il Paese in più forte espansione economica del pianeta. L’anno scorso il Pil è cresciuto del 2,3%.
«Il problema è che il denaro resta nelle mani di pochi e le differenze sociali esplodono. Sempre meno persone vivono nella miseria, ma il divario con i ricchi è sempre più grande», critica Tuya, che è anche sindaco di Zhuunkharaa. «L’oro, come il resto dei minerali preziosi, dev’essere sfruttato per creare più opportunità occupazionali per i giovani attraverso l’istruzione, in modo da ridurre la dipendenza dall’industria mineraria. E bisogna anche fare in modo che gli stranieri non portino via le nostre materie prime. È ovvio che chi compra un anello a Pechino o a Milano non ha la minima idea di cosa c’è dietro».
(Traduzione di Fabio Galimberti)