Giuseppe Corsentino, ItaliaOggi 5/5/2016, 5 maggio 2016
BIN LADEN CACCIA 77 MILA OPERAI
da Parigi
Vero che le colpe dei figli non ricadono sui padri, sui fratelli, sui cognati, sui cugini ma la famiglia Bin Laden, quella dov’è nato e cresciuto il gran terrorista Osama, ora ha anche ben altro da farsi perdonare (almeno secondo una certa idea di etica del lavoro ancora praticata in Occidente).
Bakr Bin Laden, fratellastro di Osama, che ha scelto la assai più comoda carriera di amministratore delegato dell’impresa di famiglia (il Bin Laden Group, colosso saudita delle costruzioni e dell’immobiliare, per decenni monopolista assoluto, per volere del vecchio monarca fondatore delle dinastia saudita, Abdelaziz, degli appalti pubblici nell’area sacra della Mecca), sabato 30 aprile, ma la notizia è trapelata solo ieri attraverso il corrispondente di France Press a Beirut, ha licenziato di colpo 77 mila operai, soprattutto pachistani, egiziani, filippini, che lavoravano nei cantieri di Gedda e della Mecca.
Settantasettemila operai sono un terzo di tutti gli organici del gruppo Bin Laden e già questo colpisce e fa capire quanto sia pesante la crisi che ha colpito l’economia della petro-monarchia saudita, che in poco più di un anno ha visto precipitare il suo pil del 16% dopo il crollo (-16%) dei prezzi del petrolio, unica revenue del paese.
Ma colpisce anche il modo con cui il gruppo Bin Laden, da sempre fiore all’occhiello dell’imprenditoria saudita, famosa per aver costruito gli edifici più emblematici della Mecca come la Torre Faisaliah e come la Torre dell’orologio alta 600 metri, vero moderno landmark dei luoghi santi, ha dato il benservito a 77 mila persone, muratori, capimastri, ebanisti, falegnami, saldatori, manovali, impegnati da anni nei cantieri del gruppo.
Non sono stati convocati negli uffici della Bin Laden a Gedda e congedati con una lettera e una busta contenente le spettanze, stipendi e arretrati come usa anche in paesi in cui il licenziamento è, per dirla con il portavoce del gruppo intervistato da France Press, «une mesure de routine», insomma ordinaria amministrazione.
No.
Semplicemente hanno trovato i cantieri chiusi e presidiati dalla polizia. Né ultimo stipendio né arretrati. I padroni sauditi fanno così, a quanto pare, e nessuno si lamenta. Né tantomeno gli altri 12 mila sauditi (su 17 mila) dipendenti della Bin Laden, in gran parte impiegati, che rischiano di perdere il posto visto il crollo del settore immobiliare e il blocco, deciso personalmente dal nuovo sovrano, Salam, dei cantieri del gruppo un tempo così amato dalla monarchia.
Conseguenza della strage di 109 pellegrini morti a settembre scorso sotto una gru di uno dei tanti cantieri della Bin Laden Group alla Mecca. Forse era l’occasione che Salam e suo figlio, il potente Mohamed Ben Salam, ministro della difesa e capo del consiglio per gli affari economici, vera eminenza grigia della monarchia, aspettavano per chiudere la partita con i Bin Laden la cui assiduità a corte veniva considerata imbarazzante dai nuovi vertici, anzi dai nuovi padroni. E così i cantieri della famiglia sono stati chiusi, come si diceva prima, e a tutti i suoi dirigenti, ritenuti responsabili della strage della Mecca, è stato ritirato il passaporto.
La risposta è stata all’altezza della sfida: Bin Laden vs re Salam: 77 mila licenziamenti col rischio d’innescare una spirale di tensioni sociali in un paese che non ha mai conosciuto crisi economiche e che non ha mai rispettato (nel silenzio dell’Occidente) i diritti civili dei lavoratori.
Tant’è che nei giorni scorsi è accaduto un fatto incredibile: un gruppo di operai pachistani ed egiziani licenziati ha protestato davanti agli uffici della Bin Laden a Gedda e una decina di autobus della compagnia sono stati dati alle fiamme alla Mecca. È la globalizzazione, bellezza! si potrebbe spiegare a Sua Maestà Salam, re dell’Arabia Saudita.
Giuseppe Corsentino, ItaliaOggi 5/5/2016