Sabino Cassese, Domenicale – Il Sole 24 Ore 24/4/2016, 24 aprile 2016
LE QUESTIONI MERIDIONALI
Perché l’Italia, politicamente unita da un secolo e mezzo, è ancora economicamente divisa? Nel corso del secolare dibattito sulla questione meridionale, da questa domanda sono scaturiti molti altri interrogativi. Il primo riguarda la linea di distinzione: si può parlare di una questione “meridionale”, oppure la questione riguarda il mezzogiorno continentale, non le isole, o le sole “province napoletane”, o solo alcune zone di un Mezzogiorno a macchie di leopardo? Il secondo riguarda i punti sui quali cade l’accento: il divario riguarda l’orografia e in generale la geografia, le risorse, le colture, i trasporti e l’economia in generale, o attiene anche alla mentalità e alle culture, alla società e alla politica, alla civiltà in generale? Il terzo riguarda le cause: il ritardo è da imputare ai residui feudali, allo “sfasciume”, alla “disgregazione sociale”, ai “demoni”, ai “cafoni”, all’immoralità, alla mafia e alla camorra, cioè a cause interne al Sud (o alle sue aree non sviluppate), oppure allo sfruttamento del Nord (“la ricchezza del Nord è prodotta dalla miseria del Sud”)? Il quarto riguarda le dimensioni del divario: gli studi storici hanno dimostrato che esso era inizialmente meno forte, che è aumentato dopo l’Unità, per poi diminuire, allargarsi nuovamente, diminuire nuovamente nel secondo dopoguerra, salvo aumentare negli anni più recenti. Si è, quindi , in presenza di una sola “questione meridionale”, oppure questa ha avuto declinazioni diverse? Infine, il divario come va misurato, comparando il Sud al Nord, oppure comparando il Sud di oggi al Sud di ieri?
Il paradigma dualista, quello che contrappone un Nord sviluppato a un Sud non sviluppato, ha fornito una rappresentazione della realtà per lungo tempo non corrispondente ai dati di fatto, perché per molti decenni dopo l’Unità politica del Paese anche numerose zone del Nord, alpine, subalpine, appenniniche e persino marittime sono state poco sviluppate.
In secondo luogo, il paradigma dualista, anche ammesso che fosse originariamente corretto, è divenuto col tempo una semplificazione non più corrispondente alla realtà, perché alcune zone del Sud si sono sviluppate economicamente. […] I termini della “questione meridionale” sono quindi cambiati. [….]
In terzo luogo, gli economisti, gli storici e i sociologi che hanno smesso di andare per il Sud “a piedi e a dorso di mulo”, come Franchetti e Sonnino, sono rimasti prigionieri del paradigma dualistico, del modo in cui la “questione meridionale” è stata percepita e studiata nel corso di un secolo. Con la conseguenza di rendere necessarie verifiche sulla portata storica dei modelli storiografici.
Infine, il progresso degli studi di tipo comparativo sta riportando l’attenzione sul ruolo delle istituzioni. Ci si è chiesto, infatti, che cosa spieghi divari di sviluppo come quelli tra Germania occidentale e Germania orientale, tra Corea del Nord e Corea del Sud, tra Haiti e la Repubblica Dominicana. La risposta è che il buon governo e le buone istituzioni (assenza di corruzione, tutela della proprietà privata, rispetto della legalità e dei contratti, certezza negli investimenti, scarsa incidenza degli omicidi e tutela della persona, efficacia nell’azione di governo, eccetera) contano nella ricchezza e nella povertà delle nazioni.
Ma l’incidenza delle istituzioni sul progresso civile ed economico, nel caso italiano, è complicato da due ulteriori fattori. Il primo riguarda il ruolo del personale meridionale nella guida della macchina statale. Se Franchetti nel 1877 scriveva che “i funzionari pubblici non debbono essere siciliani”, dopo poco più di un ventennio iniziò la “meridionalizzazione dello Stato”, subito segnalata da Nitti e da Salvemini, ed essa prese il posto della lamentata “piemontesizzazione” delle istituzioni. […] Se il Sud si è impadronito dello Stato e delle istituzioni in generale, c’è da chiedersi perché meridionali che operavano nelle “stanze dei bottoni” si siano “nazionalizzati”, diventando solo “servitori dello Stato” e non abbiano fatto di più per le loro terre natali. C’è, anzi, da spiegare perché il divario Nord – Sud trovi un riflesso anche nelle istituzioni. Recenti indagini hanno mostrato che il Sud costa di più per pensioni di invalidità; le regioni e i comuni del Sud hanno un numero di dipendenti e una spesa per abitante superiori a quelli del Nord; il costo della politica per abitante è maggiore nel Sud; le prefetture del Sud costano per abitante più di quelle del Nord; le regioni del Sud pagano corrispettivi per posto-chilometro per trasporto molto più elevati che quelle del Nord.
Il secondo fattore è culturale. La prevalente cultura formalistica italiana si è adagiata sull’idea che l’unificazione politica abbia portato a una uniformità normativa ed amministrativa. […] Invece, se si misurano non le istituzioni sulla carta, ma quelle reali, le prassi, le interpretazioni, i costumi, le consuetudini, si notano differenze anche molto forti tra uso delle istituzioni nelle regioni del Nord e uso delle istituzioni nelle regioni del Sud, ciò che offre un’altra chiave interpretativa per la comprensione delle diverse “questioni meridionali”. Ricerche recenti mostrano che al Sud sono mancati e mancano un sistema legale efficiente, adeguate infrastrutture e capitale umano qualificato. Gli indicatori della qualità delle istituzioni, ricostruiti provincia per provincia italiana, provano che tutte le province del Sud sono notevolmente distanziate da quelle del Nord. L’indice dei livelli di corruzione, della burocratizzazione, dell’organizzazione dei servizi pubblici, della dotazione di infrastrutture e delle condizioni di sicurezza presenta al Sud valori inferiori a quelli del Nord. La distanza è maggiore nei casi delle regioni Calabria, Sicilia, Campania, Molise; minore in quelli delle regioni Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sardegna. Istituzioni deboli producono scarso sviluppo economico. E i pur cospicui interventi speciali dello Stato, iniziati qualche decennio dopo l’Unità e durati un secolo, fino all’istituzione degli enti regionali, nel 1970, non sono riusciti ad incidere sulla qualità delle istituzioni, che non è determinata soltanto da leggi e da uomini, ma anche da costumi, da contesti e da culture diffuse.
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Questo testo è tratto dal saggio introduttivo del libro Lezioni sul meridionalismo. Nord e Sud nella storia d’Italia , a cura di Sabino Cassese, il Mulino, Bologna, pagg. 324, € 25, in libreria dal 28 aprile
Il volume raccoglie le lezioni tenute alla Fondazione Dorso da Francesco Barbagallo, Francesco Barra, Piero Bevilacqua, Guido Fabiani, Domenicantonio Fausto, Francesco Saverio Festa, Giuseppe Galasso, Adriano Giannola, Francesco Giasi, Agostino Giovagnoli, Amedeo Lepore, Maurizio Griffo, Guido Melis, Giuliano Minichiello, Pietro Polito, Massimo Luigi Salvadori, nonchè due scritti,
di Antonio Giolitti e di Giorgio Napolitano
Sabino Cassese, Domenicale – Il Sole 24 Ore 24/4/2016