ANGELO AQUARO, la Repubblica 24/4/2016, 24 aprile 2016
BOYCOTT ROCK
Corsi e ricorsi. Chi l’avrebbe mai detto che la nobilitate dei nostri rocker si sarebbe un bel giorno parrata nell’ennesima guerra di liberazione, e ci mancherebbe — ma nientemeno che delle toilette? Ah, i tempi gloriosi e maledettamente sanguinosi dei primi storici boicottaggi, il Montgomery Bus Boycott ispirato dal coraggio di Rosa Parks, e poi la marcia su Selma, Martin Luther King, Pete Seeger che canta We Shall Overcome.
Ah, i tempi magari meno gloriosi, ma così edificanti del “Live Aid”, poco più di trent’anni fa, 1985, il concertone visto in tv da quasi 2 miliardi di persone, 150 nazioni per sfamare l’Africa, tutti uniti da Michael Jackson a Stevie Wonder nel cantare a squarciagola We are the world. E come dimenticare il padre di tutti i concertoni, “The Concert for Bangladesh”, l’evento voluto nel lontanissimo 1971 da George Harrison — con il piccolo aiuto di Ringo Starr, Eric Clapton e un certo Bob Dylan. Ecco: quelli sì che erano i tempi in cui il rock alzava la testa e da protesta si trasformava in proposta. O no?
Non che la causa di oggi non sia nobilissima. Anzi. Da Bruce Springsteen all’immarcescibile Ringo, dai Pearl Jam a Ryan Adams per arrivare — mais oui — perfino al Cirque du Soleil, gli artisti più sensibili sembrano aver ritrovato l’engagement di un tempo dichiarando guerra alla legge del North Carolina che vieta a gay e transgender l’utilizzo del bagno che ritengono più appropriato. «Ci sono cose più importanti di un concerto rock», ha spiegato il Boss dei concerti rock ai suoi fan dopo la cancellazione del tour nello stato anti-gay. «E questa battaglia contro il pregiudizio e il bigottismo è una di quelle». Perfetto. Ma davvero l’onda di proteste segna il ritorno all’attivismo perduto?
«Chiariamo: non siamo tornati agli anni ‘60 delle battaglie sui diritti civili e la guerra in Vietnam. La musica oggi non è più parte integrante di un movimento di giustizia sociale», dice a Repubblica Stephen Petrus, autore di Folk City: New York and The American Folk Music Revival. «Sì, è vero che da Kendrick Lamar a Springsteen sono davvero tanti gli artisti che denunciano le politiche reazionarie di certi Stati. Ma dietro non c’è un movimento organico: stavolta, insomma, è differente». E infatti: che fine hanno fatto le protest songs? Sì, ci aveva provato il povero Prince a spiegare la rivolta delle città nere: troppi giovani uccisi dalla polizia, da Beyoncé in su tutti a urlare Black Lives Matter, le vite dei neri contano. Ma la Baltimore del compianto re pop funk non è certo diventata un hit. E poi: avrete mica sentito nessuno cantare, oggi, contro la legge che nega i gabinetti multisex? «Ogni canzone a soggetto suonerebbe didattica: l’ennesima predica moralistica. E chi si arrischia a scrivere un pezzo che dura solo lo spazio di una battaglia? Guardate invece Bono: in ogni show degli U2 spunta il richiamo alla povertà globale. E funziona». Lo show è il messaggio?
Eunjce Rojas e Lindsay Michie hanno raccolto di tutto nei 23 capitoli del monumentale Sounds of Resistance: “I canti di resistenza dagli schiavi al rap”, “La musica di protesta contro la guerra in Vietnam”, “La nuova retorica politica dell’hip hop nell’era Obama”. E che cosa hanno concluso? Che per quanto nobili gli obiettivi dei promotori (lasciamo qui tra parentesi lo spinosissimo caso del boicottaggio di Roger Waters e altri big a Israele) il “fenomeno” dei concertoni andrebbe ascritto a quella «commercializzazione della musica di protesta» che tanta parte ha avuto «nella più recente storia dell’attivismo Usa». E troppo spesso ha finito per «danneggiare la forza rivoluzionaria delle protest songs». Neppure il rock a fin di bene ha fatto poi così bene?
Epensare che proprio dai boicottaggi nacque la musica dei giovani. Non solo perché senza la serrata che alla fine della seconda guerra mondiale oppose le radio Usa ai mammasantissima dell’Ascap non avremmo mai avuto né Elvis Presley né Bob Dylan. Lo racconta benissimo Norman Kelley in R& B: Rhythm and Business. Fu proprio la richiesta di alzare le royalties a spingere le emittenti a boicottare la Siae d’America e favorire un’altra associazione di categoria: la Bmi. Che pescò in un bacino di autori fino ad allora rimasti fuori mercato: cioè musicisti e cantanti soprattutto neri. Il boicottaggio dei bianchi dell’Ascap portò così la musica black nelle case dell’America borghese: e quindi al matrimonio con il country che fece nascere il rock.
Ma al di là di quella prima battaglia sui diritti, quantunque d’autore, è innegabile che rock & contestazione furono intrecciati sin dagli inizi. Il rock fu da subito irrimediabilmente “contro” proprio perché in piena segregazione mischiò Bianchi e Neri. «Aspettiamoci disordini a ogni concerto», giurò al New York Times il vice ispettore di polizia Francis Gannon. Era il 15 aprile 1957 e il giorno prima un quindicenne aveva rischiato di morire travolto dal treno in una rissa tra ragazzi (e ragazze) bianchi e neri dopo uno show. «Le notizie degli incidenti spinsero molte amministrazioni a mettere al bando i concerti di rock’n’roll», scrive Glenn A. Altschuler in All Shook Up: How Rock’n’Roll Changed America. Dalla California al New Jersey, «le città di tutti gli States si unirono una dopo l’altra al treno dei divieti». Già. Era la buona società, ai tempi, a boicottare il rock: e non il contrario. Che cos’è che farà invertire l’orologio della storia? La risposta è più semplice di quel che sembra. Scrive sempre il professor Altschuler nel suo studio per la Oxford University: «Verso la fine degli Anni ‘50 la grande maggioranza dei baby boomers non aveva ancora raggiunto neppure l’età da teenager: il rock’n’roll e la gioventù d’America avevano insomma la storia (e la demografia) dalla loro parte». Ma sì, in fondo lo cantavano già i Rolling Stones: «Time is on my side». Il tempo, e il rock, erano dalla loro parte. Fu il rock’n’roll «a spingere ragazzi e ragazze a resistere all’autorità dei genitori». Fu il rock’n’roll a portarli «a essere sessualmente più avventurosi». Da Fragole e Sangue alla battaglia sulle leggi antigay, passando per il “Revolution Rock” dei Clash, il passo sarà pure stato lungo: ma inevitabile.
Certo: magari qui e là ci è scappato pure qualche incidente di percorso. Tirare troppo le corde della politica, si sa, rischia di spezzare quelle della chitarra. Lo stesso Bob Dylan, il ragazzo che all’alba degli Anni Sessanta cantava The Times are a- changin’ — i tempi stanno cambiando — negli Anni Duemila del suo tramonto getterà la maschera dell’impegno. «Ero stanco del modo in cui le parole delle mie canzoni erano state estrapolate», scriverà in Chronicles, «il loro significato sovvertito nelle polemiche: io stesso consacrato di volta in volta come il Grande Fratello della Rivolta, l’Alto Prelato della Protesta, lo Zar del Dissenso, il Duca della Disobbedienza, l’Arcivescovo dell’Anarchia…». Per carità: oggi siamo (fortunatamente) lontani da quegli eccessi. Ma la domanda di partenza vale ancora. Tremate tremate: le streghe del rock engagé sono tornate?
«Le proteste di oggi stimoleranno anche il dibattito sul momento: ma nel lungo periodo rischiano di essere addirittura controproducenti », insiste Petrus, l’esperto di folk e movimenti. «Prendete un grande come Stevie Wonder. La decisione di non dare più concerti in Florida dopo l’uccisione di Trayvon Martin, il ragazzino nero ammazzato dal vigilantes bianco, non ha cambiato di una virgola quella controversa legge sulla legittima difesa. E ci meravigliamo se oggi molti attivisti chiedono agli artisti di rinunciare ai boicottaggi?». Giusto. L’ha scritto perfino su Salon — che non è proprio un sito di destra — uno storico del movimento gay come Jim Downs: «Dobbiamo educare i ragazzi e combattere per i diritti omosex qui al Sud: il boicottaggio è solo punitivo e fa male alla gente che avrebbe invece bisogno del nostro aiuto».
Corsi e ricorsi: chi l’avrebbe mai detto che a boicottare i boicottatori sarebbero stati un bel giorno proprio i poveri boicottati?
ANGELO AQUARO, la Repubblica 24/4/2016