Tonia Mastrobuoni, D, la Repubblica 23/4/2016, 23 aprile 2016
ROBOT, SEI LICENZIATO
Negli angoli più rumorosi del reparto carrozzeria le macchine sbuffano e sferragliano senza sosta, e gli operai non hanno mai perso l’abitudine di infilarsi i tappi nelle orecchie, quando attaccano il loro turno. Heinz, un metro e novanta infilato a stento in una grezza tutona grigia, ci sorride brevemente prima di cominciare a sorvegliare il suo gigantesco robot. A Sindelfingen, appena fuori Stoccarda, 1.500 tonnellate di acciaio finiscono ogni giorno nelle gigantesche macchine che lo schiacciano, lo piegano, lo modellano, lo riempiono di sofisticati dettagli fino a trasformarlo in eleganti Mercedes. Nella fabbrica più antica della Daimler, le forze titaniche dei robot sfornano oltre 400mila automobili all’anno e sono diventate il simbolo di una piccola rivoluzione.
Da sempre, i manager delle fabbriche più all’avanguardia si arrovellano in tutto il mondo attorno a una parolina. Tanto abusata nei talk show quando si parla di economia, di globalizzazione, di industria, quanto poco compresa: produttività. Significa che le teste migliori delle aziende si chiedono come aumentare ciò che si fabbrica per ogni ora lavorata. E se Heinz e i suoi colleghi si proteggono dai rumori martellanti dei robot che piegano le lastre di acciaio, alle catene di montaggio più morbide, dove ci si occupa dei piccoli dettagli delle auto, il chiasso è ridotto al minimo e l’aria si riempie di musica e del chiacchiericcio delle radio.
I manager hanno capito che i nemici della produttività non sono la lentezza o le pause, come pensavano i padroni di una volta: è la noia. Hanno cominciato a fare in modo che gli operai si spostino da una catena di montaggio all’altra, perché non ripetano lo stesso gesto in eterno come in una pièce di teatro dell’assurdo. Hanno trovato rimedi perché non si spezzino la schiena, dunque montano pezzi di macchine sui robot che ruotano e si rovesciano a seconda del pezzo che va inserito per rendere il compito meno faticoso. E hanno cominciato ad accendere la radio per rendere più liete le ore degli operai con bulloni, cacciaviti e scocche. Il risultato è palese: i giorni di malattia sono crollati, l’umore è migliore, e con esso la produttività. Ovviamente non è romanticismo o filantropia, quella dei manager a caccia di guadagni: è pura strategia aziendale. La rivoluzione, però, non è questa. E l’affannosa gara globale del profitto non sempre produce conseguenze positive, almeno per i lavoratori. Lo si capisce appena si entra negli enormi hangar di Sindelfingen: nelle carrozzerie, il 90 per cento del lavoro è ormai affidato alle macchine. Una metonimia inquietante di una tendenza globale. I dati degli ultimi decenni parlano chiaro: la robotizzazione del lavoro è una minaccia. È il lato meno gentile del Graal dell’economia, della ricerca della produttività. E l’incubo della sopraffazione dei robot non è solo materiale per gli appassionati di Kubrik, Vonnegut o Marshall Brain. La jobocalypse, l’apocalisse del lavoro causata dalla sostituzione degli esseri umani con i robot, è una realtà che ci sta già franando addosso. A gennaio di quest’anno il World Economic Forum l’ha quantificata. Nei prossimi tre anni e mezzo circa 7,1 milioni di posti di lavoro nel mondo andranno in fumo, causa galoppante automatizzazione, disintermediazionc e altri orribili parole che significano soltanto che al posto di chiunque, un domani, ci potrebbe essere un pezzo di latta.
Ed è un trend che non si limita solo al lavoro degli operai: ormai è il terziario ad essere minacciato dalla robotizzazione galoppante. A meno che qualcuno non cambi idea.
Per capire la piccola rivoluzione del marchio con la stella, basta andare alla fine della fabbrica di Sindelfingen, dove gli operai, ancora rarefatti alle carrozzerie, si moltiplicano decisamente. E osservare una Mercedes classe S nera scivolare lucidissima e silenziosa dall’ultima catena di montaggio. Sul parabrezza un foglio bianco ne rivela la destinazione: Stati Uniti. E un codice nasconde il nome del cliente. Il bestione con destinazione Chicago monta 600 cavalli di potenza e viene da chiedersi dove la guiderà mai, l’anonimo proprietario, in un Paese dalle 110 miglia all’ora tassative ovunque. Ma tant’è. È soprattutto lo sguardo ai fari che fa letteralmente cadere la mascella: sono entrambi tempestati di brillanti Swarowski. E l’interno è un trionfo di dettagli in legni pregiati e pelli morbidissime.
Ecco il segreto dell’ultima svolta del marchio che ha inventato l’automobile, circa 130 anni fa. Per produrre automobili così “on demand”, così piene di particolari, così ritagliate sui desideri di milioni di clienti, i robot sono troppo pesanti, rigidi e stupidi. Daimler ha cominciato dunque a sostituirne alcuni con gli operai. O con macchinari più leggeri. Markus Schaefer, capo della produzione, ha spiegato in una recente intervista a Bloomberg che «i robot non riescono a fare i conti con il grado di individualizzazione e l’enorme varietà che proponiamo al giorno d’oggi». In effetti, è sufficiente farsi un giro sui siti web o andare da un concessionario per rendersi conto che le scelte che si possono fare su un solo modello di automobile sono ormai innumerevoli. E Schaefer sottolinea che «si tratta di una varietà che i robot non riescono ad affrontare». Di nuovo, il ritorno agli umani non è filantropia: l’obiettivo di Schaefer è dimezzare le ore che ci vogliono per costruire un’automobile: dalle 61 del 2005 a 30. E la chiave è rottamare i robot: «Assumendo persone al posto delle macchine risparmiamo soldi e ci assicuriamo un futuro», conclude.
«Ci sono cose che i robot fanno peggio degli esseri umani». Ralf Herrtwich, dolcevita grigio e giacca blu, ci accoglie nel suo ufficio bianchissimo di Sindelfingen. In realtà, se c’è un ingegnere che si fida dei robot, è lui. Herrtwich è a capo di un progetto fondamentale per il futuro della mobilità: quello delle automobili senza pilota. Nel 2013 ha collaudato la prima Mercedes “intelligente” su una tratta storica: quella percorsa dal primo essere umano in un’automobile. Centoventicinque anni prima Bertha Benz rubò l’automobile appena inventata dal marito, Carl Benz, e andò a trovare la madre di nascosto. Su quel percorso da Mannheim a Pforzheim l’ingegnere che ha studiato a Berlino e Berkeley si è reso conto delle potenzialità e dei problemi delle automobili robotizzate.
Il problema non è solo tecnico, la sfida non è solo programmare automobili in grado di interpretare miliardi di impulsi al secondo e compiere la scelta giusta. «È ovvio che all’inizio sarà più facile farle andare dove il traffico è più ordinato, in Nordamerica o Nordeuropa. Ed è altrettanto ovvio che una città come Roma», sorride, «non sia in cima alla lista. Se l’auto senza pilota dovesse guidare nel traffico “creativo” della vostra capitale, esposto a una miriade enorme di stimoli, guiderebbe in modo talmente cauto da scatenare, probabilmente, l’ira funesta di chiunque. Ma col tempo arriveremo anche lì». Il nodo vero, però, è quello legale.
Cosa succede se un’automobile deve scegliere se investire un pedone o mandare l’auto contro un palo per evitarlo, mettendo a rischio la vita dei passeggeri? In Germania, dopo l’attentato alle Torri gemelle, i tribunali hanno deciso che non si può scegliere di abbattere un aereo che sta andando a sbattere contro un grattacielo per un calcolo utilitaristico, insomma perché morirebbero meno persone. Dunque, neanche l’automobile non può scegliere se evitare il pedone o il palo. Può solo fare la cosa più elementare: frenare. Il vantaggio, conclude Herrtwich, «è che il robot può compiere scelte in un infinitesimo del tempo che ci vuole per qualsiasi essere umano. E non è poco».