Malcom Pagani, Vanity Fair 4/5/2016, 4 maggio 2016
«IO CIRO LO CONOSCO». INTERVISTA A MARCO D’AMORE – Soprannomi di casa D’Amore: «Io e mio fratello chiamavamo mia madre la cucchiarella più veloce del West
«IO CIRO LO CONOSCO». INTERVISTA A MARCO D’AMORE – Soprannomi di casa D’Amore: «Io e mio fratello chiamavamo mia madre la cucchiarella più veloce del West. Nelle sere d’estate, quando la combinavamo grossa, ci inseguiva con il mestolo per lasciarci un marchio rosso sulle gambe nude». Di tutti gli altri segni della vita, sotto il cappuccio della tuta che gli copre in parte il volto neanche fosse il Ciro sempre in fuga interpretato nella seconda stagione del Gomorra di Stefano Sollima, in onda su Sky Atlantic dal 10 maggio, Marco D’Amore, casertano dell’81, non porta cicatrici evidenti: «Se proprio esistono, sono da ricercare sul palco». Tra un camerino e lo specchio, D’Amore ha trascorso metà della sua vita. Iniziò a 16 anni: «70.000 lire a recita nel teatrone parrocchiale animato da Andrea Cunto». Il primo contratto. «E i primi moccoli ad alta voce di mia madre. In me vedeva suo padre, Ciro Capezzone, attore che aveva recitato per Francesco Rosi in Tre fratelli. Il primo film visto al cinema in assoluto». Suo nonno era un cattivo esempio? «Creava sofferenza e insofferenza. In famiglia essere attori equivaleva a una patente di inaffidabilità. Ogni tanto il nonno partiva e si eclissava per riapparire settimane dopo: “Sono stato in Calabria, ho recitato davanti a 10 sconosciuti, ho un video, ve lo mostro?”. Era considerato un caso irrecuperabile». Quindi per lei le cose sarebbero dovute andare diversamente? «Volevo diventare musicista. Suonavo il flauto e il clarinetto, sognavo di cantare in un’orchestra. A recitare proprio non ci pensavo». Invece è diventato Ciro l’immortale, boss in una Napoli disperata. «Mia madre mi avrebbe voluto medico o insegnante. Provai a accontentarla, mi iscrissi a Lettere e Filosofia. Avevo diciott’anni ed ero stato appena inglobato nella compagnia di Toni Servillo. La scintilla della recitazione ormai si era accesa». Come andò con i libri? «Mi presentai alla prima prova. Il professore mi disse grave che avrei dovuto prepararmi meglio perché – suggerì – “non c’è grande attore della nostra terra che non sia anche un uomo colto”. Annuii, gli restituii il libretto e lo salutai caramente. Alla fine non sostenni neanche un esame, ma non ho rimpianti». Perché? «Ho fatto da me, da autodidatta. Ho studiato dopo. Sa cosa mi dicono stupiti i ragazzi quando mi incontrano?». Cosa le dicono? «“Ciruzzo, ma allora tu parli italiano?”. Vedono il ceffo di Gomorra e tendono a sovrappormi a lui». Le dispiace? «Per niente, è un riflesso naturale. A Gomorra devo moltissimo. Essere Ciro mi ha permesso di sviluppare altri progetti. Ho sfruttato il ruolo e in qualche modo il ruolo ha sfruttato me. È una logica di mercato che conosco e che capisco. Se non avessi recitato in Gomorra non avrei potuto mettere in piedi Un posto sicuro di Francesco Ghiaccio. Un film sui danni dell’Eternit. Un’opera prima di cui sono molto fiero. Alle proiezioni ho incontrato migliaia di ragazzi. Arrivavano per conoscere Ciro e uscivano dalla sala turbati, consapevoli di un’altra storia». Come si sente nei panni del cattivo? «La cattiveria, proprio come la bontà, è soltanto un sentimento che fa parte della mia natura. In Gomorra l’ho tirata fuori: esprimendola ho scoperto che anche Ciro, con le sue contraddizioni e con il suo inferno, in qualche modo, faceva parte di me. Non è vero che gli attori interpretano altre vite diverse dalla propria». E che cosa è vero? «Che i personaggi sono delle protesi, dei prolungamenti di quel che sei intimamente. Delle rielaborazioni di quel che hai ascoltato, detto e vissuto. Per interpretare qualcuno, insomma, peschi sempre dentro di te». Non le pesa essere identificato come un perfido tout court? «Ma neanche un po’. Quando muore Lady Macbeth io piango. Non certo perché lei sia buona, ma perché sono sempre dalla parte del racconto e non palpito mai per chi fin dall’inizio mi suggerisce: “Sono bravo, buono e senza peccato”. Lo stesso credo capiti a chi vede Ciro sullo schermo. È un uomo di merda, ma per qualche strana ragione chi lo osserva non lo giudica e non desidera che quella merda abbia il destino che merita». Ragionando di Gomorra qualcuno ha evocato la tragedia greca. «Gomorra è epica. Gomorra è un po’ Iliade e un po’ Odissea. Ma la commedia, se ci riflette, non è altro che il grado zero della tragedia. Quando vedi qualcuno scivolare su una buccia di banana, ridi. Quando vedi le inenarrabili sfighe di Chaplin, sghignazzi. Perciò tenimm due emisferi nel cervello. Perché non tutto è lineare, scontato, prevedibile». Lei è cresciuto a Caserta. «Con tutta quella marea umana che da Napoli, per una ragione o per l’altra, era stata cacciata. Sono cresciuto in mezzo alla strada e grazie a Dio, grazie ai miei genitori soprattutto, in strada sono rimasto. Se dicevano “no” era no, ma non ci hanno mai impedito di scoprire il bello e il brutto sbattendoci il muso in prima persona». In strada c’era cattiveria. «Anche. E c’era cattiveria nelle dinamiche adolescenziali. Mentre stavo leggendo i copioni di Gomorra, mi è tornata in mente una scena che avevo vissuto». Ce la racconta? «Siamo di fronte alla mia scuola. Una ragazza picchia una sua coetanea con un giornale arrotolato. La costringe a inginocchiarsi e a chiederle scusa per aver osato insidiarle il fidanzato. L’altra subisce e non chiede aiuto: “Sono fatti nostri, che cazzo tenite da guardà?”, urla. Tiene lo sguardo basso. E non solo per non sfidare chi la sta punendo davanti agli altri, ma per escludere la realtà. Per ignorarla volontariamente. Dalle nostre parti capita a tanta gente». Antonio Pascale, Francesco Piccolo, Roberto Saviano. Tra i tanti casertani partiti alla conquista di Roma lei fa eccezione e proprio come Toni Servillo è rimasto a vivere a Caserta. «Mi sento a casa perché non ho bisogno di camuffarmi. Posso andare a fare la spesa in pantofole. Mi conoscono. Nessuno mi rivolge la parola perché mi ha visto in Tv». Qui, in un bar di Roma, con la visiera del cappello calata sugli occhi invece è costretto a camuffarsi? «Un po’. Ed è assurdo. Penso che la popolarità sia il più grande controsenso possibile per un attore. Dal momento in cui diventi popolare non puoi più spiare. E spiare è la base del mio mestiere. Sentire come parla quello, vedere come si muove quell’altro, capire perché quei due ragazzi lì in fondo alla sala – li vede quei ragazzi appassionati in fondo? – si baciano con quel trasporto». Sky ha venduto Gomorra in tutto il mondo. La fiction italiana è uscita dai confini nazionali. Arriveranno presto offerte di lavoro e premi. «Dubito che arrivino i premi. Per essere premiati bisogna sapersi vendere ed è un talento in cui non primeggio. Vendersi è un altro lavoro. Io faccio soltanto l’attore. Servillo – che è il gigante che è, ma che rifiuta l’ipotesi di autopromuoversi – ha vinto il primo premio solo dopo 30 anni di carriera». Lei dove si vede tra trent’anni? «E chi lo sa? Stiamo sotto ̓o cielo. Magari apro una pizzeria con la mia fidanzata. Si ricorda cosa dice Arbasino? La carriera di ognuno di noi attraversa tre fasi: giovane promessa, venerato maestro e solito stronzo». Lei a che punto del percorso si sente? «All’inizio. Nuoto in un ambiente in cui esaltazione e depressione sono la regola e in un tempo in cui le parabole sono orientate dalla frenesia. Abbattere chi ha successo è uno sport tipicamente italiano. Prenda Saviano. Ha scritto cose importantissime e, invece di essere ringraziato, si è dovuto difendere». Quindi? «Quindi per ognuno di noi esiste un percorso. Un diagramma prevede ascese e cadute. I consuntivi si fanno tenendo conto delle fasi storiche e dell’ispirazione più o meno felice. Non è che contesti Scola perché Splendor è meno dirompente di C’eravamo tanto amati, ma dici: “È un grandissimo regista che ha girato film bellissimi e film meno riusciti”. Lo stesso vale per gli attori. Ci vogliono fatica ed elaborazione. Ci vuole il lusso di poter sbagliare. Quando ascolto un ragazzo senza arte né parte dire: “Sono un attore”, io mi incazzo». E perché? «Perché gli attori li conosco e conosco la fatica che ci vuole per ritenersi tali». Non siamo tutti un po’ attori? «Non ci ho mai creduto. Mi sembra una grandissima stronzata». E a cosa ha creduto? «Quando ero giovanissimo ho creduto alla politica. Ero molto di sinistra. Partecipavo ai movimenti. Oggi sono disilluso». Anche da Renzi? Non lo considera un uomo di sinistra? «Renzi è di sinistra? A un’occhiata sommaria, non mi pare proprio».