ANDREA TARQUINI, la Repubblica 24/4/2016, 24 aprile 2016
TRA I SERBI AL VOTO CHE SOGNANO PUTIN “SOLO LA RUSSIA PUÒ DARCI UN FUTURO”
BELGRADO
Bojana è economista, Milan aveva studiato per diventare ispettore di polizia, Maja ha anche lei in tasca diplomi inutili: infermiera e maestra d’asilo. Sono tutti e tre sui vent’anni, disoccupati. Via Visegradska, civico sei: appartamento riadattato a luogo di mobilitazione. Al primo piano d’una palazzina anni Trenta, graziosa ma délabré, nella stradina in salita ombreggiata dagli alberi ai margini della vecchia Belgrado, ascoltiamo le loro storie alla vigilia del voto di oggi.
Siamo nel quartier generale di Dveri, uno dei tre dinamici partiti nazionalpatriottici-radicali e russofili il cui volo tra poche ore appare evento annunciato. L’Unione europea che non piace più, l’ammirazione per Putin, «la voglia di una vita normale, lavoro e metter su famiglia», confessano i tre, l’identità slava come speranza di futuro muovono loro come tanti giovani serbi.
«Nell’impegno politico ho trovato una luce nelle tenebre », esordisce Milan. «Che studi a fare da ispettore se poi ti dicono che non servi? Che avvenire ha una nazione se noi giovani istruiti, ma al verde, siamo costretti a partire per Germania, Canada o Australia? ». Con le elezioni politiche anticipate di oggi, il forte, giovane premier conservatore Aleksandar Vucic — ex ministro dell’Informazione di Milosevic, divenuto europeista in sintonia con la cancelliera tedesca Angela Merkel — non rischia certo la maggioranza. Le elezioni le ha convocate lui per una conferma. Ha i media in pugno. Ma i nazionalpatriottici pare entreranno in Parlamento. Disoccupazione oltre il 18 per cento, ancora più alta tra i giovani, reddito medio intorno ai 360 euro, corruzione diffusa, la gloriosa industria di Stato creata dalla monarchia e poi messa in liquidazione da Tito e le “riforme” chieste dal Fondo monetario e dalla Ue in cambio del lungo, incerto negoziato d’adesione, pesano sulla vita di tutti.
«Non ho studiato Economia e Finanza per restare disoccupata da papà e mamma», mormora Bojana, lunghi capelli lisci, maglione di foggia irlandese, jeans scoloriti. Storie di carriere negate che spingono a scelte di protesta. «Sognavo una vita nella polizia, non nella politica, non mi è rimasto altro », narra Milan, tatuato sull’avambraccio l’emblema nazionale. Vojslav Seselj, l’ideologo carismatico dei nazionalpatriottici tornato in campo, crea ottimismo. Dopo anni di detenzione, la Corte dell’Aja lo ha assolto dalle accuse di complicità in crimini di guerra.
«Noi ci sentiamo europei», afferma Maja. Passeggiamo in centro, tra i palazzi dell’esercito e il ministero degli Esteri rimasti scheletri vuoti pericolanti dopo i bombardamenti Nato, «ma da questa Ue e dal Fmi», dicono i tre giovani, «ci vengono solo ultimatum di tagli e sacrifici. Con la guerra e poi con le sanzioni hanno distrutto la nostra economia, reso inutili i nostri diplomi e lauree. Ci dovrebbero riparazioni. Invece no: il dolore della nostra povertà quotidiana, le vittime perseguitate in Kosovo, per Bruxelles contano al massimo come drammi di serie B. Questa Europa ci ha deluso».
Il passato non passa, qui nella Belgrado segnata da cicatrici di guerra: risveglia memorie antiche. Lo dicono i murales nelle viuzze della città vecchia: l’eroe è Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo 1914. «Oggi come allora», confessano i tre giovani, «la Russia per noi è soft power amico, alternativa, speranza. L’idea euroasiatica di Putin ci piace. Voi occidentali, contro di noi, avete vinto una guerra perdendovi la nostra anima. I russi denunciano insieme a noi il pogrom dei bimbi serbi di Gorazdevac, in Kosovo, massacrati nel 2005 dalla Uck mentre giocavano nuotando in uno stagno. L’Occidente ha taciuto e continua a tacere».
Umori forti li respiri anche nella città vecchia dove, a sera, nelle discoteche non lontano dal maestoso Hotel Moskva finanziato dagli Zar prima del 1914, i giovani si scatenano a ritmi anglosassoni, ma tra bandiere serbe e russe e foto di Putin proiettate sugli schermi. O alla Dom Omladine, la “casa della gioventù” dell’èra di Tito divenuta loro luogo d’incontro. «Facciamo le ore piccole, fingendo di dimenticare come si arriverà a fine mese», notano i tre. Risentimenti riecheggiano anche nelle industrie in via di privatizzazione- svendita. «Se Putin fosse stato al potere già allora, non avrebbero avuto il coraggio di bombardarci e di toglierci il Kosovo», mugugna Veselin, vecchio operaio, mentre tornati a Visegradska civico 6 i giovani preparano tavoli e microfoni per la election night. Nel centro pedonale, spopolano le t-shirt con l’immagine di Putin offerte dagli ambulanti.
ANDREA TARQUINI, la Repubblica 24/4/2016