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 2016  maggio 06 Venerdì calendario

CECATOPOLI


SACROFANO. La scelta del menù, in tutti i banchetti, è un momento cruciale. Dice A, che si offre per provvedere al catering: «Va bè, tu famme sapé, basta che me lo dici per tempo». Risponde B, il festeggiato: «Fa’ un primo, un primo, ’na cosa e poi la grigliata... tanto». Peccato che A sia Massimo Carminati, er cecato o il Nero, protagonista assoluto di Mafia Capitale. E B sia Tommaso Luzzi, allora ancora candidato sindaco di Sacrofano, che discettava su cosa mettere in tavola per una cena in piazza per 4-500 persone, suoi potenziali votanti. I due, era il 6 maggio 2013, stavano parlando (intercettati dai Ros) negli uffici dell’Imeg, la società dell’imprenditore Agostino Gaglianone. La circostanza più incongrua, a quasi tre anni di distanza, è il finale: Carminati e Gaglianone stanno meritatamente al carcere duro (41 bis) mentre Luzzi siede indisturbato sul suo scranno di primo cittadino, con vista su Tonino, il miglior ristorante della città. Sebbene, ancora quindici mesi fa, il prefetto Gabrielli avesse chiesto a gran voce lo scioglimento del Comune per infiltrazioni maliose. Cos’è andato storto?
Come questo borgo di settemila anime, tra cui oltre mille rumeni esercito di riserva dell’edilizia capitolina, essenzialmente famoso per i cavalli, l’aria buona e le pappardelle, sia diventato Cecatopoli rimane un mistero. Sta di fatto che non solo Carminati aveva stabilito qui la sua residenza, in una villa patrizia con uliveto annesso e telecamere di sorveglianza al cancello, ma anche Gaglianone, il suo palazzinaro di riferimento e Riccardo Brugia, sbrigativo braccio destro, per non dire di Cristiano Guarnera, signore del cemento cui la Finanza ha sequestrato beni per 100 milioni. Tutta gente molto liquida, che avrebbe potuto svegliarsi ogni mattina facendosi dare il buongiorno dal Colosseo, e invece preferiva un paesotto senza un cinema, senza negozi all’altezza dei loro portafogli, senza quasi niente se non un busto di Almirante che sovrasta la piazza principale dallo slargo omonimo e che, alla qualifica, recita «statista». L’ipotesi migliore, nella sua sibillinità a doppio taglio, resta quella pronunciata dall’edicolante: «Boh, forse ce vengono perché qui se magna bene». Altrimenti per il vantaggio di essere contemporaneamente vicino a Roma, a 20-30 minuti dall’epicentro degli interessi di Carminati (il benzinaio-quartier generale di Corso Francia) e lontano dai suoi riflettori, dal momento che se volevi organizzare incontri riservati in queste campagne davi meno nell’occhio. Almeno fino a quando non sono entrati in gioco i Raggruppamenti operativi speciali dei carabinieri.
Uno si immagina che, in una piccola comunità del genere, l’accusa che il sindaco sia amico di mafiosi tolga il sonno agli abitanti e diventi materia prima di ogni conversazione. Grave errore. Qui nessuno ha visto né sentito niente. Corleone, in confronto, sembra popolata da chiacchieroni fluviali. «Mafia? C’avete rotto li cojoni» taglia corto un abbronzato sessantenne nel bar a cinquanta metri dal municipio che espone uno striscione che reclama i marò. L’esistenza di intercettazioni che documentino almeno due incontri di Luzzi con il Nero non lo turba: «I politici s’enventano de tutto, potrebbero fa’ crede che Gesù è morto de freddo». A poco serve rimarcare che anche il sindaco è un politico di lungo corso, nato nel Msi (vecchie cronache narrano di un busto del Duce nella villa sui colli, con cappella privata in tufo), consigliere regionale di An dall’aprile del ’95, corrente Gramazio, il senatore Domenico, ras della sanità laziale e padre di Luca, arrestato per corruzione sempre nel filone di Mafia Capitale. Luzzi, già paladino degli abusivi delle borgate romane (per difenderli si dette fuoco ai pantaloni), diventa poi vicepresidente della commissione Sanità sotto Francesco Storace governatore e quindi amministratore delegato dell’Astral, l’azienda strade del Lazio. Gli scrofanesi possono non aver incrociato Carminati, che viveva isolato a quattro chilometri dal centro, ma di sicuro lo vedevano ogni mattina al Duemme Bar, frazione Borgo Pineto, dove prendeva il cappuccino. Anche lì, però, la memoria è labile. Quando chiedo al ragazzo che mi ha servito il caffè se lo ricorda vedo franargli la mandibola: «No, lavoro qui da pochi mesi, deve parlare col titolare ma non so quando viene». Non serve. Gianluigi Barone, il tenace consigliere comunale d’opposizione (in una lista civica che va dall’Italia dei valori al Pd e che ha preso circa la metà dei voti di quella di Luzzi, vincitrice col 55 per cento), mi aveva avvertito: «Troverai solo porte chiuse». Come quelle, paradossalmente di vetro, del sindaco. Lo intravedo al termine delle vetrate, ma la pur sorridente segretaria che fa la guardia all’ingresso esclude che abbia voglia di parlarmi. Verifica. Tora. Conferma: «Niente da dichiarare». E dire che la storia è davvero avvincente.
Perché non c’è solo la bella amicizia con er cecato che, intercettato, dice che «Tommaso a me me serve lì in zona da noi, come sindaco». Magari per far intervenire il suo vice, come Gaglianone afferma in un’intercettazione, per sbarazzarsi di alcune difficoltà sull’accatastamento della villa che Carminati sta per comprare. Una familiarità con un criminale che, in data 19 agosto 2015, convince il prefetto Gabrielli a proporre al Viminale lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune. Passano i mesi. Viene rimossa Sandra Rapini, responsabile dell’ufficio urbanistico («In paese tutti sanno della mia onestà: preferisco non commentare») e Roberto Fanelli, dirigente della raccolta rifiuti, nonché proprietario dell’unico albergo locale, da cui il cronista è stato cacciato per un surreale diverbio sul wifi. Non sono stati neppure sfiorati dalle indagini ma qualcuno, nel mucchio, doveva pagare. Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia, è incredula: «Secondo noi c’erano gli estremi per lo scioglimento. Questo era il nostro parere consegnato al ministro». Il 27 gennaio 2016 l’investigatrice dei Ros Roberta Cipolla testimonia nel processo a Mafia Capitale e conferma i molteplici rapporti tra Carminati e Luzzi. Siamo al 15 marzo quando Alfano annuncia di aver attivato un «costante monitoraggio dei comuni di Sant’Oreste, Sacrofano e Morlupo». Ma di quali elementi, esattamente, ha bisogno ancora il ministro?
Barone, il coriaceo consigliere – nonché avvocato ed ex ufficiale dei carabinieri – non se ne capacita. Mi racconta di una manifestazione a sostegno dell’amministrazione comunale del 19 ottobre 2015 in cui, a sorpresa, accanto a Luzzi spuntano il senatore Domenico Gramazio e Maurizio Gasparri, silenzioso ma empatico. Sempre lui, la sera della famosa cena in piazza pagata da Carminati, aveva postato un tweet solidale con il candidato («Amici di tante battaglie»). «Vi sembra normale» trasecola Barone «che il viceprepresidente del Senato accorra a Sacrofano in difesa di un uomo che risulta aver avuto rapporti con un mafioso? Bella prova di senso delle istituzioni». Beh, no, non ci sembra. Per intuire qualcosa del sorprendente attendismo di Alfano, che per legge aveva 90 giorni dalla relazione del prefetto Gabrielli per decidere sul commissariamento, può servire una foto che lo vede sorridente tra Gasparri e Gramazio senior, con junior alle spalle, durante un momento di una sua campagna elettorale sotto il logo del Popolo della libertà. Gramazio jr, lo dicono chiaro le intercettazioni, è il vero burattinaio di Luzzi («I soldi vengono dalla regione, se lui (Luzzi) non fa quello che dimo noi, Luca (Gramazio) gli blocca tutto. Fatte servi’» assicura Carminati a Gaglianone). Ricapitolando: Alfano posa con Gramazio, Gramazio telecomanda Luzzi, a sua volta imposto da er cecato. Non sembra esserci molto altro da aggiungere.
Eppure, volendo, c’è. Si tratta di un’altra inchiesta in cui Luzzi è coinvolto. Il racket del caro estinto, Operazione Caronte, come l’avevano battezzata. Succede infatti che, come appurato dal tribunale di Tivoli, dal 2005 al 2009 l’attuale sindaco di Sacrofano abbia ricevuto 198 mila euro da Fabio Quaresima, titolare delle pompe funebri San Leone, come ricompensa per averlo «presentato», grazie alle sue entrature nella sanità laziale, all’Hospice My Life di Nepi (di proprietà dei costruttori Angelucci) e alla clinica Villa Betania di Roma. Così era diventato il monopolista di quelle sale mortuarie e,
quando un paziente moriva, la famiglia non aveva che lui da scegliere. Affari sicuri, sino a quando gli Angelucci gli danno il benservito. L’unico motivo per cui il gip ha rigettato le misure cautelari (pur descrivendo un «quadro desolante») è che, non essendo più consigliere regionale, Luzzi non poteva reiterare il reato. Prima o poi, tuttavia, si arriverà a processo. «Sempre che non scatti prima la prescrizione» avverte Franco Felici, altro consigliere d’opposizione, informatico di mestiere, che giura che chiederanno altre interrogazioni parlamentari ma ogni tanto, tornando alle foto con Alfano e i Gramazios e ripensando all’ospitata della guest star Gasparri, si chiede se non stiano giocando «in un campionato sbagliato, superiore al nostro». «Le interrogazioni non bastano, serve un’interpellanza che obblighi il ministro a rispondere» rilancia Vincenzo Grenga, responsabile locale dei Cinque stelle che ha appena fatto denuncia per un’auto rigata e la ruota bucata a un’altra grillina che ha anche trovato morto il gatto. Ma perché nessuno parla? Perché il sindaco di favori ne fa, si spende, magari trova un lavoro a un ragazzo nella raccolta differenziata, le leggendarie tre ore al giorno per 800 euro al mese di cui più d’uno favoleggia. Ma può farti anche gli sgambetti, tipo far precipitare la tua pratica in fondo alla pila o mandare la Asl a chi azzarda una critica. Sarebbe stato bello parlare con lui delle circostanziate grane giudiziarie e delle rarissime vox populi che siamo riusciti a rimpannucciare. E dire che, all’indomani dello scoppio dello scandalo, aveva vergato un comunicato ancora in bella vista sul sito comunale: «Le porte sono aperte a tutti e chiunque voglia avere notizie più dettagliate di quest’oscura vicenda di cui sono vittima potrà venirmi a trovare e avrà esaurienti risposte». Diciamo quasi tutti. L’importante è che risponda ai magistrati, se il tempo tiranno non avrà la meglio sul loro lavoro. E ancora più decisivo è che il ministro dell’Interno risponda al prefetto che l’aveva caldamente invitato a fare sloggiare Luzzi.
Per non farlo Alfano avrà senz’altro un buon motivo. Sfortunatamente, girando per Cecatopoli, non si intuisce quale sia.
Riccardo Staglianò