Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 29 Venerdì calendario

RIVOGLIO IL MIO PALLONE E QUEI FUORICLASSE ORMAI TROPPO RARI. IL CALCIO ORA È SOLO BUSINESS: I GIOCATORI SONO SCELTI NELLA CULLA E BUTTATI NELL’ARENA ANCORA IMMATURI

Quello che difensori e allenatori di tutto il mondo non sono stati capaci di fare –cioè fermare Pelé –, a farlo ci hanno pensato gli anni. Settantacinque, ormai. Un femore con qualche problema, due operazioni, «l’unico infortunio serio della mia carriera», ed ecco “O Rei” finalmente seduto a riflettere, ricordare, metter giù un bilancio. È un caso che lo stop ad una attività tuttora frenetica abbia coinciso con un evento che comunque avrebbe costretto Edson Arantes do Nascimento a guardare indietro. È appena finito il montaggio di un film sulla sua vita, una produzione internazionale che sarà nelle sale italiane dal 26 maggio. Pelé ne parla in esclusiva con Sette. Prima di partire per un giro promozionale negli Stati Uniti. «Quindi adesso sto benissimo, ovviamente».
«Alla fine, tutto quello che volevo dalla vita è essere uguale a mio padre, giocare a pallone come lui. Niente di più. Non sognavo certo di diventare un grande campione. E tantomeno Pelé». È aneddotico il suo discorrere in terza persona, distinguere l’uomo Edson dal mito Pelé, senza traccia di falsa modestia, ma per una volta si può perdonare. Il film difatti è soltanto la storia del piccolo e spaurito Edson, il bellissimo rapporto con il padre, e finisce quando il giocatore ha appena 17 anni e sviene incredulo tra le braccia dei compagni dopo la finale di Stoccolma che diede al Brasile il primo titolo mondiale. Nella storia, interpretata da due giovani attori, il bambino e l’adolescente, quasi non si sente il nomignolo che l’avrebbe reso immortale. Parenti e amici lo chiamano “Dico”, e i radiocronisti dell’epoca “Nascimento”.
«La velocità tra la prima volta che presi un autobus per Santos e lasciai la mia città, Bauru, e quando già ero famoso nel mondo non è licenza della sceneggiatura. È la pura verità. È successo tutto nel giro di meno di tre anni. Anche oggi si dice che i calciatori vivono la loro adolescenza molto rapidamente, che non hanno il tempo di maturare. Ma c’è un abisso tra le due epoche». Ne riparleremo. A 17 anni, Edson è davvero un ragazzino spaventato, dentro e fuori lo spogliatoio, che subisce gli sfottò dei più grandi (c’è un José Altafini, “Mazola” per i brasiliani, un po’ troppo sadico nella fiction) e i rimproveri del tecnico della Seleção, Vicente Feola, per eccesso di dribbling e funambolismi. E ci sono i commenti razzisti dei commentatori svedesi, all’arrivo della squadra al Mondiale: guardateli, c’è uno senza un dito, un altro con una gamba più corta dell’altra (il grande Garrincha), e poi quel bambino negretto, venti centimetri più basso dei nostri difensori...

L’ascesa di “Dico”. Pelé non parla volentieri di razzismo in campo, di recente anzi ha sostenuto che sul tema si piagnucola troppo, suscitando polemiche. «Ma io di quella Coppa ho un unico grandissimo orgoglio. Il Brasile, come il mondo lo conosce oggi, è nato nel 1958. Prima di quel trionfo nessuno sapeva nulla, molti nemmeno dove si trovasse sul mappamondo. C’era gente in Svezia che mi chiedeva se ero nato a Buenos Aires... Io sono fiero di aver dato un contributo al fatto che almeno nello sport, nel calcio, noi siamo diventati i più conosciuti, oltre che i più bravi, nel corso del tempo. Guardando indietro dico che sì, ecco, questo mi basterebbe». Dal Maracanazo, la celebre sconfitta in casa con l’Uruguay fino alla vittoria di Stoccolma passano otto anni e il piccolo Dico diventa il grande Pelé. «È tutto vero. Io vidi mio padre piangere alla radio, quel giorno del 1950, e tutti gli amici attorno pure. E dissi: “Smettila papà, perché io vincerò un Mondiale per te”. Questa è l’altra grande missione che ho portato a casa». Cosa servirebbe oggi al Brasile, per uscire dall’incubo dell’ultima disfatta, il 7 a 1 con la Germania? «Devono succedere molte cose, è un cammino forse più lungo e penoso di quegli otto anni. La sconfitta del 2014 è peggio di quella del 1950, dove almeno il Brasile arrivò in finale, dopo aver giocato assai bene in tutto il torneo. Quello che non mi dà pace è come abbiamo vinto cinque titoli mondiali in giro per il mondo e persi i due in casa. Con tutte le strategie, le informazioni possibili. Non come una volta, che si andava a giocare a caso, non si conosceva l’avversario, al massimo due parole del mister, un super8 sfuocato...»

Ore e ore passate a perfezionare i tiri. «Vorrei che il Brasile del futebol ricostruisse la sua autostima, il suo orgoglio, la sua maniera di costruire campioni, ma so che la strada è molta lunga». Pelé fatica a parlare del calcio d’oggi, perché c’è assai poco che gli piace. Nel suo Paese e altrove. «Come è possibile che oggi al massimo c’è un campione per squadra? Una volta ogni buona formazione ne aveva almeno tre o quattro. Oggi non c’è un solo fuoriclasse nella nazionale tedesca, che pure è campione del mondo, e in tutto il campionato inglese, stranieri a parte. E nel mondo? Alla fine quelli veri sono soltanto in due, Messi e Cristiano Ronaldo». Nemmeno Neymar? «Lui è certamente il miglior brasiliano di questa generazione, ma è presto per considerarlo un campione assoluto».
Alla fine, può sorprendere, ma Pelé è d’accordo con la diagnosi di quell’eterno e universale tifoso da bar che parla come un disco rotto. «Sì, i soldi, il calcio che è soltanto business. All’origine del problema di pochi campioni e poche squadre, sempre le stesse, a lottare per i titoli, c’è l’eccesso di imprenditoria nel calcio, il rapporto diretto tra giocatore, procuratore e sponsor, l’esclusione dei club dalle decisioni che contano. Pensate che al mio Santos è rimasto solo il 20 per cento di quanto il Barcellona ha speso per avere Neymar. Vi sembra normale?». No, ma nemmeno che i giocatori ormai sono comprati dai grandi club quasi nella culla... «Infatti. Nessuno ha il tempo di maturare, di migliorare, sei buttato subito tra 80.000 persone che urlano». Come, appunto, successe ad un certo ragazzino di Bauru nel 1958. «Fu una eccezione. Ma io venni strigliato e spremuto dagli allenatori prima e dopo, passavo ore dopo gli allenamenti a perfezionare il tocco, il tiro. Sono nato Edson, Dico, Nascimento. Poi è venuto Pelé, dopo, quel tipo che non morirà mai».