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 2016  maggio 06 Venerdì calendario

«PARISE E GADDA: COSÌ COMINCIÒ NERI POZZA PER LUI, ARTE E VITA ERANO UNA COSA SOLA. OGGI FARE LETTERATURA È DIFFICILE»

Settanta anni, per una casa editrice, non sono pochi. Soprattutto se, come la Neri Pozza, ha conservato – in decenni fatti di continue fusioni di marchi storici e mega-concentrazioni editoriali – un’identità forte e chiara. Assai vicina a quell’impronta che, nel 1946, le diede il fondatore, il vicentino Neri Pozza appunto – poeta, artista e scrittore, uomo energico e multiforme – che ha tenuto, dagli anni del Dopoguerra fino all’88, l’anno della morte, le redini della sua creatura: fu tra i primi a pubblicare Carlo Emilio Gadda e stranieri come Henry David Thoreau. Dal 2000, la casa editrice, che ha trasferito la direzione editoriale a Milano, è guidata da Giuseppe Russo, 62 anni: 80 titoli all’anno circa, soprattutto di grandi nomi di narrativa straniera, da Tracy Chevalier a John Berger e Amitav Ghosh, ma anche italiana, oltre a parecchi premi Pulitzer in catalogo: Paul Harding, Geraldine Brooks, Elizabeth Kolbert e, buon ultimo, Viet Thanh Nguyen, che uscirà in autunno. «Il suo libro, The Sympathizer, è una rilettura della guerra del Vietnam davvero potente», spiega Russo, «che incarna in pieno lo spirito della nostra casa editrice».
Ripartiamo dalle origini. Prima di tutto c’è stato il fondatore: Neri Pozza. Aveva appena cominciato e, nel 1950, pubblicò In quel preciso momento di Dino Buzzati, nel ’51 Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise, nel ’52 Il primo libro delle favole di Gadda. E poi Montale, Sbarbaro…
«Non ho mai conosciuto Neri Pozza, ma per noi studenti di filosofia alla fine degli anni 70 – io ero a Napoli – l’editore vicentino era importante. Era stato lui a pubblicare uno dei libri “cult” per la mia generazione che – in mezzo al marxismo imperante – rileggeva, da sinistra, Martin Heidegger e Carl Schmitt: Forma ed evento, del filologo grecista Carlo Diano. Senza dubbio uno dei libri di autentico pensiero italiano del Novecento. Fu sempre lui a dare alle stampe gli studi di Sergio Bettini – che a mio parere si disputa con Longhi il titolo di più importante storico dell’arte italiano – o gli scritti di Carlo Ludovico Ragghianti e di Concetto Marchesi. Aveva riunito attorno alla casa editrice, oltre ai grandi scrittori, anche una cerchia di intellettuali di prim’ordine. La sua casa editrice rappresentava un terreno di ricerca originale tra gli anni 50 e i 70».
Come Arnoldo Mondadori, era un autodidatta. Cos’aveva di speciale da attrarre tanti intellettuali finissimi?
«Fu, in realtà, un uomo di profonda cultura: era figlio di uno scultore, e dunque già avviato alla conoscenza di storia dell’arte. Poi sì, si era formato da sé dentro una cerchia di giovani sovversivi antifascisti vicentini. Ma bisogna fare una considerazione più ampia. Quegli uomini erano diversi da quelli che per lo più ci capita di incontrare oggi. Si trattava di una generazione per cui possiamo dire che arte e vita erano assolutamente congiunte. Il loro stile di vita era improntato all’arte, e viceversa: esperienza che non cogliamo più negli scrittori e negli intellettuali di oggi. La vita è da una parte, l’attività intellettuale, considerata come mestiere, dall’altra. Per loro, invece, l’attività intellettuale non aveva questo significato. Neri Pozza editore scriveva a Parise che le cose più importanti erano “arte e poesia, e il resto è buio e vanità”: se pensiamo di mettere in bocca queste parole a un editore di oggi, ci rendiamo conto dell’abissale differenza».
La tradizione racconta che tutto è partito prima della guerra: nel ’38, quando, a 26 anni, con un gruppetto di amici aveva creato nel capoluogo veneto le Edizioni dell’Asino Volante per pubblicare il primo libro di poesie di Antonio Barolini…
«...per sostituire l’editore ebreo Ermes Jacchia costretto a fuggire per le leggi razziali. In quella loro cerchia vi era fervore intellettuale, discussioni, letture: tant’è vero che si celebra in genere l’esperienza di Elio Vittorini con il Politecnico, ma anche Neri Pozza, quando divenne editore a tutti gli effetti, nel ’46, pubblicò una serie di autori stranieri».
Scelta tutt’altro che scontata.
«Proprio così. Noi lo dimentichiamo, ma è solo nel secondo Dopoguerra che la letteratura italiana si apre al mondo e il linguaggio cessa di essere quello dannunziano, aulico e artificioso. Quando irrompe, proprio con questo editore, Goffredo Parise (nemmeno ventenne, ndr) con Il ragazzo morto e le comete, si capisce che la narrativa si apre alla vita: lo stile diventa veloce, vengono abbandonate la retorica e la pomposità della narrativa pre-guerra. È la giovinezza che irrompe. Del resto lo stesso Neri Pozza scriveva con una modernità di stile sorprendente – ricordo lo splendido libro su Tiziano – che caratterizzerà tutta una stagione di scrittura dei veneti: Luigi Meneghello, Giovanni Comisso – di cui abbiamo ripubblicato Mio sodalizio con De Pisis, che illumina appieno quella generazione di scrittori e artisti –, oltre ovviamente a Parise».
Con quest’ultimo il rapporto fu “energico”: quando Parise gli portò il suo primo manoscritto, l’editore se ne innamorò, ma pensava che avesse bisogno di editing. Il giovane scrittore invece, rifiutò. Il libro uscì con un’Avvertenza: «L’editore ha insistito perché l’autore tornasse a togliere storture ed errori. L’autore ha rifiutato di farlo con l’ostinazione spavalda di chi ha davanti una vita».
«Oggi ci sono autori che dicono “non cambio nulla”, poi cambiano subito… La vicenda con Parise, però, è interessante. Tra i sette libri fondamentali di Neri Pozza che stiamo per ripubblicare c’è anche questo, e vorrei ringraziare la casa editrice Adelphi che aveva ormai i diritti dell’opera di Parise. Ho recuperato il manoscritto originale: la verità è che nella prima edizione l’autore non accettò le correzioni di Neri Pozza, ma nelle successive sì! Devo anche dire che preferisco la prima stesura, più nervosa e giovanile. La polemica fra i due comunque non finì lì: Neri Pozza arrivò ad accusare Parise, nei libri successivi, di voler essere commerciale».
Di solito è l’autore che rivolge questa accusa all’editore…
«Insomma, finì che Parise passò altrove».
Anche con Buzzati ci fu una diatriba sugli accenti, che il giornalista considerava “fisime d’antiquariato” mentre Neri Pozza pretendeva di correggerli uno per uno, a costo di ritardare l’ordine di stampa.
«Io sono ancora un purista come Neri Pozza. È una questione di rapporto con la tradizione della lingua italiana, sempre aperta al cambiamento, nel vocabolario, ma che non deve mai tradire il suo spirito. Ecco, gli accenti danno la musicalità di una lingua. Del resto, basti pensare ai danni che ha provocato l’eccessiva ammirazione per Hemingway: l’italiano è fondato sul periodare lungo, l’imitazione ne ha stravolto la natura».
Nonostante l’importanza dei suoi autori, la casa editrice Neri Pozza non raggiunse – allora – la notorietà popolare che ottennero altri editori nati negli stessi anni.
«Se si considera editore colui che scopre talenti, e lo fa dentro un progetto letterario, chi studia l’editoria italiana del secondo Novecento riconosce a Neri Pozza un posto rilevante nel fervore dell’epoca che, come scrive Sandra Petrignani in Addio a Roma, finisce simbolicamente nel ‘75 con la morte di Pier Paolo Pasolini, espressione più piena, sul piano della polemica culturale, di quel mondo. Ma il fatto è che avrebbe dovuto compiere un salto, trasferirsi a Milano, capitale dell’editoria, e trasformare la sua casa editrice in un’industria editoriale. Prendiamo le Editions de Minuit. Nacquero nella stessa epoca, in Francia, fra resistenti che s’incontravano segretamente “a mezzanotte”: crebbero enormemente perché erano già a Parigi, centro della vita culturale francese. Neri Pozza non volle muoversi. Del resto, in fondo, in che cosa avrebbe trasformato la sua casa editrice? Probabilmente in una delle sigle appartenenti a uno dei grandi gruppi di oggi».
Prese mai in considerazione il trasferimento?
«Qui entra in campo la moglie, Lea Quaretti. Il marito era il classico editore che doveva dar fondo alle risorse di famiglia più volte per mantenere in piedi la casa editrice, e di questo naturalmente anche lei, che aveva un suo patrimonio, soffriva. Era una scrittrice di qualità: non bellissima ma seducente, elegante, colta. Era Lea che costituiva il centro del salotto letterario che ruotava attorno alla casa editrice dal ’46 fino agli anni 70. Presero anche casa a Cortina, furono i testimoni di nozze di Dino e Almerina Buzzati. Era una donna di cui si innamoravano Montale, il pittore e poeta Virgilio Guidi, Giorgio Morandi… Ebbene, più volte invitò Neri Pozza a vendere la casa editrice e a fare il salto verso l’editoria industriale».
E lui?
«S’è sempre opposto. Arte e vita per lui erano la stessa cosa, non era nella sua natura trasformarsi in un funzionario editoriale. Ma non è un caso se la casa editrice sopravvive. A volte i destini sono strettamente legati all’origine».
Quel mondo è finito.
«Sì, e come si chiedeva proprio su Sette, qualche mese fa, Elisabetta Sgarbi, la domanda è se sia possibile stabilire ancora un canone letterario o se invece ormai viviamo in un mondo non letterario. Ebbene, io penso che dobbiamo partire dal fatto che se sostituiamo la parola “società” alla parola “mondo”, tutto risulta più chiaro».
In che modo?
«La generazione “tramontata” con Pasolini, di cui parlavo prima, era fatta di scrittori e artisti che vivevano in una società separata. Penso al poeta Sandro Penna, che campava come un barbone ma era un maestro della lingua letteraria del Primo Novecento; penso ai pittori che, a Roma, si menavano per strada battendosi per le rispettive scuole pittoriche, cose impensabili oggi. Personaggi bohémien, un po’ spostati e un po’ snob, che però avevano un’aura di rispetto, che veniva loro riconosciuta perché avevano un compito: trasmettere il patrimonio culturale di una società. E per questo venivano onorati, e invitati in tv, al di là delle posizioni politiche: ricordo un’intervista televisiva di Pasolini a Ezra Pound, tra il comunista e il fascista, sui destini del mondo. E poi anche una conversazione, del ’76, fra Italo Calvino e Giorgio Manganelli sulla prosa cinquecentesca italiana».
Argomento assai improbabile nei dibattiti pubblici di oggi fra scrittori…
«Il fatto è che, nell’istante in cui la “società” cessa di essere un valore, – “There’s no such thing as society”, non esiste la società, ci sono gli individui e basta, sentenziò Margaret Thatcher, campionessa della modernizzazione –, il rapporto con il passato smette di essere con qualcosa che è vivo e può parlarci, e diventa solo “museale”. E così, per esempio, non c’è neppure più interesse ad ascoltare la voce degli esclusi, degli ultimi, come facevano Elsa Morante e Anna Maria Ortese: al governo della società interessa investire solo in quelle zone in cui la cultura si trasforma in gastronomia, moda, luogo per gli smart-people e spettacolo artistico-culturale, ma non arte».
Ma così è anche la fine della letteratura come la vedeva Neri Pozza. Di “arte e poesia”, e tutto il resto è silenzio, per dirla con Shakespeare.
«Sa quante volte è stata annunciata la fine della letteratura? No, si può avere un’epoca come la nostra, in cui dilaga la fiction, libri ben fatti e gradevoli da leggere, certo non letteratura. Eppure la letteratura è ineliminabile. Lo scrittore tedesco W. G. Sebald diceva che la narrativa diventa letteratura quando ti porta su cose non viste. Come Dostoevskij che narra di un giovane che ammazza una vecchietta senza motivazione e illumina il fenomeno del nihilismo prima di qualsiasi saggio. La verità è che oggi, nell’incrocio di mondi differenti, sta crescendo una nuova letteratura. Che noi cerchiamo di raccogliere. Certo, gli scrittori capaci di immergersi nell’oscuro con chiarezza sono sempre, come una volta, un’infima minoranza. Ma è sempre una minoranza che annuncia il nuovo spirito del tempo».
Qual è la sua visione?
«Noi cerchiamo di ricostruire una società letteraria critica attorno alle nostre edizioni. Poiché è impossibile scoprire 100 talenti letterari all’anno, come Wanda Marasco, che per me è un grande talento italiano, o i nostri autori Edward St. Aubyn o Amitav Ghosh, tentiamo di pubblicare un intrattenimento letterario che abbia un certo valore conoscitivo di rapporto con il passato, storico o artistico. In questo momento trovo interessante ciò che sta accadendo in Germania, una riflessione e reinterpretazione del periodo ante-Muro o sulla tragedia della guerra: come il romanzo di Ralf Rothmann Morire a primavera. A questo, affianchiamo la ricerca di nuovi talenti letterari, anche in Italia: mi piacerebbe esplorare il giallo politico sociale alla Sciascia, come Il giorno della civetta. Purtroppo non ci sono tanti scrittori di questo genere».
Alla fine, la casa editrice è approdata a Milano. Dopo la morte di Neri Pozza, per un po’ venne gestita dal gruppo Longanesi di Mario Spagnol. Finché nel 2000 arriva a guidarla lei, quando Confindustria Vicenza e Confindustria Verona, azionisti del gruppo Athesis, ne riprendono il controllo al 100%.
«Le altre edizioni colte avevano lasciato spazi di mercato e c’era la possibilità per ridare vita a una casa editrice che si riappropriasse delle aspirazioni del fondatore. Ho creato una grafica con un lettering fisso, caratteri garamond all’interno e copertina in brossura con carta acquarello, in assoluta controtendenza con le copertine cartonate lucide degli altri, in modo da essere immediatamente riconoscibili nel settore della narrativa letteraria».
Primo libro?
«La ragazza con l’orecchino di perla, di Tracy Chevalier».
Un botto.
«Un milione di copie, una fortuna sfacciata esordire così. Ma era anche perfetto per ciò che volevamo fare. Un altro autore fondamentale per la Neri Pozza è stato Amitav Ghosh».
Che era pubblicato da Einaudi.
«Era insoddisfatto per varie ragioni sue, così lo scout mi procurò un incontro dall’agente americano dello scrittore, in una splendida casa newyorkese: volai là per spiegargli il progetto della casa editrice. Lui, che veniva dalla stesso ambiente degli scrittori descritti da Joanna Rakoff nel libro Un anno con Salinger – un mondo editoriale isolato e snob, che usava vecchie macchine da scrivere, che aveva un’autorevolezza enorme – si convinse subito. Al Salone del Libro di Torino 2016, Ghosh viene a parlare proprio della differenza fra questi due mondi».
Il rapporto con gli autori è molto diverso oggi rispetto agli anni del fondatore?
«Forme di dialogo comparabili a quelle che i carteggi ci raccontano degli anni di Neri Pozza, purtroppo, mi capitano più che altro con gli autori stranieri. Con Edward St Aubyn ho parlato per ore di Shakespeare e Harold Bloom… Per Shantaram, il grande successo di David Gregory-Roberts, vincemmo l’asta, anche contro un grande gruppo che offriva di più, perché lui aveva scritto un saggio di teoria del romanzo in cui citava il filosofo Jacques Derrida, e io dissi che ero stato un suo “allievo”, anche se in realtà avevo seguito un seminario all’università…».
E con gli italiani?
«È più difficile: hanno l’aspetto di chi dice: sto facendo un mestiere. Con qualche eccezione, come Wanda Marasco, appunto, poetessa e scrittrice molto colta. Ma è come se si fosse consumata una rottura».
Sono anni durissimi per l’editoria in generale.
«Ci sono anche nuovi segnali internazionali incoraggianti. Dopo la crisi delle librerie cominciata con l’esplosione dei megastore, e poi la grande crisi degli stessi megastore, in America si registra la rinascita delle piccole librerie specializzate. Anche in Italia, una catena libraria di pura narrativa letteraria, come le Feltrinelli negli anni 70, potrebbe avere oggi un grande successo: essere un luogo di incontro e di interazione con i lettori. E non è certo un caso se, in questo momento, ci sono editori di qualità che hanno deciso di percorrere la strada da soli, anziché quella del mega-gruppo. Quando Umberto Eco, prima morire, annunciò La Nave di Teseo con Elisabetta Sgarbi – «Facciamo questa follia» – in realtà era pienamente nel corso delle cose nuove che possono accadere».