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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

A OGNI DRIBBLING QUEST’UOMO SCRIVEVA UN ENDECASILLABO

I giocatori brasiliani hanno nomi bellissimi. Prendete Ricardo Izecson dos Santos Leite, sentite che meraviglia. Eppure lo conoscono in mezzo mondo come Kaká, uno dei nomignoli più infami che si possano immaginare. A Edson Arantes do Nascimento non è mai piaciuto essere chiamato Pelé, il soprannome che gli diedero da bambino forse perché storpiò il cognome di un suo amico che giocava in porta. Ma quel nickname diventò subito, a partire dal 1958, un brand mondiale (quando molti ancora non sapevano bene che cosa fosse un brand) e allora ha dovuto tenerselo.
A Pelé piaceva di più essere chiamato Dico (“gico” nella pronuncia portoghese) come lo chiamavano in famiglia. Erano poverissimi i Nascimento. Il papà, João Ramos, era il più umile uomo delle pulizie dell’ospedale di Bauru. E il piccolo Dico arrotondava il magro bilancio familiare facendo il lustrascarpe. João Ramos aveva sperato in una vita diversa e aveva avuto anche l’opportunità di viverla. Ma il sogno brasiliano (diventare una stella del calcio) lo aveva sedotto e poi abbandonato giocando con lui come il gatto con il topo. Era stato un buon centravanti, João Ramos do Nascimento, ma ai suoi tempi, gli anni Trenta, centravanti ce n’erano di grandissimi e il più forte era Leônidas, detto il Diamante Negro. Il nome di battaglia di João era, più modestamente, “Dondinho”. La sua carriera si svolse quasi per intero nel Bauru dopo che a un provino con il forte Atlético Mineiro era stato scartato (pare perché impaurito dalla violenza del difensore che lo curava). Ma era un buon giocatore, alto un metro e 83, molto tecnico (segnò cinque gol tutti di testa in una partita record che, probabilmente, non è stato mai più battuto). Gli archivi del calcio brasiliano sono spesso fatti di voci che si tramandano (e magari a ogni passaggio ognuno ci aggiunge quello che ci vuole aggiungere) più che di carte e di documenti. Una di queste voci dice che Dondinho vestì anche la maglia del Brasile Under 20 e la onorò con la più che rispettabile media di due gol a partita. Un’altra voce che si tramanda dice che Pelé abbia tentato in tutta la sua carriera di battere il record paterno dei cinque gol di testa senza riuscirci. Ma questa deve essere una bufala perché Dico a suo padre (morto nel 1996 a 79 anni) gli ha voluto bene e, in generale, Pelé è uno che ha sempre dato l’idea di aver voluto bene a tutti. E tutti, a parte un po’ Maradona, gli hanno voluto bene. Giovanni Trapattoni, che lo marcò nella citatissima amichevole Italia-Brasile giocata a San Siro nel maggio 1963, dichiarò: «Era così bravo che non veniva nemmeno voglia di picchiarlo».
Predestinato. Nelle prime scene di Pelé, il film dei fratelli Zimbalist, si riprende un’altra diceria relativa a João do Nascimento e suo figlio. È il giorno fatale del Maracanaço, il 16 luglio 1950, quando l’Uruguay battè (al Maracanã di Rio per l’appunto) il Brasile sfilandogli un Mondiale che i brasiliani davano ormai già per stravinto. Alla fine di quella partita, che fu una tragedia nazionale con morti suicidi non metaforici, il piccolo Dico, 9 anni, per consolare il padre disperato gli avrebbe detto: «Vedrai, la Coppa del Mondo la farò vincere io al Brasile». Se non è vera è verosimigliante, Pelé era un predestinato come disse il talent scout del Santos, Waldemar de Brito, l’uomo che lo scoprì. È dei predestinati esordire a 15 anni e giocare i Mondiali a 17. Erano quelli del 1958 in Svezia e i padroni di casa (uno squadrone con fuoriclasse come Nils Liedholm, Nacka Skoglund e Kurt Hamrin) erano favoritissimi. Pelé arrivò in Scandinavia reduce da un infortunio abbastanza grave e con un formidabile José Altafini (detto “Mazola”, con una zeta sola, in onore di Valentino, il favoloso numero 10 del Grande Torino) a sbarrargli la strada per un posto da titolare. Quei Mondiali erano una specie di ultima spiaggia per il Brasile. Dopo la disfatta del 1950 anche nell’edizione del 1954 la squadra non era andata bene uscendo ai quarti con l’Ungheria di Puskás in una partita dove successe di tutto, compresa qualche bottigliata in testa negli spogliatoi. I critici di calcio (che sono peggio di quelli cinematografici e letterari) davano la colpa delle brutte figure brasiliane in campo internazionale allo stile di gioco ormai invecchiato e superato dai moduli europei. Secondo altri, invece, la nazionale verdeoro continuava a contare troppi giocatori bianchi e penalizzare i campioni neri (il Diamante Negro era stata un’eccezione). Vicente Feola, il mister, si era lasciato convincere: bisognava giocare in maniera moderna, nuova. Lui aveva una fede assoluta nel suo schema il 4-2-4.
Buona parte di quel Mondiale lo vinse Pelé. Fece tre gol alla Francia e una doppietta in finale alla Svezia. Il primo gol contro Liedholm & Co è considerato da molti il più bello segnato a un Mondiale. Giocava all’europea Pelé come era previsto nel nuovo corso tecnico-tattico brasiliano? No. Come spiega bene il film dei fratelli Zimbalist, direttamente ispirato da Pelé per quanto riguarda la filosofia calcistica, il suo modo di giocare era quello classico dei ragazzi in strada e sulle spiagge. Era l’amata ginga, lo stile che derivava addirittura dalla capoeira, la forma di lotta/danza praticata nella notte dei tempi dagli schiavi africani deportati in Brasile dai portoghesi. Il calcio era la prosecuzione della capoeira con altri mezzi: il dribbling, il palleggio, il colpo di tacco, il morbido stop di petto, il sombrero, il tunnel, la finta di corpo e tutti gli altri effetti speciali del pallone.
Era quello che Gianni Brera chiamava il fútbol bailado del Magno Brasile. Lo diceva con ammirazione ma ne vedeva i limiti. Così infatti commentò il Maracanaço: «i brasiliani non ritennero di doversi accontentare: lasciarono agli attenti uruguagi tali spazi da costringerli quasi ad infilarsi in quelli: partì primo Schiaffino e fu 1-1: nel finale trovò lo spunto Ghiggia e il 2-1 gettò nella disperazione quei boriosi cultori del fútbol bailado». La Celeste (la nazionale uruguayana) vinse contro il Brasile perché in svantaggio per 1 a 0 scelse di difendere la sconfitta e non di lanciarsi risentitamente e scelleratamente all’attacco. Fu lo stesso errore che il Brasile commise trentadue anni dopo quando non difendendo il pareggio fu eliminato dall’Italia di Bearzot nel Mondiale spagnolo.

Un difetto? I piedi piatti. Il suo credo calcistico difensivista non impedì a Brera di riconoscere e celebrare la magnificenza di Pelé. In suo onore scrisse uno dei suoi pezzi più belli. Ma definirlo pezzo è molto riduttivo. Per dire quanto era bravo Pelé, Brera scelse come pietra di paragone non un altro calciatore ma un grande poeta, Giacomo Leopardi. Ogni giocata di Pelé era, secondo Brera, come un endecasillabo di Leopardi. Pelé stoppa la palla, la accarezza, corica in dribbling il primo avversario come un birillo, ne evita con una piroetta un secondo, dribbla di nuovo o passa a un compagno, poi corre verso la porta per andare a concludere in gol. Ecco, tutto questo Brera lo affianca, in un montaggio parallelo, ai versi di La sera del dì di festa: «Dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna...». Non ci avete capito molto? Fidatevi, il paragone di Brera è bellissimo, suggestivo e molto probabilmente corrispondente al vero.
Qualcosa di simile la disse anche Pier Paolo Pasolini quando sostenne che la poesia del calcio sono i gol e i dribbling e poi si chiese: «Chi sono i migliori “dribblatori” del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal». La ginga colpisce ancora.
Torniamo sulla terraferma. Dopo un lungo studio, Brera trovò finalmente un difetto a Pelé. Uno solo: aveva i piedi piatti (la notizia mi consola). Per il resto decretò: «Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull’altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelé. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione». Quella che Brera descrive è l’anatomia del più grande giocatore di tutti i tempi, come tante giurie negli anni hanno stabilito.
Lo so che per alcuni il dibattito è ancora aperto. Che Maradona, secondo costoro, è più forte di Pelé. In realtà, la decisione è stata presa da tempo e lo stesso Maradona lo ha ammesso una volta. È stato Pelè, caso mai, a rimettere tutto in discussione quando ha dichiarato che il più forte di tutti è stato Di Stefano (e una volta ha anche buttato lì il nome di George Best, il quinto Beatle).
Sempre di più il calcio giocato dal figlio di Dondinho appare come il calcio puro (nell’esecuzione e nell’ideazione), un calcio da paradiso terrestre prima che arrivassero la mela e il serpente. Dopo arrivò il calcio impuro (e bellissimo) di Maradona (la mano de Dios). La questione la riassunse proprio Pelé con proprietà tecnica e con ironia: «Maradona non calcia di destro e non segna di testa e l’unico gol importante che ha segnato di “testa” l’ha fatto con la mano».
Ci sarà mai più un Pelé? Chissà (probabilmente c’è stato prima di lui ed era Meazza). E tra i campioni in attività chi gli somiglia di più? Messi? No, in lui c’è qualcosa dell’automa che è il contrario dello spirito di Pelé. Cristiano Ronaldo? Per certe movenze gli si avvicina di più. Ma siamo lontani anni luce dal fuoriclasse che con ogni dribbling scriveva un endecasillabo.