Pier Luigi Vercesi, Sette 6/5/2016, 6 maggio 2016
STORIA INTIMA DELLA DONNA CHE VOLEVA ESSERE COME LAWRENCE D’ARABIA [Intervista a Teresa Cremisi] – Teresa Cremisi nella vita è una Triomphante, come il titolo del romanzo quasi autobiografico pubblicato in questi giorni da Adelphi (pp
STORIA INTIMA DELLA DONNA CHE VOLEVA ESSERE COME LAWRENCE D’ARABIA [Intervista a Teresa Cremisi] – Teresa Cremisi nella vita è una Triomphante, come il titolo del romanzo quasi autobiografico pubblicato in questi giorni da Adelphi (pp. 188, € 16). Una trionfante addirittura fiabesca: infanzia dorata ad Alessandria d’Egitto, con un padre imprenditore che nel pomeriggio diventa campione di golf e una madre scultrice in perenne partenza per lunghe vacanze sulle Alpi svizzere o in Costa Azzurra; adolescenza complicata dalla nazionalizzazione del Canale di Suez, dunque tutta da reinventare, tra sogni e difficoltà, nella poco esotica Milano; esordio nel mondo del lavoro in sordina ma, vent’anni dopo, alla guida di una casa editrice di qualità come Garzanti; poi, alla fine degli anni Ottanta, l’impossibile, ovvero i vertici di Gallimard, che se non sono il soglio pontificio dell’editoria europea, rappresentano un porporato cardinalizio di incomparabile prestigio. Donna, per di più, e italiana. A Parigi. Qualche settimana dopo essersi insediata nel quartier generale sulla Senna, a una cena di scrittori è travolta dallo sfogo del nipote di François Mauriac (neanche fosse Proust): «Finita, è finita, Antoine Gallimard ha messo tutto in mano a una donna italiana». Riparò, l’erede Mauriac, con un mazzo di fiori e assistendo, con stupore, ai successi di quella ragazza d’oltralpe, che non aveva sperperato l’eredità di Gaston ma aveva, con il tempo, contribuito a consolidarla. La Triomphante che ora si racconta, però, cambia registro: scava più a fondo dei successi palesi e semina in profondità verità su se stessa e sul mondo che l’ha accompagnata, schizzando, en passant, bozzetti in cui qualcuno, fosse ancora vivo, potrebbe riconoscersi. Dopo aver pubblicato tanti libri importanti, scrivere un romanzo non è rischioso? «A chi mi chiedeva di pubblicare le mie memorie, rispondevo: “Assurdo, non potrei raccontare i fatti più interessanti”. Poi ho cominciato a scrivere, a riprova che gli editori servono a qualcosa. Il titolare di una piccola casa editrice, conoscendo la mia passione per i luoghi d’Oriente e per i porti, mi chiese di scegliere 30 o 40 foto antiche e di accompagnarle con un testo letterario. L’idea mi piaceva: le immagini rivelano sempre qualcosa. Così ho cominciato e subito mi sono persa. Guardando una cartolina di Abukir, sono affiorati i ricordi di famiglia. Per poter raccontare anche episodi della Seconda guerra mondiale, ho attribuito alla voce narrante dieci anni in più di quelli che ho e sono andata avanti fino a quando sono stata colta da una tremenda paura. Immaginare il giudizio degli amici scrittori è paralizzante. Ora che il romanzo esce in Italia, se possibile, ho anche più paura». Per questo la sua protagonista fa un mestiere diverso dal suo: sempre editore, ma di giornali? «Pubblicare libri è la passione della mia vita. Ma il lavoro della protagonista non è fondamentale». Non riuscendo a star lontana dai romanzi, si fa accompagnare da personaggi letterari. Attribuisce loro consapevolezze a cui giunge lei. Come nel caso del Conte Mosca, creato da Stendhal nella Certosa di Parma: è realmente il suo spirito guida? «Quand’ero ragazza mi identificavo con Fabrizio Del Dongo; divenuta donna mi sono sentita un po’ Sanseverina; solo dopo ho incontrato il Conte, un uomo incredibilmente seducente». E cinico… «Pochissime persone possono illuminare la storia; tanti uomini di talento insegnano che sopravvivere è necessario e per riuscirvi occorre proteggere la propria libertà. Non è facile, né automatico, né evidente. La libertà è una pianta delicata. Spesso necessita, non dico di bugie, ma di silenzi sì. È forse questo cinismo?». Rare le persone che illuminano la storia: immagino si riferisca a Napoleone. A proposito, ha scelto lei la data del 5 maggio per l’uscita in Italia? «È casuale, ma non nascondo la mia passione, anche se ora non dormo più con la sua immagine sotto al cuscino. Non sono attratta da Napoleone imperatore, ma dall’avventura straordinaria di Bonaparte: il piccolo còrso conquista l’Italia, parte per l’Egitto con una nave carica di scienziati, disegnatori, pittori, botanici, torna in patria con un viaggio rocambolesco...». C’è anche Joseph Conrad… «Non è tra i miei autori preferiti, a volte mi annoia. L’ho coltivato per le sue atmosfere, i suoi protagonisti sperduti in un mondo dove faticano a riconoscersi, la malinconica solitudine dei lunghi viaggi… Mi parlano». Partiamo da Alessandria d’Egitto, splendente all’inizio, poi quasi scomparsa, per tornare alla fine del libro. «L’ho lasciata a 10 anni. La mia protagonista a 18, per cui il racconto è un misto di ricordi personali, familiari, ricordi di ricordi, sensazioni. Il ritorno in Egitto è la parte più inventata. Sui miei genitori, invece, ho voluto essere precisa, non dico sui singoli fatti, ma sul loro carattere e la loro storia. Quando abbiamo perso tutto, non si sono lamentati. Hanno semplicemente smesso di raccontare il passato. È calato un silenzio quasi di morte, un silenzio di sabati e domeniche intere, ma elegante, non piagnucoloso. Nessuno li capiva e loro non capivano il mondo in cui vivevano. Entrare e uscire da due realtà così differenti era faticoso, per questo ho cercato di lavorare il più presto possibile». Lei è cittadina francese? «Lo sono diventata da poco ». Nel romanzo invece no. Immagino sia un passaggio chiave per comprendere la storia: voleva forse rappresentare il disincanto finale? «Successe: la prima volta mi rifiutarono la cittadinanza. Comunque sì, è l’emblema di un disincanto». Perché allora titolare il libro La Triomphante: il lettore immagina l’autobiografia di una donna appagata. Mentre alla fine… «… Dico che non c’è stato nessun trionfo. Capovolgere il senso mi sembrava una malizia. E non me ne pento». Nel romanzo gioca spesso questi scherzi. Come quello dell’identità ebraica. Non solo dice di averla scoperta in tarda età, ma lascia immaginare che il suo vero padre sia l’uomo elegante da cui sua madre non vuole farsi riconoscere in una pasticceria di Lugano. Finzione? «Ne sapevo più della mia protagonista, però è vero che in Italia nessuno mi ha mai chiesto conto della mia appartenenza. In Francia è un’ossessione: da dove vieni, come, perché. Negli anni Sessanta e Settanta, a Milano si pensava solo a cambiare il mondo: la politica, la sinistra, la destra. Eravamo ingenui. Una volta dissi a una collega: “Sono felice perché alla fine abbiamo raggiunto il nostro obiettivo”. E lei: “A me non importa, io lavoro per vivere ma dedico la mia esistenza alla lotta di classe”». Leggendo il suo libro ho avuto l’impressione… «… non è solo malinconico». Non l’ho trovato malinconico. Volevo dire che emerge più l’aspetto sentimentale-emotivo del rapporto con la città; il lavoro è quasi un dettaglio, come se negli anni passati a Parigi fossero più importanti gli stati d’animo... «Forse, ma questo non mi corrisponde. Degli anni vissuti a Parigi ho una sensazione di densità, gioia, successi. Non si trovano nel libro perché la protagonista fa il suo lavoro nel modo migliore possibile, ma ne coglie l’aspetto deludente. Accetta di fare cose senza passione». Così lei ha l’opportunità di raccontare certi tic del potere. «Sì, mi interessava il ruolo del padrone così sicuro di sé da imporre ai dipendenti, come si dice qui, à contre-emploi, quello che non sanno fare per poi poterli spostare. Volevo raccontare le abitudini di chi ha un potere dovuto al denaro, all’eredità, alle aziende possedute. La protagonista, una donna che voleva essere Lawrence d’Arabia, sceglie di adattarvisi, di sopravvivere, dimenticando il destino che sognava. Ovvio che non potevo darle un destino trionfante, con le sue eccitazioni e le sue gioie. Ci vorrebbe un altro libro...». Veniamo allora alle gioie dell’editore: un incontro fondamentale? “Ricordo quando, anni fa da Garzanti, ho avuto tra le mani Danubio. Nasceva un nuovo Magris: l’erudito e il letterato lo conoscevamo, quest’altro era un libero narratore di storie geografiche capace di cogliere luoghi con lo sguardo unico dell’artista. Poi, quando arrivai in Francia, fui come Alice nel Paese delle meraviglie, gli incontri furono moltissimi, sia con autori di Gallimard, come Kundera, Modiano, Quignard o Annie Ernaux, sia con altri che portai da Flammarion, come Houellebecq o Yasmina Reza. Restavo ammirata davanti a scrittori che dal nulla, attraverso particolari insignificanti, ricostruivano un mondo e vedevano ciò che abitualmente nemmeno avvertiamo. Uomini che poi, nella vita, si smarriscono facilmente. Ognuno di loro aveva il mio numero di telefono e poteva chiamare a qualsiasi ora. Siamo arrivati a trovare loro il dentista o il veterinario a Capodanno. Detto questo, ho anche imparato a non avere un’idea romantica dell’editoria: ci si può innamorare di un libro all’anno, al massimo di due. Per il resto è mestiere. E nessuno ha la verità in tasca. Il segreto di Gaston Gallimard era la capacità di recupero. La casa editrice commise anche errori madornali, come il giudizio di Paul Claudel sull’Ulisse di Joyce: “Assenza assoluta di talento”, o quello di Gide, che di fronte al manoscritto di Du coté de chez Swann di Proust, scrisse: “Incomprensibile”, e poi Thomas Mann e altri ancora. Però Gaston era sempre pronto a riconoscere l’errore e a recuperare. Questo è il mestiere». Torniamo al romanzo: sembra che abbia voluto ridurre al minimo gli aspetti esteriori per lasciar trasparire quelli più interiori. Lei è diventata quella che è perché, alla fine della fiaba egiziana, ha dovuto, adolescente, attraversare la sua linea d’ombra in modo insolito. Un padre e una madre sperduti nel bosco europeo dovevano essere presi per mano e condotti in salvo. Poteva farlo solo lei, sbaglio? «Penso abbia ragione. Quando si è dentro alle cose non si sa di viverle. Guardando indietro, probabilmente ho capito che non erano più loro a proteggermi, ma il contrario. Penso stia accadendo la stessa cosa ai piccoli siriani che arrivano con padre e madre alla periferia di Düsseldorf; devono vivere la stessa esperienza. Forse il piccolo siriano si adatterà e diventerà il protettore dei suoi genitori». Il Mediterraneo che separa e unisce, la fuga da qualcosa: tutto così simile a ciò che sta accadendo oggi. «Sì, mi strazia il cuore. Detto questo, smetto: non amo lasciarmi trascinare dai buoni sentimenti». Come il Conte Mosca? «Direbbe di pensare a sé, se non si è in grado di influire sul resto». Lei, cresciuta in un ambiente cosmopolita di liberi pensatori, ebrei, musulmani, cattolici, crede sia in atto uno scontro di civiltà? «Il Medio Oriente ha cominciato a sgretolarsi nel dopoguerra. Il tentativo di americani e russi di stabilizzarlo è fallito miseramente. Non c’è stato il tempo per costruire, non dico democrazie, ma almeno Stati solidi. Nasser ha pensato che l’influenza sovietica potesse salvare l’Egitto, ma ogni anno è stato peggio. Le classi emergenti egiziane, come quelle siriane, credevano di non aver più bisogno dell’Occidente. Oggi in Egitto vivono cento milioni di persone che forse presto avranno fame e sete. Se anche loro cominceranno a migrare, per noi sarà un altro dramma». La visione di Houellebecq. «Sottomissione è un libro che fa fremere. Non per le cose che si sono dette di lui, non è islamofobo, ma per quello che racconta della Francia e di altri Paesi europei. Si sono lasciati trasformare dall’interno a furia di piccole – stavo per dire vigliaccherie ma è una parola troppo forte –, di piccoli abbandoni di territorio. Per quieto vivere, in nome di un multiculturalismo al quale non crede più nessuno: non fa bene a nessuno. A che serve vivere gli uni accanto agli altri senza comunicare?». Lei ha fatto parte della commissione che ha elaborato, per conto del governo francese, un progetto per salvare le librerie… «La Francia ha molti difetti ma sulla cultura investe da anni. Sulla libreria ci sono state diverse commissioni di studio e l’azione di un grande ministro come Jack Lang, che ha imposto il prezzo fisso salvando le piccole librerie. Non so se continuerà, perché tutti i Paesi prima o poi potrebbero gettare la spugna, ma intanto sulla cultura la Francia spende l’1% del suo pil. Cinema, libreria, musei usufruiscono di aiuti statali mirati. Non sono mai soldi buttati via: per una nazione che non è più un impero la cultura è importante e rende». Cosa consiglierebbe all’Italia? «Ho l’impressione che i governi facciano quello che sono programmati a fare. Nessuno si è mai interessato del meraviglioso cinema italiano, nessuno lo ha mai aiutato veramente. Dei musei, credo che Franceschini se ne stia occupando più dei predecessori. Per le librerie è tardi. Quando si fanno errori di politica culturale, tornare indietro è impossibile. Se un libro appena uscito è già scontato del 30-40%, non si può da un momento all’altro dire: da oggi si cambia». Ma la cultura non dovrebbe passare anche attraverso prezzi più bassi? Meno costa, più si legge. Il problema dell’Italia non sono i lettori? «Non creda che in Francia siano molti di più per i libri in prima edizione. Ma non c’è sconto: lei compra un libro da 17 euro e lo paga la stessa cifra al supermercato, su Amazon o dal piccolo libraio. In Italia i libri si trovano solo in certe città e in certi luoghi frequentati dalla borghesia. I grandi spazi si sono mangiati i piccoli che facevano una politica più diversificata e così si rischia di trovare solo ciò che risponde alle mode del momento. Il prezzo fisso non vuol dire far costare di più la cultura. È soprattutto il tascabile che fa la differenza in Francia. Qui si comprano 130 milioni di pezzi ogni anno al prezzo di tre caffè al banco; per questo l’aver salvaguardato una distribuzione capillare, su tutto il territorio, è stato fondamentale. L’importante è che ci sia il posto dove comprarli, facilmente accessibile a tutti, anche a chi ha un certo timore reverenziale ad entrare in libreria». Come vede il futuro del libro? «Credo nel libro di carta. Ci siamo sentiti dire, da gente che ha in casa solo libri regalati, che il digitale avrebbe spazzato tutto. Nel 2005 spiegai che i veicoli culturali si sommano e poi si aggiustano. Davo una previsione, considerata pessimistica, del digitale del 10% nel 2015. Oggi, salvo per i libri pornografici, le guide e i dizionari, il digitale è all’1-1,5%. Penso che continueremo a leggere in digitale e su carta a seconda delle situazioni in cui ci troviamo». Ha la sensazione che la qualità dei libri pubblicati stia peggiorando? «Ci si adatta alle mode, è ovvio. Una metà dell’editore è commerciante, l’altra è uomo di cultura. Il mercato è sia ciò che si riceve in lettura, sia l’aria che tira in quel momento, il gusto, le scuole, che un tempo esistevano e adesso non ci sono più. Quando arriva qualcosa di veramente eccezionale, perché tocca l’arte, comunque sia è una buona sorpresa. Se non subito, lo sarà dopo. Io ho fiducia. Sono convinta che forse qui, al quinto piano, sta scrivendo il nuovo Céline, il nuovo Gadda… Quando arriva una voce nuova, si impone. Certo, non sono tanti in un secolo». Non crede che la Francia si stia adagiando sulla Germania e, se si andrà verso un’Europa a due velocità, alla fine verrà fagocitata? «Sarei tentata di darle ragione. Però in certi strati dell’intellighenzia c’è diffidenza verso la Germania. Penso che i francesi abbiano, talvolta in modo ridicolo, un’alta idea della loro supremazia intellettuale, per cui nulla è dato per scontato. Qui l’idea di cultura è diversa che in Italia: se dico a un francese che mio nipote fa lo scrittore, ricevo dei complimenti; se lo dico a un italiano, mi compatisce. Mi preoccupa piuttosto il referendum in Gran Bretagna: che decidano di uscire o meno, le cose dovranno cambiare. L’Europa è una crisalide che mentre diventava farfalla si vedeva tagliare le ali pezzettino per pezzettino. Alla fine hanno detto: “Vedi che schifo, non riesce a volare!”. Ma chi ha tarpato le ali alla farfalla?». Dov’è l’errore? «Troppa economia e poca cultura. Troppo poco orgoglio culturale. Sono gli effetti involontariamente nefasti del capitalismo. Abbiamo pensato che il capitalismo fosse non l’ideale, ma qualcosa che ridistribuisse le ricchezze. In realtà è un mostro».