Lanfranco Vaccari, SportWeek 23/4/2016, 23 aprile 2016
IL POETA DEL BASEBALL SPEGNE LA VOCE
Dopo 25 World Series, 3 perfect game, 20 no-bitters e 12 All-Star Game, Vin Scully ha deciso che questa sarà la sua ultima stagione. La 67ª, a 88 anni. È la voce dei Los Angeles Dodgers – e del baseball. Molti lo considerano il miglior radio/telecronista della storia. Non racconta, fa vedere. Non descrive, dipinge. «Noi siamo reporter che corrono affannati», ha detto Charlie Steiner, un suo collega ai Dodgers, da 48 anni nel mestiere. «Lui è un poeta che plana». Quando gli hanno chiesto di rimanere ancora un po’, ha sentenziato: «Quando è troppo, è troppo. Mi sento come quei giocatori che lanciano la palla con la stessa veemenza di sempre, solo che lei ci mette un po’ più di tempo ad arrivare».
Ad ascoltarlo, non si direbbe. La voce è sempre quella, musicale e rotonda; il tempismo, perfetto; la memoria, formidabile. Ha conosciuto tutti i grandi e come Roy Batty, il replicante di BladeRunner, ha visto cose che noi umani possiamo solo immaginare. Durante la preseason del 1950 a Vero Beach, Florida, ha incontrato Connie Mack, all’anagrafe Cornelius McGillicuddy, che era nato nel 1862, aveva giocato 10 anni nella Mlb, ed era da mezzo secolo manager e proprietario degli allora Philadelphia Athletics (sarebbe stata l’ultima stagione, morì quattro anni dopo). Nel 1953, a 25 anni, è diventato il più giovane a raccontare una World Series: i Dodgers, all’epoca ancora a Brooklyn, se la giocarono con i New York Yankees – e persero in sei partite. Nel 1974 era ad Atlanta quando Hank Aaron batté il 715° fuoricampo, superando Babe Ruth nel libro dei record. Nel 2001 era al Pacific Bell (ora AT&T) Park di San Francisco quando Barry Bonds batté il 71° home-run della stagione contro il pitcher dei Dodgers Chan Ho Park, aggiornando il record di Mark McGuire (avrebbe finito con 73).
Scully è nato nel Bronx quando a New York giocavano tre squadre: gli Yankees, i Giants e i Dodgers – viene dal quartiere dei primi, ha tifato per i secondi (soprattutto perché perdevano sempre), è diventato un’icona dei terzi, seguendoli nella costa occidentale quando vi si trasferirono nel 1958. Ha cominciato a lavorare a 11 anni, come strillone; consegnato il latte; riempito gli scatoloni alle casse dei supermercati; fatto il servizio a domicilio per una tintoria; pulito posate in un albergo. Si è arruolato in marina, verso la fine della Seconda guerra mondiale. Si è laureato in giornalismo alla Fordham University, dove giocava nella squadra di baseball (una volta ha giocato contro il futuro presidente George H. Bush, che stava a Yale, e sono tutt’e due andati 0-3 in battuta). Dopo la laurea, nel 1949, ha inviato il suo CV a 150 stazioni radio e solo una ha risposto, la WTOP di Washington, affiliata della CBS. Il resto, come dicono, è storia. Come storiche sono alcune sue frasi (It’s time for Dodgers baseball! è diventata lo slogan della franchigia) e l’intero racconto del nono inning del perfect game di Sandy Koufax contro i Chicago Cubs nel 1965, un pezzo di letteratura sportiva in diretta. I suoi silenzi; si è innamorato del boato del pubblico a 8 anni, quando ascoltava le partite nel salotto di casa, e quando Kirk Gibson batté l’home-run che diede ai Dodgers il titolo 1988, stette zitto per 67”, per poi dire: «In un anno così improbabile, è successo l’impossibile». E l’abitudine a fare le cronache sempre da solo: «Così posso conversare con l’ascoltatore invece che con chi ho di fianco», ha detto lui.
Ma forse la vera ragione è quella suggerita da Steiner: «I poeti non hanno bisogno di una spalla».