Riccardo Paradisi, Il dubbio 22/4/2016, 22 aprile 2016
CLINT EASTWOOD, IL DUBBIO DENTRO LA MACCHINA DA PRESA
La notizia della morte di Clint Eastwood – una bufala propalata dal web che a inizio aprile ha fatto il giro del mondo – non ha impressionato più di tanto il vecchio leone del cinema americano. Con la sua morte il vecchio Clint ci ha già fatto i conti. L’ha messa in scena, con tanto di bara e funerale, in Gran Torino, con il sacrificio del suo alter ego Walt Kovalski, un suicidio in effigie dell’immagine che di Eastwood milioni di spettatori hanno proiettato nell’immaginario collettivo di questi ultimi quarant’anni.
Gran Torino in effetti può essere visto come una sorta di manifesto retrospettivo del discorso di Eastwood: non è un caso che l’interpretazione del personaggio di Walt Kowalski abbia coinciso con il suo congedo di attore. Un film di ripensamento e di riapertura del racconto che Eastwood ha fatto in questi anni di se stesso – come tipo di americano – e del suo paese. Walt Kowalsky, il vecchio operaio della Ford asserragliato nel suo villino monofamiliare, incarnazione plastica dell’America nazionalista e xenofoba, impara, come i suoi vicini di casa hmong, in una città ormai divenuta multietnica, siano più prossimi e intimi al suo universo etico e alla sua sensibilità umana di quanto non lo siano i suoi parenti stretti, figli e nipoti ormai mostrificati da un consumismo compulsivo e straccione. È per difendere un ragazzo di quella comunità dalla violenza i un gang che Kowalsky passa all’azione, come il suo predecessore Callaghan, anche se stavolta la sua arma non è la 44 magnum ma il sacrificio personale. Il protagonista si presenta inerme dai persecutori del suo giovane amico – che intanto ha adottato come un figlio – e si fa ammazzare, salvando oltre al ragazzo la sua stessa anima, su cui pesa l’uccisione d’un giovane coreano ai tempi della guerra. È al suo giovane amico che Walt lascia in eredità la sua Gran Torino, sulla quale avevano messo gli occhi i suoi nipoti. In questo racconto c’è tutta la dialettica di cui è tessuta la narrazione eastwoodiana di quasi mezzo secolo.
Ci sono l’ispettore Callaghan e il texano dagli occhi di ghiaccio, l’allenatore di Milion dollar baby e il William Munny degli spietati. C’è la complessità di un discorso che non teme di entrare nelle pieghe dell’ombra americana e più in generale umana e che soprattutto non pretende di risolverne la tragedia con una catarsi pacificatoria. Distante da ogni politically correct di sinistra come da ogni muscolare e manicheo semplicismo di destra (in particolare, di quella americana), Clint Eastwood viene tuttavia ancora guardato con la diffidenza che si riserva agli outsider in odore di reazionarismo da chi non ha capito due o tre cose di questo straordinario ottantenne, cui non si perdona ancora la saga dell’ispettore Callaghan. Un autore che ha portato il suo sguardo spietato come si diceva nell’ombra dell’anima americana e occidentale, sondandone fino a far male le contraddizioni e le vergogne, ma senza disconoscerne le virtù.
In un film come gli Spietati (1992), che riesce a essere antiretorico e insieme struggente, Eastwood archivia ogni mitologia del vecchio West, demistificando l’epopea della frontiera e incaricandosi di liquidare la sua stessa icona da pistolero senza nome, affidando al suo personaggio il ruolo di un killer male in arnese finito ad allevare maiali.
Con Mystic River (2003) il suo bisturi affonda nella materia perturbante degli abusi sessuali e della pedofilia; ma anche qui, persino qui, buoni e cattivi non sono separati da una netta linea divisoria, tutto è confuso nel grigio delle rimozioni, delle complicità d’un non vedere che consente l’abiezione. Mystic river è sicuramente il film più “scandaloso” di Eastwood, non solo per il tema scabroso di cui tratta ma proprio per il suo rifiuto di pronunciare rispetto al male un verdetto umano definitivo, fino a presentare il paradosso per cui chi si arroga l’arbitrio di fare giustizia corre il pericolo di commetterne una ancora più definitiva e irredimibile. Jimmy è convinto che ad avere ucciso sua figlia sia il suo vecchio amico Dave. Sospettato perché a sua volta abusato da ragazzino e adesso anche traumatizzato dall’abbandono della moglie. Jimmy cattura Dave, lo costringe a confessare e poi lo uccide. In realtà Dave ha confessato per sfinimento: i veri assassini, due ragazzini, vengono arrestati da Sean, un amico di Jimmy il quale a questo punto capisce di avere ucciso la persona sbagliata. È il paradosso di Edipo: siamo ciechi – ci dice Clint – e crediamo di poter vedere e giudicare l’esatto confine tra il bene e il male agendo di conseguenza. Non è così. Non c’è sotto il cielo una verità ultima che gli uomini possano impugnare. E lo sa bene Frankie Dunn (personaggio interpretato dallo stesso Eastwood), l’allenatore di Maggio di Milion dollar baby (2004) quando deve decidere se staccare o no la spina alla sua amica, completamente paralizzata per una frattura alla spina dorsale prodotta sul ring. È la stessa Maggie a chiedere a Dunn, ormai un padre per lei, di farla finita, di staccarle il respiratore. Il vecchio allenatore si confronta con un sacerdote: «... non devi fare nulla – gli dice il prete – sta a Dio aiutarla». La risposta di Eastwood è secca: «È a me che ha chiesto aiuto, non a Dio». La replica del sacerdote è anch’essa, a suo modo, impeccabile: «Se farai ciò che ti chiede, te ne sentirai per sempre in colpa». Ma la scelta e la colpa – ci dice Eastwood – sono inestricabili. Dunn allora si assume il peso di una scelta dolorosa di cui neanche lui è convinto, caricandosi di una colpa per amicizia. Non c’è però nessuna propaganda a buon mercato per l’eutanasia in Million dollar baby, l’eutanasia piuttosto è tematizzata all’interno di una narrazione sulla via crucis del corpo paralizzato, che porta a riflettere sulle implicazioni e il mistero del dolore umano, al di là di ogni posizione precostituita laica o religiosa. Million dollar baby è la consacrazione di Eastwood come narratore straordinario di dilemmi morali intessuti nel dibattito contemporaneo, capace soprattutto di soffermarsi sull’analisi dei rapporti interpersonali e principalmente sullo scontro tra dogma ed esperienza. E di farlo con un nitore stilistico al limite dell’astrattezza che ha reso il suo cinema un’esperienza unica pur nella classicità della narrazione, dove le immagini sono il velo appena trasparente a svelare le potenti emozioni in esse contenute. Senza mai scadere nel sentimentalismo e di converso senza restare, alla maniera di certe ignavie autoriale, al di qua di una morale.
Ci sono appunto le scelte da fare a cui la vita costringe. Momenti dove non è possibile l’inazione. O l’attesa. Per questo American sniper (2013), film che racconta la vicenda di un ragazzo americano che decide di arruolarsi per far fuori i terroristi, non è in contraddizione con quanto si è detto fin qui circa la laicità del cinema di Eastwood. American sniper si lega al dittico Flags of Our Fathers (2006) e Lettere da Iwo Jima (2007). Eastwood fa invece piazza pulita di ogni retorica guerresca hollywoodiana. Lo sguardo è quello dei combattenti americani e giapponesi, non degli Stati Maggiori o degli uffici di propaganda, e nemmeno dei cittadini che leggono della guerra sui giornali, facendo un tifo patriottico. Eppure, questa elegante antiretorica militarista non ha l’esito scontato di gran parte del cinema antimilitarista americano, non sfocia nell’ideologia pacifista: Eastwood mostra orrore per la guerra, disprezza gli apparati e il fanatismo nazionalista, ma lascia intendere un grande rispetto per chi si muove nel conflitto con un codice e un’etica.
Con Gran Torino (2009), l’ultimo suo capolavoro e forse il suo testamento spirituale, si chiude il cerchio, meglio il circolo ermeneutico del discorso di Eastwood che si apre a un momento superiore.
Chi dice infatti che l’ultimo Eastwood sia un’altra cosa rispetto a quello di Callaghan in fondo si sbaglia. No, lo sguardo di Kowalsky sul mondo è spietato e intransigente come quello del suo precedente avatar che in fondo, pur nei modi sbrigativi di un giustiziere che affrontava viso a viso il male, rifiutava l’idea di un potere statale burocratico che arrogasse a sé il monopolio della legge e dell’ordine. Eastwood non ha mai smesso di dire che il potere non coincide con l’autorità, che l’individuo viene prima del collettivo, che un vero uomo risponde alla propria coscienza prima che a una struttura o a una qualche astratta ideologia, che le azioni sono più importanti delle parole, che la vita è una vicenda complicata, impastata al tempo stesso di violenza e sensibilità, che da soli non si scioglie il mistero che ci circonda né si esce dalla contraddizione che ci rende uomini.
Soprattutto che il bene e il male si intrecciano sempre all’interno del proprio stesso essere, che l’ombra che per abitudine proiettiamo sul colpevole, sul nemico, sull’altro è la stessa che ci portiamo dentro. Resta infine vero quello che del cinema di Eastwood ha colto Christian Viviani nel suo Contrastes la tradition classique chez Clint Eastwood, (2003): la capacità di inserire all’interno di un registro classico di narrazione un sistema di opposizioni, conflitti, contraddizioni morali e ideologiche insanabili.
Eastwood insomma risale all’origine del modello classico cinematografico americano – Ford e Griffith – per ripensarne però e radicalizzarne le risorse fino a esprimervi una libertà di pensiero al limite dell’ambiguità e del paradosso. Le questioni morali che Eastwood mette in gioco mostrano tutta la loro contraddittorietà in racconti dove l’eroe può tramutarsi in un’antieroe per una coincidenza, una necessità o semplicemente per un errore di valutazione. Mostrano come basti una svista, un’impennata dell’anima o un suo momentaneo collasso per ritrovarsi nel cerchio maledetto dei monatti, sul banco degli imputati. E finalmente comprendere che non sta a noi il giudizio. Che il nostro compito è solo sopravvivere con dignità, se possibile anche con uno stile.