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 2016  maggio 09 Lunedì calendario

L’AMARA FINE DELLO ZUCCHERO ITALIANO PRODUZIONE CROLLATA DELL’80 PER CENTO

Inutile farsi il sangue amaro. Le leggi del mercato sono impietose. La politica agricola della Ue ha trattato spesso l’Italia come una nazione di serie B. E a dieci anni dalla riforma del mercato saccarifero, l’Europa – un cucchiaino e una zolletta alla volta – ha lasciato l’Italia (quasi) senza zucchero. I numeri sono impietosi: dieci anni fa il Belpaese aveva 19 stabilimenti da cui uscivano 1,4 tonnellate del prezioso carboidrato, il 17% della produzione continentale e il 75% del fabbisogno nazionale. B en 233 mila ettari di campi tricolori erano piantati a barbabietola (un elemento preziosissimo nella rotazione delle colture) e il settore dava lavoro a oltre 7mila impiegati diretti. Oggi tutto è cambiato. In peggio. Quest’anno gli impianti in funzione saranno solo due (a Pontelongo in Veneto e Minerbio in Emilia, entrambi della Coprob) e produrranno – se tutto va bene – 300mila tonnellate, quasi l’80% in meno del 2006. Le aziende disposte a coltivare barbabietole, vista la crisi del settore, sono rare come panda: la superficie seminata si è ridotta a 34 mila ettari – una sorta di villaggio di Asterix vegetale – e i dipendenti che ruotano attorno a questo business tra fissi e stagionali si sono ridotti a 1.200. L’eutanasia dello zucchero tricolore è stata lenta ma implacabile. In teoria sono ancora aperti e pronti a funzionare due altri impianti, quello di San Quirico (Parma) di Eridania e lo Zuccherificio del Molise a Termoli. Ma i responsabili di questi stabilimenti hanno deciso di alzare bandiera bianca. Il primo ha sospeso quest’anno l’operatività «per la scarsa offerta di prodotto e per il prezzo troppo basso della materia prima», chiudendo i battenti e mettendo i dipendenti in cassa integrazione. Lo stabilimento molisano invece ha acceso le macchine solo per un paio di giorni lavorando un pugno di tuberi, quanto basta per mantenere per un anno i diritti riconosciuti dalla Ue. Nel 2017, in effetti, i pochi irriducibili produttori di zucchero rimasti in Italia affronteranno la madre di tutte le battaglie: l’abolizione delle quote dello zucchero a disposizione di ogni singola nazione da parte di Bruxelles. Da gennaio sarà guerra «tutti contro tutti», come spiega Daniele Bragaglia, amministratore delegato di Eridania Sadam. I colossi tedeschi, francesi, inglesi e olandesi, paesi dove si concentra il 67% della produzione continentale, saranno pronti a invadere il nostro mercato con i surplus di produzione che avevano pronti in magazzino. «E competere per noi sarà difficilissimo », ammette il numero uno della controllata del gruppo Maccaferri. Il cupio dissolvi dello zucchero italiano è una storia lunga due lustri che ha i contorni di un suicidio assistito. La prima picconata, quella decisiva, è arrivata nel 2006 con la grande riforma comunitaria per razionalizzare il settore e creare pochi grandi produttori in grado di competere senza sussidi sui mercati mondiali. Gli Stati membri hanno accettato di ridurre gli stabilimenti da 192 a 109 con la perdita di 20 mila posti. E Roma nel 2006 ha deciso di sforbiciare da 19 a sei i suoi impianti, incassando da Bruxelles un assegno di 700 milioni di euro per avviarne la conversione in centrali elettriche a biomasse. La scelta, in parte, aveva una sua logica. «La barbabietola italiana aveva allora rese medie molto inferiori a quelle delle zone continentali come il Nord della Francia, dove si arrivava a produzione per ettaro superiore persino del 60%», dice Bragaglia. E i consumatori, a guardar la metamorfosi dal loro punto di vista, ne hanno beneficiato, visto che i prezzi sono crollati e con l’addio definitivo delle quote del prossimo anno potrebbero scendere di un altro po’ allineandosi verso quelli mondiali. I produttori italiani si sono trovati però dieci anni fa davanti a un bivio: avviare la trasformazione dei loro stabilimenti verso l’energia, o investire per guadagnare la competitività necessaria a sopravvivere nel mare aperto del mercato in un mondo senza quote e con sussidi alla coltivazione delle barbabietole e dazi solo fino al 2020. Il primo capitolo è stato un mezzo flop: ad oggi, tra niet degli enti locali e ritardi normativi, l’unico stabilimento convertito a centrale è quello di Finale Emila della Coprob che produce 12,5 megawat da biomasse. Sul secondo si sono incamminati in pochi e solo le cooperative riunite nella Coprob ed Eridania sembrano determinate a continuare. «La vera sfida sarà quella di mantenere una convenienza per le aziende a piantare barbabietole per garantire l’approvvigionamento - racconta Patrick Pagani, direttore di Unionzucchero, l’associazione industriale di categoria - Dobbiamo utilizzare tutte le nuove tecnologie a disposizione per tenere alta la produttività e fare fabbriche ancora più efficienti. Già oggi il 20% dei bieticoltori del Nord Italia è allineata alla media dei paesi europei più competitivi». Su Minerbio, Pontelongo e San Quirico sono stati investiti negli ultimi anni ben 200 milioni aumentando tra il 15 e il 40% la capacità di lavorazione al giorno, fattore fondamentale visto che la stagione di queste fabbriche si consuma tutta tra agosto e ottobre al momento dell’estirpazione dei tuberi. «La crisi del mercato ci ha reso più forti – dice con orgoglio Claudio Gallerani, numero uno della Coprob – Noi negli ultimi anni abbiamo raddoppiato le dimensioni della cooperativa e consolidato il bacino agricolo e industriale». La società ha scelto 5-6 mila aziende nell’area più vocata del paese, tra Emilia e Veneto, per avviare progetti di ricerca. «Abbiamo lavorato su genetica, tecnologia e irrigazione e in diversi casi siamo riusciti a migliorare la nostra produttività del 50%». Progressi che giustificano anche economicamente la sopravvivenza di un presidio saccarifero made in Italy «anche perché la virtuosa rotazione delle colture con la barbabietola aumenta del 10-20% quella successiva dei cereali», dice Pagani. Eridania invece sta provando a ridurre i rischi a San Quirico affiancando alla lavorazione dello zucchero un progetto di riconversione di parte dell’impianto vero la chimica verde a base di saccarosio. «L’altro aspetto su cui dobbiamo lavorare è il lavoro di filiera, coinvolgendo tutti gli attori della catena dello zucchero spiega Gallerani – Il periodo ovviamente è difficile, la situazione complessa. Ma i prezzi hanno ripreso a salire. Se lavoriamo tutti assieme potremo salvare il settore e cavarci pure qualche soddisfazione». Il ruolo del governo in questa partita sarà importante. «Dall’esecutivo e dal ministro Martina abbiamo ricevuto importanti risposte in passato, ma restano ancora criticità da risolvere, alcune da diversi anni», sostiene Pagani. Un esempio? «Ci sono ancora da sbloccare una quarantina di milioni di aiuti per il settore stanziati nel 2010», dice Gallerani. L’obiettivo è dare una mano ai pochi highlander dello zucchero tricolore a reggere l’urto della liberalizzazione definitiva del 2017. La produzione Ue dei prossimi anni è prevista in crescita del 13% rispetto alla media dal 2010, con i colossi francesi che fatturano 3 miliardi come Tereos a fare la parte del leone. L’obiettivo è invadere con quest’onda bianca il resto del pianeta dove però la competizione è difficilissima. Il rischio quindi è che il surplus finisca per bussare di nuovo ai mercati più deboli del Vecchio Continente dove i prezzi potrebbero rimanere superiori del 15-20% fino alla fine dei dazi. «Il rischio c’è – dice Gallerani – Ma visto che il 75% della nostra produzione va verso l’industria alimentare nazionale, mi auguro che la filiera ci dia una mano a difendere la qualità del nostro lavoro». Nel grafico qui sopra, gli effetti nel corso degli anni del piano europeo di riduzione della capacità produttiva di zucchero. L’Ue ha anche stanziato fondi per la riconversione degli impianti e l’Italia ne ha beneficiato per circa 700 milioni.
Ettore Livini, Affari&Finanza – la Repubblica 9/5/2016