Camilla Ghirardato, Focus 5/2016, 27 aprile 2016
FATELO VOI, IO M’IMBOSCO
Di sicuro è stato onesto. Al momento di andare in pensione, qualche anno fa, un dipendente del comune tedesco di Menden ha inviato ai suoi ex colleghi un’email in cui ammetteva di aver passato i 14 anni precedenti senza fare niente.
Anche se a simili confessioni siamo meno abituati, in realtà sappiamo bene che il signore tedesco è in buona compagnia. Periodicamente le cronache ci raccontano di impiegati che timbrano il cartellino e vanno a farsi gli affari propri e di dipendenti “malati” beccati al mare. O a fare un secondo lavoro: secondo un’indagine dell’Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale) su 1.300.000 controlli domiciliari effettuati dall’Inps nel 2012, nel 20 per cento dei casi il lavoratore non è stato trovato a casa e otto volte su cento era in malattia per svolgere un secondo lavoro. Casi limite, certo. In genere gli sfaticati preferiscono girovagare per gli uffici lasciando la giacca sulla sedia per far vedere che sono presenti; oppure restano ancorati alla scrivania per poter navigare tranquillamente in Internet mentre gli altri sgobbano. Perché i lavativi sono abilissimi a scrollarsi di dosso il lavoro facendolo scivolare sulle spalle degli altri.
FURBI, PASSIVI E INVOLONTARI. «Possiamo riconoscere due categorie di fannulloni: il furbo e il passivo. Il primo attua il suo dolce far niente con faccia tosta, è il classico che si frega le mani quando riesce a scansare qualche obbligo. Usa molta creatività nell’inventare scuse e addurre pretesti, e riesce spesso ad abbindolare anche il capo da cui quindi è protetto: come tale, risulta intoccabile», dice Marco Vitiello, docente di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università La Sapienza di Roma. «Il secondo, invece, preferisce non fare per non sbagliare: la causa, di solito, è che il suo lavoro non gli piace e svolge le sue mansioni controvoglia e al rallentatore». Roland Paulsen, dell’Università di Lund, in Svezia, aggiunge una categoria in più: l’inattivo “involontario”. «Non è che non abbia voglia di lavorare: semplicemente, gli sono assegnati pochi compiti». Paulsen è un esperto del fenomeno del “lavoro vuoto” – ovvero le ore di lavoro impiegate per attività personali – e sul tema ha scritto il libro Empty Labor. Idleness and Workplace Resistance (Cambridge University Press). «All’inizio, scoprire che non c’è molto da fare può essere divertente. Poi, nelle ore vuote, subentra la noia. E a quel punto chiedere di essere meglio utilizzati può diventare difficile: si rivelerebbe quanto poco si è fatto fino ad allora, magari con la possibilità non di avere più compiti ma di apparire superflui. È quanto è successo al dipendente tedesco che ha scaldato la sedia per 14 anni: nella sua email ha spiegato che l’organizzazione del suo dipartimento era cambiata e lui non serviva più».
IL POSTO GIUSTO. È vero, sostiene Paulsen, che perdere tempo è un comportamento più diffuso di quanto ci piacerebbe pensare. «Vari studi indicano che in media spendiamo due ore al giorno in attività private sul lavoro. Ma qualcuno arriva agli estremi. Ho intervistato impiegati che passavano così metà del loro orario lavorativo: una pubblicitaria che scriveva il suo blog, un archivista che ha ultimato la sua tesi...». Possibile che nessuno noti i fannulloni? Che cosa permette la loro sopravvivenza? Gli studiosi hanno individuato alcuni fattori favorevoli, legati al tipo di lavoro e di organizzazione. Il primo: la mancanza di un collegamento chiaro tra risultati e tempo. «Se i capi non sanno quanto impegno ci vuole per fare qualcosa, è possibile che una persona ne approfitti. Oppure accade che i lavoratori portino a termine i compiti di cui sono direttamente responsabili, impiegando però il resto delle ore per sé», dice Paulsen. «La maggior parte delle persone intervistate per i miei studi sono impiegate in uffici, con un buon grado di autonomia nel lavoro». L’habitat ideale del fannullone, poi, è una organizzazione abbastanza grande in cui mimetizzarsi. «Nelle culture tradizionali non esiste la figura del parassita», spiega Giovanna Salvioni, docente di antropologia culturale all’Università Cattolica di Milano. «I Boscimani, gruppo etnico africano, vanno a caccia in tre: impensabile che uno di loro si sottragga al suo dovere. Il fannullone è una creatura del mondo occidentale e nasce in una società stratificata dove è possibile imboscarsi».
PIGRIZIA SOCIALE. È nei grandi gruppi infatti che può scatenarsi l’effetto Ringelmann (dal suo scopritore, il francese Maximilien Ringelmann): la tendenza dei membri a divenire meno produttivi man mano che la dimensione del team aumenta. Gli psicologi parlano di pigrizia sociale, appunto, descrivendo il fenomeno per cui le persone si sforzano di meno se lavorano in un gruppo. E la possibilità di nascondersi nella folla e di beneficiare degli sforzi collettivi senza dare il proprio contributo permette l’emergere di quelli che gli psicologi chiamano free rider: nel linguaggio comune li definiamo scrocconi o, nel nostro discorso, lavativi. Riassume Vitiello, «gli habitat ideali quindi sono: il settore pubblico, purtroppo, perché si è più al sicuro; le grandi organizzazioni, perché ci si può camuffare; le attività impiegatizie, perché meno controllabili. La cosa curiosa è che le organizzazioni si sono ormai assuefatte agli scansafatiche e i rapporti sembrano regolati da una serie di taciti compromessi. Come accettare che al basso stipendio corrisponda un basso rendimento; o che i lavativi costituiscano “sacche” tollerate di personale riciclato o raccomandato. In fondo un gruppo è come una persona: non è perfetto. E se un individuo ha senz’altro dei difetti, anche un team di lavoro può avere qualche elemento che non funziona».
DIETRO LO SCHERMO. Il computer è l’insospettato complice del fannullone. Aiuta a dare l’impressione di essere impegnati quando in realtà si è liberi di fare shopping, prenotare un volo o visitare siti porno. In una ricerca del sito Usa Salary.com (portale online di offerte lavorative), gli intervistati hanno ammesso di perdere tempo online, soprattutto per le ricerche su Google e per stare su Facebook. Negli Usa, il 70% del traffico Internet sui siti porno avviene nelle ore d’ufficio, così come curiosamente tra le 9 e le 17 si fa il 60% dello shopping online; alcuni studi hanno evidenziato forme di web-distrazione dal lavoro a Singapore, in Germania, in Finlandia... A conferma che il battere la fiacca non conosce frontiere. Del resto, l’istituto di ricerca statunitense Gallup ha scandagliato le motivazioni di 25.000 impiegati di 142 Paesi. I risultati sono sconfortanti: solo il 13% dei lavoratori si dice davvero impegnato in ciò che fa, gli altri si dividono tra il 63% di disinteressati alla propria attività, e il 24% di disimpegnati attivi, cioè gli insoddisfatti che remano addirittura contro. Per l’Italia le percentuali sono 14% di impegnati, 67% di disinteressati e 18% di disimpegnati attivi. Con una così corposa percentuale di lavoratori indifferenti, non stupisce che qualcuno si sia posto il problema di come simulare l’interesse che non si prova, per esempio, durante una riunione di lavoro. Sulla community della piattaforma editoriale Medium.com al riguardo fioccano consigli. Come annuire mentre si finge di prendere appunti e chiedere al relatore di tornare indietro di una diapositiva: machiavellici, non c’è che dire.
IL CERVELLO PIGRO. L’ambiente conta moltissimo, dunque. Ma se un po’ fosse anche questione di chimica cerebrale? È questa la conclusione a cui sono giunti i ricercatori della Vanderbilt University di Nashville (Usa) guidati da David Zald: reclutati 25 uomini e donne tra i 19 e i 29 anni, hanno fatto svolgere loro un compito in cui potevano scegliere il livello di fatica e di retribuzione conseguente. Ognuno si è impegnato a modo suo, chi con più lena, chi con fiacca. Poi il loro cervello è stato esaminato con la Pet (la tomografia a emissione di positroni). I più determinati e produttivi avevano un maggiore rilascio di dopamina in aree del cervello legate alla motivazione, come lo striato e la corteccia prefrontale ventrocentrale. Al contrario, gli “scansafatiche” mostravano di avere più alti livelli di dopamina in un’altra area, legata all’emozione e alla percezione del rischio, l’insula anteriore. Insomma, l’attività di un neurotrasmettitore in una precisa area del cervello sarebbe associata a una minore disponibilità a darsi da fare.
Ma, a prescindere dalla voglia di lavorare, un modo per diventare più efficienti ci sarebbe. Alcuni studi dimostrano che staccare ogni tanto dai propri compiti aumenta la produttività. Brent Coker della University of Melbourne (Australia) ha per esempio messo sotto esame 300 lavoratori: quelli che ogni tanto andavano in Rete (entro un limite del 20% del loro orario d’ufficio) erano più produttivi. E nella stessa direzione va uno studio dell’Hiroshima University, secondo cui guardare online immagini di deliziosi cuccioli aumenta addirittura la concentrazione. Farlo (con moderazione) anche alla scrivania potrebbe farci lavorare meglio.
Camilla Ghirardato