FEDERICO RAMPINI, la Repubblica 24/4/2016, 24 aprile 2016
LE ITALIANE CHE SALVERANNO IL MONDO
NEW YORK.
Le donne italiane salveranno il mondo. Lo stanno già facendo. Una generazione di trentenni e quarantenni ha “invaso” l’azione umanitaria internazionale. Le incontri dappertutto: dalle ong alle agenzie dell’Onu. Hanno curriculum fantastici, parlano quattro o cinque lingue perfettamente, hanno lauree e master conseguiti nelle migliori università mondiali, spesso in materie scientifiche. Grazie ai loro studi e talenti professionali queste donne avrebbero potuto farsi assumere da multinazionali o grandi banche, puntare a carriere ben remunerate (per la maggior parte dei dipendenti o contrattisti l’Onu non è una burocrazia “dorata”, gli stipendi nel settore privato sono superiori). Sempre più numerose, hanno scelto invece di essere in prima linea nelle operazioni di peacekeeping, assistenza ai profughi, protezione dei diritti umani, aiuti ai bambini e alle donne nelle aree più povere, lotta al cambiamento climatico, sostegno allo sviluppo. Sono la nuova classe dirigente di una governance globale che cerca di ridurre sofferenze e ingiustizie. Alternano incarichi al Palazzo di Vetro e missioni sul campo, a volte in zone di guerra. Quando approdano al lavoro umanitario dentro le istituzioni internazionali parlano con grande rispetto del mondo delle ong e del volontariato, dal quale spesso provengono. Credevo di trovare rivalità e gelosie tra quelli che dall’esterno appaiono come due mondi ben distinti. Invece il flusso di passaggi tra volontariato, ong non-profit e istituzioni è costante. Per l’opinione pubblica spesso l’Onu è sinonimo di inazione. Ma un conto è l’assemblea politica o il Consiglio di sicurezza dove i veti contrapposti possono essere paralizzanti. Sul terreno tante agenzie Onu hanno però un know-how unico per alleviare le sofferenze tra le vittime di conflitti, siccità, inondazioni.
Non ci sono solo le donne: a capo dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), una delle più importanti, c’è l’italiano Filippo Grandi. Gli uomini italiani sul fronte umanitario riempirebbero anche loro tante pagine di storie, ma forse la loro presenza ci stupisce un po’ meno.
Delle trentenni-quarantenni colpiscono i numeri: ognuna di quelle che ho intervistato mi ha presentato a sua volta altre amiche e colleghe, coetanee e connazionali. I ritratti che ho dovuto scegliere sono un campione parziale e arbitrario. Spesso la scelta è obbligata: ho cominciato da quelle che al momento sono qui a New York. Tante loro colleghe pur avendo un indirizzo al Palazzo di Vetro stanno dislocate in interventi d’emergenza e missioni di lavoro in capo al mondo: tra i profughi siriani o i terremotati dell’Ecuador, in una guerra civile africana o un focolaio di epidemie. Altre interviste, in formato video, potranno trovare spazio su Repubblica.it.
L’esempio di queste donne sta attirando la generazione successiva. Ora le ventenni si rivolgono a loro, chiedono consigli per seguire la stessa vocazione. Perché di vocazione si tratta, più che di carriera: i sacrifici per la vita personale e familiare sono notevoli. Per alcune s’intuisce che l’Italia stava loro stretta: nelle missioni globali hanno trovato meno sessismo e discriminazione sull’ambiente di lavoro, trasparenza e meritocrazia all’assunzione, quindi più opportunità. Emigrare era spesso inevitabile, per agire sui fronti delle grandi emergenze contemporanee. E tutte senza eccezioni concordano sul fatto che «essere una donna italiana oggi ti dà una marcia in più, in particolare nell’azione umanitaria».
FEDERICO RAMPINI, la Repubblica 24/4/2016