Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 10 Martedì calendario

FIGLI? NO, GRAZIE


Per raccontare l’universo delle donne senza figli hanno scelto un nome in lingua sarda, Lunàdigas, lunatiche: è così che i pastori definiscono le pecore che non figliano, animali non necessariamente sterili, ma che si rifiutano di procreare. «Cercavamo un termine che non contenesse negazioni – spiegano le autrici di Lunàdigas, Nicoletta Nesler e Marilisa Piga – per trasmettere l’idea che essere senza figli non significa essere “senza” qualcosa, ma essere in un altro modo». Un’esperienza vissuta dalle due autrici, entrambe documentariste, che dal 2008 hanno cominciato a costruire quello che oggi è un ricco «web doc» (visitabile su webdoc.lunadigas.com) che continua a crescere. «Possiamo dire che questo sito è un po’ la nostra eredità: presto diventerà un documentario», spiegano le autrici. In realtà Lunàdigas era nato proprio come documentario, e ha cambiato volto in corsa a causa della quantità di materiale disponibile – «centinaia di ore, non sappiamo quante, ci siamo rifiutate di contarle» – ora organizzato in una città virtuale in cui i diversi temi si declinano in edifici-contenitori (una stazione, un caffè, un museo) cui si accede per seguire le videointerviste, leggere i testi e consultare i dati.
«Questa ricchezza di contributi ci ha trovato un po’ impreparate», spiegano le autrici. «Tanto più che all’inizio molti ci avevano scoraggiato. Alcune conoscenti cui ci eravamo rivolte per una testimonianza ci hanno detto “scordatevelo”, o sono rimaste sconcertate». Poi le testimonianze hanno cominciato a moltiplicarsi: «Abbiamo avuto una conferma torrenziale, inaspettatamente le donne hanno cominciato a esprimersi», ricorda Piga. «Ci siamo rese conto che il tema era davvero importante, una zona poco illuminata dell’esistenza femminile che avremmo dovuto approfondire, rendere universale e politica. Sono arrivate così le confidenze, le parole sorprendenti, i temi inaspettati».
Declinati in forme diverse, dalle testimonianze di personaggi famosi a quello delle tante donne che hanno scelto di raccontare la loro storia a qualche voce maschile. Ci sono anche incontri a più voci, resoconti di dibattiti nati proprio per discutere di questo progetto e contributi che arrivano da personalità femminili del passato, da Rosa Luxemburg a Camille Claudel, riproposte attraverso una serie di monologhi impossibili.

Una donna su quattro

Modi diversi per parlare di quello che, come spiega Marilisa Piga, «è comunque una forma di diversità, una rinuncia a quello che per secoli è stato il simbolo femminile per eccellenza». Una diversità che ancora oggi crea problemi a molte donne, «anche se stiamo notando che da quando si è cominciato a parlare di questi temi l’atteggiamento è un po’ cambiato», osservano le autrici. «Ci siamo rese conto che si sta cominciando a sollevare il velo di diffidenza, anche se in certi strati della popolazione è ancora presente, e che parlare della scelta di non avere figli adesso è meno difficile anche per le persone comuni». Anche se è ancora forte la tentazione di attribuire il calo delle nascite a problemi sociali ed economici. «Dimenticando che le ragioni per non fare figli sono molte e svariate, cambiano da persona a persona», spiegano Piga e Nesler. «I problemi socioeconomici hanno un ruolo anche importante, ma è possibile che ci siano altre cause, che se le persone non avessero già fatto una scelta in quella direzione forse rinuncerebbero ad altro, pur di avere un bambino».
«Quello che appare all’esterno, e che spesso si sente dire anche dai demografi, è che le donne non fanno figli per problemi economici, ma credo che dietro a questa decisione ci siano anche altri motivi, servirebbero indagini più approfondite: resta il fatto che in Italia la maternità è la più bassa dell’Unione europea», osserva Paola Leonardi, sociologa e psicoterapeuta che ha partecipato con una sua testimonianza al progetto Lunàdigas.
Che non si tratti di una scelta per poche lo confermano alcuni dati, secondo cui a non volere figli sarebbe quasi una donna su quattro. «Ma ciò che emerge, al di là dei dati quantitativi, è che il numero delle donne che sceglie di non avere figli è aumentato in modo esponenziale: oggi sono quasi sette volte di più rispetto agli anni sessanta», ricordano le autrici.
Per capire chi sono davvero le donne senza figli per scelta – childfree, secondo la terminologia inglese che le contrappone alle childless, che invece i figli li vorrebbero ma non possono averli – qualche dato si ricava da una ricerca GfK Italia proposta da Lunàdigas, da cui emerge che le donne tra i 18 e i 55 anni che non hanno e non vogliono figli – in coppia per il 56 per cento, sole nel 40 per cento – avrebbero un livello di istruzione più alto della media, redditi proporzionalmente più elevati e un’occupazione, spesso autonoma. Ancora, rispetto alla media delle donne italiane si tratta di un gruppo più concentrato nel nord-ovest del paese, in maggioranza nei grandi centri urbani. Ne emerge un quadro positivo, di donne con una vita ricca di interessi e di obiettivi, convinte della propria scelta e ben informate.
In effetti si tratta di dati tratti da Sinottica, un’ampia ricerca sulla popolazione italiana che non contiene domande dirette su questi temi. «Sono state consultate otto serie storiche, dal 2004 al 2011, considerando le domande legate alle scelte personali», spiega Matteo Zanibon di GfK Italia. Quelle prese in considerazione sono le donne tra i 18 e i 55 anni che dichiarano di essere senza figli, e che non indicano l’avere figli tra i propri obiettivi. Da questi dati emerge che a fare la scelta di non avere figli – o quanto meno a esplicitarla – dovrebbe essere circa il 13 per cento delle donne nella fascia d’età considerata, e l’8 per cento del totale.
Resta il fatto che comunque le childfree non sono solitarie: oltre il 50 per cento vive in coppia, e se la percentuale di quelle che vivono da sole è comunque sopra la media non possiamo sapere se si tratti di single. I dati sul reddito e sulle professioni – la percentuale di donne che lavorano è elevata – indicano che lavoro e condizione economica hanno un ruolo nella scelta, anche se è difficile definirlo. Non si tratta, comunque, di un segmento di popolazione con particolari problemi economici, ma neanche di «superconsumiste»: sono donne che si informano, che amano i consumi di qualità ma sono sensibili alle implicazioni sociali delle proprie scelte. E se in questo gruppo l’attenzione al piacere e al divertimento è superiore alla media, gli altri dati rilevanti sono l’esigenza di sentirsi libere da doveri, ma anche la progettualità culturale.
«Le caratteristiche di queste donne sono sicurezza e autonomia di pensiero, come è logico che sia in chi ha fatto una scelta che fino a poco tempo fa era considerata impopolare». E si tratta di una tendenza che sembra destinata a crescere: «Le nuove indagini confermano che quello di chi non vuole figli è un segmento tendenzialmente piuttosto evoluto, rispetto alle donne di pari età con figli ma anche alle 18-55enni che non hanno figli per altri motivi», osserva Zanibon. «Anche se servirebbero nuove ricerche per individuare correttamente il rapporto causa effetto». Per sapere, insomma, se siano determinate condizioni socioculturali che inducono a non avere figli o il fatto di non volerne avere che porta a fare esperienze diverse.

Una scelta in positivo

«La novità – sottolinea Piga – è che oggi le donne senza figli tendono ad affermare la loro scelta in positivo, a ribadire che essere senza figli non ha niente a che vedere col sentirsi tristi, chiuse, egoiste o improduttive». Una rivendicazione, quella di prendere liberamente decisioni senza essere giudicate, che affonda le proprie radici nella storia del femminismo. E non è un caso che tra le intervistate ci siano quelle che le autrici definiscono «matriarche», donne cresciute negli anni quaranta e cinquanta, come Lea Melandri, Lidia Menapace o Luisa Morgantini, «che nelle interviste raccontano la loro scelta come una forma di ribellione a un cliché quasi inevitabile, al quale hanno tentato di sfuggire».
«Non ho propriamente motivazioni per non avere figli, semplicemente non ne ho avuti», spiega Menapace in una lunga intervista. «Ho cominciato a rifletterci solo dopo sposata, quando mi sono resa conto che tutti si aspettavano questo da me: e pensandoci trovo che questo atteggiamento sia una sovrastruttura culturale molto punitiva».
Non molto diverso l’atteggiamento di Margherita Hack: «Forse siamo rimasti un po’ bambini noi», ammetteva la scienziata nell’intervista realizzata per Lunàdigas. «Ma ho sempre pensato che non avrei avuto figli, e anche mia madre, d’altronde, mi voleva molto bene, ma non era particolarmente portata verso i bambini in generale». Per quanto riguarda il lasciare qualcosa di sé, prosegue Hack, «l’eredità si può lasciare anche agli allievi, ne ho avuti tanti e una certa eredità credo di averla lasciata: ma a dire la verità non me ne importa niente».
In passato, prosegue Leonardi, «l’immagine del femminile ruotava intorno alle qualità legate alla fertilità, come la bellezza o la giovinezza». Anche se nella tradizione e nel mito sono sempre state presenti figure di donne senza figli, come le sante di cui parla la scrittrice Bruna Dal Lago, spesso martirizzate proprio per aver rifiutato il tradizionale ruolo femminile di sposa e madre. Mentre lo psicoanalista Claudio Risé, intervistato su Lunàdigas insieme alla moglie Moidi Paregger, ricorda la figura della dea Artemide, che è al tempo stesso vergine e protettrice delle partorienti, ma anche delle Salighe, le donne selvatiche presenti nelle leggende della tradizione altoatesina che non si riprodurrebbero per non disperdere la propria energia vitale.

Modi diversi di essere materne

D’altronde anche nell’idea che abbiamo di istinto materno il mito ha un ruolo importante, come ha sottolineato a suo tempo Elisabeth Badinter, visto che i figli si facevano per ragioni diverse che avevano poco a che vedere con la realizzazione personale, «come per avere braccia da lavoro, un supporto, o nelle classi più elevate per ragioni sociali o dinastiche», ricorda Leonardi. «Anche oggi ci sono studiosi che agitano la bandiera dell’emergenza demografica per indurre le donne ad avere figli, la differenza è che, almeno nel mondo occidentale, non si tratta più di un destino ma di una scelta». Con tutte le possibili implicazioni dal punto di vista psicologico, perché dover scegliere destabilizza, e perché c’è la necessità di tenere insieme parti diverse di sé.
«Nel film che stiamo girando c’è un bel dibattito sul modo di esprimere il “materno” da parte delle donne che non hanno avuto figli», ricorda Piga. «C’è chi dice che alcune donne sembrano quasi volersi giustificare, dimostrare qualcosa». E c’è chi, come Veronica Pivetti, afferma: «Io non genero figli, genero progetti, e trovo sanissimo dedicarsi a se stessi e agli altri con cui si lavora. Non mi sono mai posta il problema di avere figli, non era la cosa che mi interessava di più», precisa l’attrice. «Credo che fare figli non sia per tutti, sia un lusso, e non intendo dal punto di vista economico. E credo che questa sacralità attorno alla figura della madre sia pericolosa: ci sono madri terribili, la genitorialità va conquistata, è uno dei mestieri più difficili al mondo, e immagino che si debba imparare. Ma delle donne senza figli, di queste donne “diverse dalle altre” non si parla mai».
«Dubito che oggi le donne senza figli abbiano bisogno di riempire un vuoto», osserva Leonardi. «Sono i figli, semmai, che a volte si fanno – e soprattutto si facevano in passato – per riempirsi la vita». Il problema, eventualmente, è che le vite delle donne sono troppo piene: «Non è certo un caso che la prima generazione che davvero non ha fatto figli sia anche la prima generazione che ha avuto accesso ad altre opportunità, a partire dalla scuola e dall’università», prosegue la psicologa. «Dovevamo mettere al mondo il mondo, fare qualcosa che non era mai stato fatto».
Non per tutte è così, e ci sono anche, tra le testimonianze raccolte in Lunàdigas, quelle che i figli li avrebbero voluti e non hanno potuto averli, oppure che hanno rinunciato per problemi di salute, o per paura del dolore. «Bisognerebbe anche esaminare bene che c’è dietro tante difficoltà, tante donne che faticano a concepire anche ricorrendo alla fecondazione assistita», osserva Leonardi. «Servirebbero studi più approfonditi, ma la sensazione è che a volte, quando non viene identificata un’impossibilità biologica a concepire, ci siano donne che non sono convinte fino in fondo della loro scelta. Che in qualche modo non riescono a darsi uno spazio mentale, a trovare una volontà interna per il percorso che vogliono intraprendere, e cercano di inserire un figlio in una vita già piena».

Il timore del giudizio

In Lunàdigas trovano spazio anche voci maschili, come quella di Moni Ovadia, che sottolinea come «i figli dei suoi amici e i nipoti lo vedano in realtà come un padre, perché in fondo il ruolo paterno può essere presente anche senza paternità».
«Ci pareva interessante inserire anche il punto di vista degli uomini, che in realtà è spesso orientato alle esigenze della compagna, per sostenerla nella sua scelta», osservano le autrici. «Anche se idee diverse sulla maternità possono mettere in crisi la coppia: ci sono donne che raccontano di avere chiuso una relazione perché il partner era troppo insistente sulla questione figli, che diventava quindi irresolubile». Nel documentario trovano spazio anche voci critiche, come quella di una giovanissima ostetrica per cui «non diventare madri significa essere incomplete». «In realtà – ricorda Piga – nella stessa intervista è un’altra delle ragazze a rispondere, ricordando alla collega che il compito professionale delle ostetriche è di essere pronte ad accettare la scelta della donna che si rivolge a loro, qualunque essa sia».
Ma il problema del giudizio altrui esiste: «Molte donne di varie età parlano dell’insistenza con cui viene loro magnificata la maternità da familiari e amici, particolarmente quando sono in età in cui è ancora possibile cambiare idea», ricordano le autrici. Un’insistenza che a volte diventa petulante, e genera fastidio: «Ci sono persone che sembrano incapaci di accettare che una donna semplicemente possa non desiderare figli. Molte citano le amiche, anche se a volte si crea una sorta di “selezione naturale” per cui chi ha bambini piccoli si allontana e frequenta altri gruppi».
Esiste, tra tante, una testimonianza che possa sintetizzare lo spirito del progetto? «Quella di una ragazza che ci ha raccontato che da bambina credeva che, in quanto femmina, lei avrebbe dovuto fare dei bambini», rispondono le autrici. «Poi, a sette anni, la mamma le ha spiegato che la maternità era una possibilità, non un destino predeterminato. E da allora ha deciso che non avrebbe fatto figli».