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 2016  maggio 10 Martedì calendario

IL SUICIDIO DI ELLEN WEST


Ellen West nasce nel 1888, ma non conosciamo né il giorno né il luogo, segno che si tratta di una persona poco nota. Anche West è uno pseudonimo. La sua famiglia è certamente ebraica, ricca, tedesca. Le motivazioni per questo enigma sulla identità sono in parte legate alla sua storia che, ben presto, la rende «malata di mente».
Sicura invece è la data del suo suicidio, il 4 aprile del 1921, all’età di 33 anni, per l’ingestione di barbiturici e di morfina in alte dosi.
A descrivere l’episodio è il marito, Karl. Una vera liturgia che comincia il mattino del 4 aprile. «Tutta la mattina restò a letto, prese alla prima colazione burro e zucchero, poi dormì e si riposò... A mezzogiorno mangiò moltissimo finché fu sazia... Per la prima volta da 13 anni provò un sentimento di soddisfazione nel riposare e nel mangiare. Si fece portare a letto dei fiori... Passeggiò con me per il giardino poi lesse insieme a me delle poesie tedesche e inglesi: Rilke, Storm, Goethe, Tennyson... Era in uno stato d’animo indimenticabile, tutte le difficoltà sembravano scomparse... Al caffè mangiò cioccolatini e uova di Pasqua... Cenò nuovamente a letto, lesse ancora con me, si fece portare del tè e vi mise dentro il veleno... La mattina dopo tutto era concluso. Appariva nella morte – come mai nella vita – tranquilla e felice e in pace».
È questa una parte della lettera (un vero resoconto) che il marito invia il 7 aprile 1921 al dottor Ludwig Binswanger, direttore della Clinica Bellevue a Kreuzlingen in Svizzera – lettera riportata in Oltre la società psichiatrica avanzata da Albrecht Hirschmüller, nella traduzione di Giacomo Conserva.

Una conclusione prevista
Ellen West era stata dimessa dalla clinica il 30 marzo 1921 (era entrata il 14 gennaio) e il dottor Binswanger risponde al marito in una lettera nella quale tra l’altro scrive: «Ho naturalmente di giorno in giorno attesa una sua lettera e mi sono tranquillizzato quando l’ho letta» (lettera scritta il 12 aprile). Risulta dunque che alla dimissione esisteva la possibilità del suicidio e che era in un certo senso addirittura atteso sia da Binswanger che dal marito.
E il dottor Hoche, uno psichiatra che era stato interpellato sul caso, a parlare di un «suicidio assistito» in una lettera a Binswanger in cui inserisce delle considerazioni che sono quanto meno sorprendenti: «L’assistenza al suicidio non è punibile, dato che il suicidio non è punibile. Se il marito non avesse semplicemente messo a disposizione il veleno, ma l’avesse iniettato, allora si tratterebbe di assassinio su richiesta» (lettera del 16 aprile 1921).
Di Ellen West sono stati recentemente rinvenuti i diari che si riferiscono proprio all’anno del suicidio: emerge una figura di donna intelligente che scrive poesie, annota i suoi sogni, che fin dall’infanzia sembra presa da un desiderio di morte che si esprime nella forma acuta di tentativi di suicidio oppure in maniera più mascherata sotto forma di disturbo anoressico.
Ed è proprio, a fronte di questa psicopatologia, che il marito tiene a sottolineare che nel giorno della morte Ellen in maniera sorprendente aveva consumato con gioia una colazione abbondante e una cena completa e arricchita da cioccolato, un alimento fino allora tra i più proibiti. E aggiunge: «Sembrava di poter avere un poco di godimento dalla vita. E questa giornata fu meravigliosa» (lettera del 7 aprile).
Risulta in maniera sorprendente, ma indubbia, che non è solo il marito a ritenere il suicidio l’unica soluzione di un problema patologico, ma che di questo parere è anche il dottor Binswanger.
Il caso Ellen West era stato preso in considerazione da tutti i grandi psichiatri dell’epoca; non si può nascondere che fosse un tempo fortunato per lo sviluppo della disciplina psichiatrica. E occorre farne cenno perché credo che questo caso esprima storicamente (e sia la conseguenza di) una doppia visione sul concetto di follia e soprattutto sui trattamenti possibili.

Diagnosi senza terapia
Ellen West, prima del ricovero alla Bellevue, era stata vista anche da Emil Kraepelin (che nel 1897, nella quinta edizione del suo Trattato, crea la categoria della psicosi maniaco-depressiva) e poi visitata anche da Eugen Bleuler (che nel 1911 aveva coniato il termine schizofrenia per una sindrome prima denominata dementia praecox).
Questi due psichiatri fanno entrambi diagnosi di schizofrenia. E rappresentano bene la visione clinica della psichiatria a fondamento biologico. Ma a occuparsi di Ellen intervengono anche il dottor Victor von Gebsattel, che conosce Freud, ne è per poco tempo seguace, ma non convinto della teoria delle pulsioni passa dall’analisi freudiana a quella esistenziale. Terrà in terapia Ellen dal febbraio all’agosto 1920. E Hans von Hattingberg, che applica su Ellen (dalla fine di agosto al dicembre del 1920) quella che oggi chiameremmo una terapia di sostegno. Proprio nel suo studio, Ellen fa un tentativo di suicidio, cercando di buttarsi dalla finestra.
Questi due psichiatri non usano la diagnosi clinica poiché, influenzati dalla fenomenologia che si struttura proprio in quel periodo, negano significato alle classificazioni diagnostiche e ritengono che ogni paziente sia un caso irrepetibile e che il concetto di terapia sia insito nel coinvolgimento che si attua tra psichiatra e paziente.
La prima visione ritiene che la schizofrenia sia incurabile; la seconda, molto più pragmaticamente, si attacca al qui e ora che, nell’espressione classica della fenomenologia, sarà uno dei principi della Daseinsanalyse.
Ludwig Binswanger nel 1921 arriva alla conclusione che non è possibile curare la paziente Ellen West: la schizofrenia è incurabile e l’intervento dell’analisi fenomenologica è stato applicato, ma senza esiti. Non si pone nemmeno il ricorso alla psicoanalisi freudiana, poiché era stato teorizzato che la si poteva applicare alle nevrosi e non alle psicosi – di cui la schizofrenia è parte.
Il suicidio rappresenta dunque l’uscita da una situazione insopportabile per la paziente, è di per sé la terapia.
Per la visione clinica dunque Ellen West è inguaribile e infatti Binswanger scrive che era chiaro che «dimettere la malata dalla casa di cura significava sicuramente il suo suicidio» (Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West e altri saggi, Bompiani, Milano).
Nella visione fenomenologica-esistenziale non si pone nemmeno il concetto di cura, poiché lo psichiatra diventa un testimone della vita di Ellen, uno che partecipa al suo dramma, senza però un progetto che possa veramente definirsi terapeutico. La relazione analitica continua, come fosse parte della sua esistenza.
Ma Ellen il 27 dicembre 1920, prima di essere accolta in clinica, scrive: «Sono amaramente delusa dall’analisi. La chiarezza che mi ha data su me stessa non mi serve a niente. In contrasto rende ancora più pesante il cuore: vedo dove sta la malattia e non riesco a superarla. L’unica conclusione che posso trarre dell’esperienza dell’ultimo periodo è di togliermi la vita» (M. Bettoni Pojaghi, L. Capocaccia, A. Ciocca, F.M. Ferro, M. Rizzo, Un’altra volta ancora: nuove riflessioni su Ellen West, Fioriti, Roma).
Persino la morte in questa visione antropo-analitica, diventa parte dell’esistenza. «Anche la vita di Ellen West al cospetto della morte può essere intesa in base all’eternità dell’amore... Soltanto al cospetto del non essere, Ellen West si trova effettivamente nell’essere», scrive Ludwig Binswanger.
Binswanger dunque, coerentemente alle sue considerazioni psichiatriche sostiene la libertà di suicidio. Il fondamento però non è solo dottrinale, ma lo coinvolge come uomo e come padre. Non è ordinario il fatto che egli ammetta che Ellen West è rimasta sempre nella sua mente: lo ripete nel 1961, al suo ottantesimo compleanno in una lettera indirizzata a Karl West: «La decisione di allora fu una delle più dure di tutta la mia vita. Nonostante la maggiore esperienza la ritengo comunque ancora giusta» (Oltre la società psichiatrica avanzata).
La componente personale è il dramma che lo tocca direttamente ed è dovuto al suicidio del figlio primogenito, Robert, nel 1929.
Indubbiamente la morte di Ellen e quella del figlio dovevano sovente incontrarsi nella mente (e nel dolore) di Binswanger.