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 2016  maggio 03 Martedì calendario

RIAD SALE SULLA GIOSTRA DEI FONDI SOVRANI

Fino a un anno fa erano considerati i padroni del mondo: compravano di tutto, dai magazzini Harrods di Londra (Qatar) al 10% di Blackstone (Cina), dal 5% della neoquotata Ferrari (Abu Dhabi) a squadre di calcio come il Paris St.Germain (ancora Qatar) nonché partecipazioni di rilievo in banche quali Citigroup, Ubs, Credit Suisse, Barclays, fino allo stesso London Stock Exchange (Dubai). Poi, all’improvviso, la frenata: il crollo dei prezzi petroliferi ha sconvolto il panorama dei fondi sovrani d’investimento, bloccando gli acquisti (non del tutto per la verità) e costringendo molti di questi a dirottare in tutta fretta risorse verso il salvataggio dei rispettivi Paesi, quasi tutti dipendenti completamente dalla fonte greggio per le loro entrate. È sempre complesso leggere la verità nei loro bilanci, ma esperti indipendenti calcolano che il valore totale dei fondi sia sceso da 5 a 4 trilioni di dollari (migliaia di miliardi ) per quanto riguarda i fondi propriamente detti, cioè quelli che non hanno voci predefinite al passivo: aggiungendo questi ultimi private equity, fondi pensione, fondi degli stati federati - il totale arriva a 7-8 trilioni, oltre il 10% dei patrimoni gestiti nel mondo. Non c’è solo il crollo del petrolio a impensierire i sovereign wealth funds, definizione coniata dall’economista britannico Andrew Rozanov nel 2005: il fondo norvegese, il più grande in assoluto con 870 miliardi di dollari di patrimonio, nato come la maggior parte per utilizzare i proventi del petrolio, ha chiuso nei primi tre mesi di quest’anno il suo terzo trimestre consecutivo in perdita. In questo caso, per unire danno a danno, Trond Grande, Ceo della Norges Bank Investment, il manager del fondo, ha detto che si è aggiunta la volatilità dei mercati che ha portato a perdite sulle partecipazioni in Shell, Verizon, Tesco, Credit Suisse, Novartis e Hsbc, che sono state contabilizzate e costringeranno a fine anno al ritiro di quote del patrimonio per la prima volta nella storia e con decenni di anticipo sul previsto. Si parla di 40 miliardi di dollari: neanche ai tempi dei fallimentari investimenti nelle agenzie americane Fannie Mae e Freddie Mac (il fondo perse 16 miliardi di dollari) si era dovuto intaccare il pool di denaro. È soprattutto il crollo del petrolio e delle altre materie prime a creare un po’ ovunque situazioni di emergenza: «Il Cile, che aveva recentemente creato un suo fondo sovrano per riciclare i proventi del rame – spiega Bernardo Bortolotti, direttore del Sovereign Investiment Lab alla Bocconi – è stato costretto a farne subito un altro solo per compensare le oscillazioni delle quotazioni e dei cambi». Il panico da petrolio è scoppiato invece nel mondo arabo. Anche in modo indiretto: al fondo sovrano Kio (il più antico, creato nel 1953) è stato costretto a ricorrere il governo del Kuwait per fronteggiare lo sciopero degli addetti petroliferi che ha portato per due settimane la produzione a crollare da 3,2 a 1,4 milioni di barili al giorno con grosse falle finanziarie da colmare all’istante. E la crisi sindacale era dovuta ai tagli di paga imposti dal crollo delle entrate. Altrettanto fragili sono diventati all’improvviso i vari fondi del Qatar, attivi anche in Italia dove hanno comprato all’inizio del 2015 il quartiere di Porta Nuova a Milano (25 edifici fra cui la torre Unicredit, un affare da 2 miliardi), poi il complesso della Costa Smeralda, gli alberghi di lusso romani Baglioni (nonché il palazzo adiacente dall’Unicredit con cui è in programma l’ampliamento dell’albergo), Excelsior, Grand Hotel, e infine il palazzo ex American Express di piazza di Spagna dove sono in corso i lavori per farne la sfavillante sede della maison Valentino, comprata sempre dai qatarini due anni fa per 760 milioni. I lavori vanno a rilento. Su questa grandeur («peraltro non casuale perché i fondi sono tutti gestiti con grande personalità con personale di formazione occidentale di altissimo livello», puntualizza Bortolotti) cala l’ombra della crisi petrolifera. Che coglie oltretutto i Paesi arabi in un momento delicatissimo: proprio in questi anni e con questi finanziamenti, stavano cercando di diversificare gli investimenti per non dipendere solo da una fonte (oltretutto non eterna). Il nervosismo è palpabile: una piccola controversia ha portato l’Abu Dhabi International Petroleum Investment Company a ritirarsi dall’investimento miliardario nel fondo di sviluppo malesiano; la Beinsport (del gruppo Al Jazeera finanziato dal Qatar), che aveva vinto pagandoli carissimi i diritti televisivi sul calcio francese, ha dovuto cedere parte del suo investimento a Canal Plus; gli Emirati Arabi Uniti stanno introducendo per la prima volta nella storia una corporate tax per recuperare un po’ di soldi. E il fondo Mubadala di Abu Dhabi sta cercando di rivendersi la partecipazione di maggioranza in Piaggio Aero (in pole c’è Finmeccnaica) che aveva rilevato solo due anni fa. In questo quadro si è inserita la notizia-choc della settimana scorsa: l’Arabia Saudita progetta di creare il più grande fondo del mondo, prendendo come base la Sama (Saudi Arabian Monetary Agency), che non è tecnicamente un fondo vero e proprio perché coincide con la banca centrale, ma è già servita da cassa anticrisi con 200 miliardi di prelievi in due anni che hanno fatto scendere la consistenza a 623 miliardi. La cifra prospettata ( si veda editoriale in prima pagina ) è da brivido: duemila miliardi di dollari, sufficienti per comprare Apple, Google, Microsoft e Berkshire Hathaway, le quattro società più capitalizzate del mondo. E per garantire l’ helicopter money a metà dei 21 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita: il governo di Riad prevede elargizioni dirette di denaro perché sta varando pesanti tasse sui consumi che vuole far pagare solo ai più ricchi. Il tutto su iniziativa del principe Mohammed bin Salman, 30 anni, uomo forte di Riad per volontà-delega del re. Ma prima del lancio bisognerà quotare il 5% dell’Aramco, la compagnia petrolifera saudita (non avverrà prima del 2018), e condurre in porto una serie di privatizzazioni. Dopodiché il progetto è di lanciarsi in una fantasmagorica raffica di acquisizioni in ogni angolo del pianeta nei settori più disparati, con un punto fermo: niente petrolio. Quali saranno le conseguenze di questo frisson sull’universo dei fondi sovrani, è tutto da vedere. Per ora – loro che erano abituati ad essere considerati i cavalieri bianchi per eccellenza – stanno cercando di adattarsi non senza difficoltà al ruolo di junior partner in operazioni condotte da altri, magari potenti gruppi dello stesso Paese. Succede per esempio a New York dove il gruppo Olayan di una delle più potenti famiglie saudite sta trattando l’acquisto per 1,5 miliardi di dollari del Sony Building, uno dei più prestigiosi grattacieli di Manhattan. E alla Sama è stato negato perfino un posto in consiglio d’amministrazione. La consistenza dei fondi sovrani a fine 2015, oggi un po’ scesa per la crisi petrolifera. Convenzionalmente è compresa la Sama che non è tecnicamente un fondo Sopra, la Borsa di Dubai, sotto il principe Mohamed bin Salman, uomo forte saudita
Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 3/5/2016