Roberto Petrini, Affari&Finanza – la Repubblica 9/5/2016, 9 maggio 2016
TEMPI DURI PER I BOIARDI DI STATO
Sentinella, a che punto è la notte? Nell’era di Renzi-Madia si potrebbe dire: burocrate a che punto siamo arrivati? Certo la stretta c’è stata, ma il rischio che i “mandarini” della pubblica amministrazione ripartano all’attacco è sempre in agguato. Oggi i dirigenti dello Stato, dai segretari generali dei ministeri al Ragioniere generale dello Stato, non possono guadagnare più di 240mila euro lordi l’anno. Merito del governo Monti che nel 2011, nel pieno dell’emergenza economica, disse basta ai superstipendi, fino ad allora ancorati ai celebri 311mila euro lordi annui corrispondenti come un benchmark allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione. Da allora ai “burontosauri” è stato tagliato lo stipendio, che resta – è bene sottolinearlo – di tutto rispetto. Ma al civil servant sono state imposte altre limitazioni: ad esempio, se un alto dirigente pubblico si trasferisce alla Corte dei Conti o al Consiglio di Stato, non può portare con sé la propria anzianità e il proprio grado ma dovrà ripartire con la carriera dal primo step. Altra limitazione, che ha contribuito a combattere la turpe pratica della “collezione” di poltrone: il tetto dei 240mila euro vale anche per eventuali altri incarichi all’interno della pubblica amministrazione e una volta raggiunto il plafond le remunerazioni, consigli di amministrazione o consulenze, devono essere a compenso-zero. Piccole cose che danno il segno dei tempi: una volta il dirigente dello Stato aveva l’auto blu per definizione, oggi non più e si preferiscono pool di utilizzo o car sharing istituzionale. Anche con il tefefonino di Stato bisogna andarci piano. Se per i dirigenti la musica è cambiata, anche i manager pubblici, cioè coloro che amministrano società controllate dallo Stato e che vengono da esperienze e carriere private, hanno dovuto pagare un prezzo. Alto o basso, si vedrà al momento dei bilanci. Fatto sta che anche in questo mondo, assai delicato, dove si trovano veri e propri giganti, qualcosa è cambiato. Dall’aprile del 2014 sono entrati in vigore i tetti agli stipendi dei manager che impediscono di superare anche in questo caso la fatidica quota di 311mila euro. L’operazione è stata fatta con il bilancino: le società non quotate (perché quelle quotate in Borsa sono esenti dai tetti) sono state divise in tre fasce. La prima sopra il miliardo di giro d’affari dove il tetto di stipendio è 311mila euro; la seconda tra i 100 milioni e il miliardo che si attesta all’80 per cento (cioè 248mila eu-ro); e la terza sotto i 100 milioni (al 50% del primo presidente di Corte di cassazione a quota 155 mila). Nella nuova disciplina delle fasce – che potrebbe essere rivista con un nuovo decreto da parte del ministero dell’Economia – molti manager pubblici hanno visto decurtare il proprio stipendio: dall’Anas a Invitalia, da Sogei a Invitalia. Le big six nel portafoglio del ministero del Tesoro si sono salvate. Eni, Enel, Finmeccanica e, da ultimo Poste, sono quotate e si è convenuto che le decisioni sugli stipendi spettino all’assemblea degli azionisti. Si è pensato che con una stretta troppo forte si sarebbe corso il rischio di una “fuga” di top manager. Esonero anche per Ferrovie e Cassa Depositi e Prestiti perché, pur non essendo quotate, emettono titoli trattati sui mercati. Una concessione ai tempi di moralizzazione dei guadagni: agli amministratori delle big six dello Stato è stata applicata una norma che ha previsto il taglio del 25% per cento del compenso rispetto all’anno precedente. Ma la stretta è in arrivo anche per il mondo più ampio delle società partecipate dalla pubblica amministrazione, in particolare Comuni, Province e Regioni. Il decreto attuativo della riforma Madia è in Parlamento dove deve essere licenziato entro fine giugno. L’articolo 11 prevede “limiti massimi di remunerazione proporzionati alla dimensione dell’impresa” e impedisce inoltre ai dipendenti della società pubblica controllante di sedere nei consigli di amministrazione, a meno che non versino il compenso all’amministrazione di appartenenza.
Roberto Petrini, Affari&Finanza – la Repubblica 9/5/2016