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 2016  aprile 23 Sabato calendario

LE NUOVE VIE DEL CACAO

Se state scartando un cioccolatino o addentando un quadratino di fondente, sappiatelo: un giorno neppure troppo lontano, per questo lusso dovrete ringraziare l’America Latina. In Asia si produce sempre meno cacao, perché paesi come l’Indonesia scelgono colture più facili (l’olio di palma e l’albero della gomma). In Africa, che tra Costa d’Avorio e Ghana fornisce il 60% della produzione mondiale, le rese degli alberi sono poco più che in stallo. Il tutto mentre cinesi, indiani, malesi, giapponesi e mediorientali si scoprono sempre più golosi di cioccolato. E allora sarà l’America Latina, prevedono gli esperti, a placare la voglia globale di scioglievolezza.
Il cioccolato è un privilegio da ricchi. First taste of chocolate in Ivory Coast (quasi 7 milioni di visualizzazioni) è un efficace video su YouTube girato da Metropolis, collettivo di giovani videomaker che posta minidocumentari su storie apparentemente “normali” girate in tutto il mondo. In questo mostra cosa succede in una piccola azienda agricola che produce fave di cacao quando si fanno assaggiare ai contadini dei pezzetti di cioccolato. Sospetto, stupore... quindi esclamazioni di giubilo: più per l’esperienza in sé che per la scoperta gustativa. Chi coltiva l’albero del cacao (dalla Costa d’Avorio proviene il 40% del mercato mondiale) non ha infatti quasi mai idea di cosa “altrove” si faccia con quei semi, né del perché siano così ambiti. «Conserverò l’incarto per mostrarlo ai miei figli», dice alla fine un farmer.
Una barretta nei supermercati dei paesi in via di sviluppo costa l’equivalente di due euro, e se si tiene presente che la paga media in una piantagione si aggira intorno ai sette al giorno, è facile dedurre che il consumo locale è poca cosa: toccherebbe lavorare tre ore per qualche attimo di delizia.
A Oriente il quadro è diverso. «Mentre in Europa e negli Usa i consumi rimangono più o meno stabili, in Asia i dati dell’International Cocoa Organization mostrano grafici in costante crescita», spiega Doug Hawkins, esperto di commodities alimentari e managing director della società londinese di analisi finanziarie Hardman Agribusiness (nonché autore del report Destruction by Chococolate, febbraio 2016). «Ogni cinese mangia all’anno poco più di mezzo chilo di cioccolato. In Malaysia in un triennio si è arrivati a un chilo e 600 grammi: se la Cina, o l’India, correranno come i malesi, e i presupposti ci sono, a breve i più popolosi continenti del mondo triplicheranno la loro fame di cioccolato, e allora sì, non ce ne sarà abbastanza per tutti.
Gli stock mondiali di macinato (il semilavorato da cui si ricavano polvere e burro di cacao) all’inizio del 2000 erano al 70%, oggi sono scesi al 38%. Oggi nel mondo si producono dai 4,1 ai 4,3 milioni di tonnellate: per non sperimentare un deficit tra domanda e offerta, bisognerà arrivare in un quinquennio a 5».
Dove andranno, quindi, le grandi industrie del dolce a procacciarsi le fave? «In America Latina stiamo assistendo a una rivoluzione del settore», racconta Antonio Feola, responsabile dell’Ufficio materie prime di Aidepi, l’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane, e membro del Consultative Board on the World Cocoa Economy dell’Icco. «Le aziende agricole lì hanno fatto passi da gigante. I nostri associati raccontano che ci sono paesi in cui vengono convertite a cacao perfino le piantagioni di coca. Il prezzo della materia prima, quotata sulle due piazze di Londra e di New York, negli ultimi due anni è quasi raddoppiato, e i benefici sono arrivati a tutta la filiera, fino ai campi».
Il cacao è una pianta estremamente fragile, soggetta a frequenti attacchi di funghi e microrganismi che possono distruggere gli alberi in tempi brevissimi. «Negli anni ’80 il Brasile era un importante produttore: in pochi anni un fungo falcidiò l’80% delle coltivazioni, tanto che neppure oggi il Paese è riuscito a recuperare», ricorda Hawkins. L’umidità di cui l’albero necessita per crescere fa sì che gli agenti nocivi proliferino, «ma in Africa i contadini non sono in grado di tutelarsi. Il livello tecnologico o scientifico delle tenute è basso: le modalità attuali di coltivazione non sarebbero sembrate fuoriluogo ai tempi di Cristo. Invece in Ecuador o in Colombia stanno facendo progressi enormi», spiega Hawkins. «Con le giuste sementi, fertilizzanti adatti e sistemi di irrigazione sofisticati si è passati da una resa di 400 kg per ettaro a 2,5 tonnellate. E si riesce a coltivare anche in climi più aridi, purché nei pressi di bacini idrici. Le piante, così, oltre a dare più frutti, sono protette dai rischi biologici».
Ciò che impedirebbe la tanto preannunciata e dibattuta “fine del cacao” nel 2020 non è l’aumento delle piantagioni a scapito della foresta, ma lo sviluppo di una agricoltura più profittevole e moderna. «Faccio l’esempio della Costa d’Avorio: nel 2000 si producevano 1,41 milioni di tonnellate su 2 milioni di ettari di terreno. Per quanto sia difficile fidarsi delle frammentarie (e a volte contraddittorie) informazioni del governo e dei ministeri locali, 15 anni dopo siamo a 1,79 milioni di tonnellate, ma su 2,73 milioni di ettari: la resa, quindi, invece di aumentare, peggiora», spiega Hawkins.
Il fatto è che mentre in Sudamerica all’impegno degli imprenditori si unisce quello di vari governi, in Africa la situazione è più complessa: «Il governo ivoriano dal 2015 garantisce ai contadini l’equivalente di un euro e mezzo per ogni kg di prodotto (più del 50% rispetto al 2014) e anche le aziende private stanno intervenendo con progetti che aiutano per esempio nel processo di essiccazione e fermentazione delle fave (dove prima si perdeva il 30% del raccolto)», sottolinea Feola. Ma l’impossibilità per un piccolo imprenditore agricolo africano di possedere la terra, e quindi il divieto di accedere al credito per implementare la produzione, fa sì che si resti ancorati a modelli di sviluppo primitivi.
Con una logistica resa impossibile dalla mancanza di infrastrutture, in balìa dei capricci del global warming e con una popolazione di agricoltori la cui età media è di 50 anni («I giovani africani appena possono lasciano le piantagioni per le città, al contrario degli ecuadoriani, che restano in azienda, consapevoli che ci sarà margine di evolvere», dice Hawkins), sembra chiaro che nel futuro le tavolette saranno sempre più latino americane. E in fondo, non se ne resta nemmeno troppo sorpresi. Il cacao viene da lì: sarà il suo ritorno a casa.